Enrico Agostinis

 

I LUOGHI E LA MEMORIA

Toponomastica ragionata (e non) della Villa di Collina, Territorio della Carnia

 

Quando, e come

Vivente mio padre, mia prima fonte di informazione, questo repertorio prende avvio intorno al 1985 come semplice raccolta dei toponimi del territorio di Collina, con il solo intento di conservarne la memoria. Nel 1994 la collezione si conclude (almeno così ritenni allora), raggiungendo il considerevole numero di 255 microtoponimi.

Lavoro considerato concluso e fatica terminata già oltre 10 anni addietro, dunque, in attesa di qualche eventuale fruitore del già lungo elenco. Soprattutto in attesa di qualcuno in grado di andare oltre la mera elencazione e quindi affrontare – ad esempio – il problema etimologico, per dare infine piena comprensibilità e dignità alla lunga teoria dei toponimi collinotti, un lavoro che per molteplici e comprensibili (e alcune anche evidenti) ragioni non mi sentivo in grado di affrontare.

Di conseguenza, il lavoro così “concluso” trovò spazio nel mio archivio dove non pochi altri lavori, terminati o no che siano, trovano riposo, talvolta eterno.

È Enos Costantini – fortuitamente e fortunatamente conosciuto nel febbraio dell’anno 2000 in occasione di una trasmissione a Radio Onde Furlane, e al quale nell’occasione avevo “passato” una copia della mia raccolta – a spingere per una definitiva conclusione del lavoro. Chi pensasse che questo lavoro non avrebbe mai dovuto vedere la luce sappia dunque a chi rivolgersi per eventuali rimostranze…

Alla fine del 2001, subito dopo la difficile e tormentata uscita di Le Anime e le Pietre sulle case e sulle famiglie di Collina, la macchina arrugginita della toponomastica collinotta si rimette lentamente e faticosamente in moto. Riparte per terminare qui – e stavolta per davvero – il suo lungo e tribolato viaggio: 319 toponimi e microtoponimi, divenuti 322 nella nuova edizione, analizzati e commentati ai limiti delle possibilità di chi scrive, e forse un poco oltre. Questo è I luoghi e la memoria.

Perché I luoghi e la memoria

Se il titolo è il vestito di un libro (e spesso scegliamo i libri proprio come i vestiti, a seconda che il titolo o la copertina ci piaccia o meno), addosso ad un libro come questo si può davvero cucire di tutto: dai bragons da lavoro al vestito buono (quello riservato al dì di festa, con camicia candida e cravatta al seguito), dal grimâl alla vestina con i ricami, tutto va bene. Sono rigidamente esclusi solo i vestiti da alta cerimonia: mai visti frac e tight da queste parti, e neppure il meno formale ma pur sempre raffinato smoking ha mai goduto di grande popolarità…

Eppure, fra le molte alternative possibili, nell’optare per I luoghi e la memoria confesso di avere avuto più di una perplessità dinanzi ad un titolo così “importante”. Passi per i luoghi, un termine buono per tutti gli usi e tutte le stagioni, dall’agenzia di viaggi alla TV allo sport. Ma la memoria, proprio no.

La memoria-Memoria è una cosa seria, da spendere con cautela, con riguardo, persino con reverenza se non con timore. La Memoria è Aristotele e Dante, è il Piave, Marzabotto, il 25 aprile. È anche la festa del Ringraziamento, la Bastiglia, la Shoah e l’Egira e la Pasqua e Hiroshima e molto, molto altro ancora. È sintesi della storia, della dignità e delle miserie dei singoli popoli, o di tutti i popoli insieme a formare l’umanità intera. Memoria di sé, Memoria per ricordare (o per non dimenticare, che non è proprio la stessa cosa).

Memoria da “grandi”, verrebbe da dire: grandi religioni, grandi paesi, uomini e popoli, culture e l’intero genere umano. Tutto in grande, come se i “piccoli”, le piccole comunità lontane, emarginate (o autoemarginate) non avessero Memoria.

Forse è così. Forse i piccoli e gli emarginati non hanno – o non sanno avere, o non vogliono avere – Memoria e nemmeno memoria. Forse i piccoli hanno solo ricordi.

E per rendere dignità ai ricordi di questa minuscola comunità, per tramutare i ricordi in memoria (beninteso, con m rigorosamente in minuscolo) li abbiamo fatti passare attraverso i luoghi, attraverso tutti i luoghi del territorio, in una sorta di lunghissimo pellegrinaggio evocativo di cose, persone, opere, e quindi di storia, di civiltà, di cultura, e di molto altro ancora, dimenticato o rimosso che sia. Un lungo cammino per (ri)costruire memoria e radici, forse anche per sostentare un’identità sempre più anoressica e a serio rischio di consunzione.

Spogliata di tanta necessaria retorica, la sostanza de I luoghi e la memoria è tutta qui.

Ai lettori mi rimane di render conto del sottotitolo, di quella toponomastica ragionata e non apparentemente messa lì a bella posta per incuriosire il potenziale lettore. Ecco dunque come il ragionata corrisponda al tentativo di dare ragione degli oltre trecento toponimi riportati qui, allo sforzo di restituire a ciascuno ruolo e posizione, e di riscoprirne l’autentico e originale (o almeno supposto tale) significato. Un’identità storica – stavo per scrivere personalità! – quale tutti i luoghi e i toponimi che li rappresentano certamente possiedono: specificità talora immediate e trasparenti, talora tutt’altro che palesi, celate come sono dietro cortine più o meno fitte che ne occultano il reale significato. Identità che indubbiamente, a distanza di secoli, meritano una doverosa (ri)scoperta.

Con le ineliminabili approssimazioni1, questo è dunque il senso dell’aggettivo ragionata associato alla nostra toponomastica.

Al contrario, là dove associati ai toponimi emergono fatti e accadimenti e persone d’antan, spezzoni di vita vissuta e talvolta (o spesso) emozioni e sentimenti, là è la parte non ragionata della toponomastica. Là sta ciò che della toponomastica fa una cosa davvero viva e vitale, popolata di donne e uomini che su questa terra (la loro terra) hanno lavorato e vissuto, gioito e pianto e pregato (forse poco) e imprecato (certamente molto). Tutti quelli che ora dormono, dormono, sulla Collina…2

Anche questa è memoria. Di più: anche questa è Memoria.

E, finalmente, che cosa

…giace la Villa di Collina Territorio della Carnia nella più alpestre, e scoscese situazione forsi d'ogn'altra della Provincia…”.

D'accordo, l'incipit non è dei migliori. Nulla a che vedere, ad esempio, con “Quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno fra due file non interrotte di monti…”.

Né, per venir poetando a luoghi più domestici, il nostro modesto avvio sembra anche solo lontano parente del severo “O che tra i faggi e abeti erma su i campi/smeraldini la fredda orma si stampi/al sole del mattin puro e leggero…”, e neppure del giocoso e quasi frivolo “Su le cime della Tenca/Per le fate è un bel danzar./Un tappeto di smeraldo/Sotto al cielo il monte par”.

D’accordo, l’italo suolo e la Carnia – persino Collina! – hanno avuto migliori aedi del nostro avvocato (tale di nome e di fatto) prosatore. Sì, avvocato di nome e di fatto perché il nostro sconfortante incipit opera di azzeccagarbugli è, ovvero è prodotto del giurisperito-procuratore-patrocinatore che nel 1729 compose e inoltrò al Patriarca la supplica con la quale i Collinotti imploravano l’ottenimento di mansionario e sacramenti per la loro chiesa di san Michele3.

Appetto delle travolgenti ouvertures dei numi letterari di cui sopra non è però la forma a far difetto al nostro proemio. Al contrario, anch'esso è dotato di una certa qual dignità letteraria, distinzione della quale la mano mercenaria del leguleio estensore fa peraltro ampio sfoggio nel prosieguo della tanto accorata quanto lunga e meticolosa supplica, implorazione alla quale è stato da noi carpito per essere surrettiziamente trasmigrato in questa opera indegna4.

Nondimeno – sarà quel "giace" d'apertura, piazzato lì come un calcio a freddo in avvio di partita, sarà la "scoscese situazione" (sic) – così proposto lo scenario naturale che andiamo diligentemente a descrivere non sembra davvero dei più attraenti5.

D'altra parte, se è vero che questa rappresentazione di Collina e del suo territorio risulta un poco truce pur nella sua supplichevole forma settecentesca, la sostanza, dopo tutto, è ben quella. E proprio questo territorio alpestre e scosceso andiamo insieme ad esplorare, e quanto più minuziosamente possibile. Passo dopo passo, abbiate la compiacenza di seguirci.

Territorio, vie d'accesso, viabilità

Territorio6

Collina, oggi frazione del comune di Forni Avoltri in alta Carnia, è posta nella parte più elevata della breve valle (6 km circa) del rio Fulìn e dei suoi affluenti/precursori7, un solco pressoché rettilineo e orientato in direzione E-O.

Il Fulìn è affluente di sinistra del torrente Degano, nel quale si immette in corrispondenza del cosiddetto Ponte Coperto, lungo la SS 315. Il Degano è, a sua volta, il principale affluente del Tagliamento a monte del Fella: vi si immette a Villa Santina dopo avere formato il Canale di Gorto, antico e primigenio solco del Tagliamento stesso.

Profondo e incassato nella sua parte terminale, nella sua parte mediana e superiore il solco vallivo del Fulìn si allarga sul versante settentrionale (destra orografica), lasciando spazio ad ampie terrazze sulle quali si trovano le frazioni di Frassenetto, Sigilletto e Collina.

A partire dal Ponte Coperto e procedendo in senso antiorario, il territorio della frazione di Collina confina con il comune di Rigolato (fino alla forcella Plumbs)8, con il comune di Paluzza (fino alla Cima di Mezzo, lungo la cresta che collega il m. Cogliàns alla Creta Chianevate), con l'Austria (lungo il confine di Stato fino alla Tacca del Sasso Nero), con la frazione capoluogo di Forni (fino alla Cima Ombladêt), e con la frazione di Sigilletto (lungo il rio Armentin o Armentis e il rio Fulìn, fino a ritornare al Ponte Coperto)9.

In termini di coordinate geografiche, il territorio di Collina è compreso fra 46°34'13.78" – 46°36'39.24" di long. N, e 12°48'46.55" – 12°53'98.47" di lat. E.

Il limite settentrionale del territorio è posto in corrispondenza di un saliente della cresta di confine (quota 2112 CTR), poco a ONO del passo di Volaia. Il limite meridionale coincide con il limite occidentale, in corrispondenza della confluenza del rio Fulìn nel Degano, pochi metri a valle del Ponte Coperto, mentre il limite orientale è posto a SSE del m. Florìz (quota 2160 CTR), lungo la dorsale che congiunge il massiccio del m. Coglians al m. Crostis.

La massima elevazione è data dalla vetta del monte Cogliàns (2780 m), mentre la quota meno elevata del territorio (770 m) è posta alla già citata confluenza del rio Fulìn nel Degano. Il dislivello dell’intero territorio è quindi quasi esattamente di 2000 m.

La conca di Collina si apre alla base delle massime elevazioni delle Alpi Carniche, che costituiscono una formidabile barriera a difesa dai gelidi venti settentrionali: questi infatti hanno accesso alla conca di Collina solo attraverso il passo di Volaia10, consentendo così d’inverno, grazie anche alla favorevole esposizione, temperature non eccessivamente rigide.

Sotto il profilo climatico, tuttavia, non si può non sottolineare l’effetto del considerevole e ben noto abbassamento dei limiti altimetrici, comune a tutta la Carnia e quantificabile in 300-500 m rispetto al resto della catena alpina. Gli effetti sul territorio sono rilevanti sotto ogni aspetto e visibili anche al meno attento osservatore, con particolare riguardo tanto alla vegetazione spontanea quanto agli ormai rarissimi coltivi a dimensione superiore all’orto monofamiliare.

Va da sé che oggi, ormai del tutto abbandonata l’attività agricola propriamente detta, gli effetti dell’abbassamento dei limiti altimetrici sono pressoché circoscritti al solo panorama (transizione fra le diverse fasce di vegetazione, e fra l’ultima di esse e la roccia nuda), ma ben si comprende come in altri tempi l’impatto sull’economia locale dovesse essere tutt’altro che trascurabile, e certamente in senso tutt’altro che positivo.

Nell'insieme, il territorio evidenzia una morfologia assai tormentata, caratterizzata non solo dalla pressoché totale assenza di terreni pianeggianti, ma anche dalla assai limitata disponibilità di pendii dolci e soprattutto uniformi.

Con buona approssimazione, la superficie può essere suddivisa in quattro zone, in funzione di quota ed esposizione più o meno favorevole, ovvero: 1) aree già a coltivi e prati di valle, 2) foresta, 3) prati di monte e pascolo alpino, 4) roccia nuda, in larghissima parte calcare di scogliera del devoniano, di un grigio chiarissimo quasi bianco, altrimenti scisti scuri del carbonifero.

Sulle quattro superfici sopra elencate si inseriscono gli altri elementi caratteristici del territorio, quali le aree occupate dall’abitato e dalla viabilità principale11, i terreni di frana e i numerosi solchi – antichi e recenti, e talvolta di grandi dimensioni – di scorrimento delle acque (gli agârs), elemento principale della discontinuità delle superfici e dei pendii della valle su entrambi i versanti.

Più precisamente, il prato (oggi ovunque non più falciato) occupa quasi esclusivamente le terrazze a nord della conca, là dove l’intervento umano aveva creato gli spazi per coltivi e prati da sfalcio in virtù di più favorevole esposizione (S), quota (fra i 1100 e i 1300 metri di altitudine), e inclinazione (i pendii sono meno proibitivi). Terreni a prato sull'opposto versante si trovano solo verso la testata della valle, dove le pendenze si attenuano e l’esposizione muove da N a NO12.

La foresta occupa interamente il versante a bacìo, assai ripido e uniforme e con costante esposizione a N, come pure ricopre i pendii del versante a solatio al di sopra dei 1350 m e fino ai 1600-1700 m. Nella quasi totalità è formata da conifere d’alto fusto: in larghissima prevalenza abete rosso, ma anche abete bianco, pino nero austriaco e numerosi larici; pochi faggi punteggiano qua e là la fascia boscosa fino a quote di tutto rispetto (1500-1600 m).

Al di sopra dei 1600-1700 metri ha inizio il terreno del pascolo alpino che, seppure in maniera non uniforme, si spinge fino a 2000-2200 metri. Il pascolo è inframmezzato da resinose d’alto fusto: nella parte inferiore, alcuni audaci e isolati abeti rossi sfidano le pesanti nevicate sciroccali, mentre a quote più elevate sono i larici a sfidare, con alterni risultati, valanghe, fulmini e burrasche di vento. Al di sopra dei 2200 metri è solo roccia nuda, che a sua volta ospita mughi, licheni e la rada flora d’alta quota, amatissimi residui glaciali resistenti a tutto (con grande, grandissima fatica, sin qui resistenti anche all’homo imbecillis).

Fino a cinquant’anni addietro, in linea con l’economia allora prevalente (o almeno ancora largamente presente), in luogo dell’attuale prato non regolato il territorio ospitava due varietà di terreni, ossia i coltivi e i prati da sfalcio in quota. I terreni a coltivo erano comprensibilmente circoscritti alla sola tavièlo (l’area immediatamente circostante l’abitato), entro limiti altimetrici ancor più ristretti rispetto ai prati da sfalcio di fondovalle: in pratica, fra i 1150 e i 1280 m13.

Lo sfalcio in quota, localmente detto in mont (letteralmente “in montagna”), recuperava alla produzione di fieno alcuni terreni soprastanti il limite del bosco, e quindi a quote sensibilmente più elevate (anche oltre i 1700 m) rispetto ai prati di valle. Anche questi prati da sfalcio in quota (i prâts di mont) costituivano un elemento di assoluto rilievo in un’economia ad elevato livello di autoproduzione-autoconsumo e saldamente incentrata sulla stalla (il maiale e soprattutto la vacca da latte), in quanto consentivano di liberare ai coltivi gran parte dei terreni di valle.

Cessata l’attività agro-pastorale, nel breve volgere di 50 anni tutte queste aree in quota hanno subito il prepotente ritorno del bosco, che in parte o in tutto ha già cancellato dal territorio il segno della presenza umana. Uguale sorte tocca ora ai prati di valle, del tutto impotenti di fronte alla discesa o alla risalita del bosco.

Tabella 1 - Rendita censuaria dei terreni (censimento 1851)

qualità   classe   rendita censuaria
Coltivo a vanga 1 1,54
  2 1,07
  3 0,76
Prato 1 1,76
  2 1,26
  3 0,89
  4 0,52
  5 0,21
Bosco resinoso dolce 1 0,39
  2 0,26
  3 0,15
Bosco ceduo forte   0,09
Boschina mista   0,06
Pascolo 1 0,17
  2 0,08
Pascolo in alpe 1 0,28
  2 0,13
  3 0,10
Zerbo   0,04
Sasso nudo = dirupi nudi   0,00

 

La tabella qui a lato riporta il valore di rendita censuaria dei terreni per destino d’uso e classe, espressi in lire austriache per pertica (censimento 1851). Abbastanza curiosamente, appare in tutta evidenza come a parità di “classe” (o qualità) il prato avesse una rendita superiore al campo. Tuttavia, ciò non deve soverchiamente stupire in quanto il centro dell’attività agricola (e non solo) era la vacca, autentico fulcro dell’economia e della sopravvivenza stessa del valligiano. Le proteine della povera dieta dei Collinotti d’antan provenivano in gran parte dal latte vaccino: oltre al latte stesso, burro, ricotta e soprattutto formaggio.

Oltre ai più o meno quotidiani latticini, il regime alimentare proteico dei Collinotti comprendeva solo il maiale (per lo più un capo all’anno per famiglia), e il raro pollame di qualche altrettanto raro dì di festa. A metà del XX secolo la carne bovina in tavola era ancora una rarità (“roba da malati”): si può facilmente immaginare come fosse considerata secoli e secoli addietro.

Territorio e toponomastica

A Collina come altrove, la morfologia e i caratteri principali del territorio giocano un ruolo assolutamente preminente nella genesi della microtoponomastica: l'elevatissimo numero di agârs e riùs e vals è più eloquente di qualsiasi dissertazione accademica14. Nulla di nuovo sotto il sole, tranne che la tormentata morfologia del territorio si presta forse più di altre ad un impiego intensivo della toponomastica, ispirando e talvolta sollecitando nel valligiano una creatività tanto necessaria quanto abbondante (e, almeno in apparenza, talvolta gratificante, giacché da qualche toponimo traspare l’intento chiaramente scherzoso, quando non manifestamente burlesco, dell’ignoto creatore).

L'esasperato frazionamento della proprietà fondiaria ha fatto il resto, ispirando o sospingendo il villico ad una minuziosa opera di autentico cesello in punta di… falce, ritagliando con grande precisione spazi e definizioni che, con il tempo, si sarebbero trasformati in “luoghi” e “toponimi” talvolta, gli uni come gli altri, davvero micro.

Nel merito delle caratteristiche del territorio, non sorprende notare come la maggior parte dei nomi di luogo sia strettamente connessa alla frequentazione del territorio stesso da parte dei valligiani. Conseguentemente, la densità dei toponimi diminuisce man mano che ci si allontana dall’abitato, per progressivamente rarefarsi e infine quasi scomparire sulle vette: tant’è che gli oronimi sono sempre descrizioni d’insieme, rifacentesi a caratteristiche grossolane e soprattutto ben visibili da lontano. I pochi microtoponimi “alti” son per lo più ascrivibili a cacciatori, unici e soli valligiani a sfidare (e, almeno in origine, non per “sport” ma per autentica fame) il pirìcul, il pericolo perennemente in agguato, fosse esso una caduta, la valanga, o il maleficio di una strega.

Più numerosi invece gli idronimi, grazie all’abbondanza d’acqua lungo entrambi i versanti della valle: ogni rio ha il suo nome, e così ogni ruscello (o quasi) entro il raggio d’azione dell’Homo Collinensis, contadino o boscaiolo che fosse.

Quanto a fitotoponimi e zootoponimi, entrambi non hanno una posizione di particolare rilievo nella nostra microtoponomastica. Il numero dei toponimi di origine zoologica è davvero esiguo e quasi interamente circoscritto agli animali domestici (buoi, cavalli, un asino…), mentre comprensibilmente più numerose sono le piante che entrano a far parte della toponomastica locale, sia collettivamente (colarìot-noccioleto, pecìot-abetaia ecc.) che individualmente (véspol-faggio, larç-larice ecc.). L’interesse toponomastico alle piante di taglia inferiore al nocciolo è peraltro molto modesto, probabilmente per la scarsa o nulla funzionalità alla pur modesta economia locale15. Quassù la vita è dura…

È dura al punto che anche gli “incidenti sul lavoro” si sprecano: nella quotidianità di boscaioli, contadini e pastori e migranti c’è la scivolata, la pianta che ti cade addosso, la frana e la valanga, il pirìcul che colpisce o che sfiora, la vita e la morte separati da un nonnulla, o da Qualcuno. E i sentieri nei boschi, nei prati e nei pascoli si popolano di immagini sacre, a ricordare, a proteggere, a confortare: dal fondo della valle all’ultimo prato di mont il montanaro ricorda chi lo ha protetto (o cerca di farsi ricordare da chi potrebbe proteggerlo…), e strategicamente colloca icone, edicole e croci16. Eppure, di tanta devozione popolare nella toponomastica rimane poco o nulla, e gli agiotoponimi sono pochissimi: un san Giovanni, un san Leonardo, un generico “santo” e nulla più. C’è da chiedersene la ragione.

E la risposta può essere “perché non ce n’è bisogno”… Anche nella fede il montanaro è misurato, e sa quando e come ostentare le proprie frequentazioni con Cristo e i santi: e se le immagini sacre sparse per la valle si contano a decine (mai però sovraffollate), per contare i luoghi con i nomi di santi e madonne avanzano le dita di una mano.

Ma è sufficiente così. I santi non si usano dibànt17...

Vie d'accesso e viabilità18

I Romani, che pure di strade erano grandi conoscitori e abili costruttori, e che del sistema viario fecero un caposaldo dell'impero, in tutta evidenza si tennero ben alla larga da Collina: o non vi misero piede del tutto oppure, dopo una rapida occhiata, decisero di lasciar perdere.

Comprensibilmente, verrebbe da dire: di quassù, non si va proprio da nessuna parte, e infatti alla base dei primi coloni di Collina fu certamente il proprio stare, e non l'altrui transitare. Detto altrimenti, Collina non nacque lungo una via di grande comunicazione, non al terzo, quarto, settimo o centesimo miglio di una strada romana. Non stazione di posta, emporio o mercato: Collina non è figlia del terziario e dei commerci. Né è figlia dell’industria come Forni Avoltri (o, forse più correttamente, Avoltri-Forni) o dell’artigianato, attività che comunque richiedono infrastrutture e soprattutto vie di trasporto per la distribuzione dei prodotti. Fosse per scelta (in origine forse fu così) o fosse per necessità, Collina fu praticamente isolata fino all’epoca contemporanea.

Durante i suoi primi sette (o forse nove, o dieci) secoli di vita, Collina è collegata al resto del mondo da un unico tracciato19, una mulattiera non carrabile che attraverso il Gùof e Givigliana, Stalis, Vuezzis, Mieli porta a Comeglians e al fondovalle del Degano. Viabilità modesta e critica anche e soprattutto in illo tempore20, ma è pur sempre il territorio – e ieri certamente più di oggi – a dettare regole e condizioni.

Le alternative a questa via che mena a valle sono passaggi, sentieri, tróis, nulla attraverso cui possa passare alcunché più grande di un uomo (più spesso, una donna) con la gerla, o di qualche raro animale da soma: alternative alla portata di pochi d'estate, e di pochissimi o nessuno d'inverno. Tutti sopra i 1700 metri di quota, disagevoli e per sentieri da capre, i percorsi di montagna che portano "da qualche altra parte" si contano comunque sulle dita di una mano. In senso antiorario, a partire dal Gùof: forcella Bioichia (Bióucjos) verso Givigliana e Ravascletto; forcella Plumbs (Fòrcjo di Plumbs) e forcella Morareto (F. di Morarìot) verso il passo di Monte Croce Carnico e l’Austria; passo Volaia (Volàjo) verso la Lesachtal (o Monte Croce Carnico) e l’Austria; forcella Ombladet (F. di Ombladìot) verso la valle del Degano a monte di Forni Avoltri (v. i rispettivi lemmi nella parte analitica).

Lo scenario di alta montagna non ha subito, fortunatamente, modifiche sostanziali: solo la forcella Morareto, in virtù della presenza del rif. Marinelli, è raggiunta da una pista forestale carrabile (chiusa al traffico privato).

Fino agli albori del ventesimo secolo, dunque, la sola "via di comunicazione" è attraverso il Gùof21. Ma negli ultimi decenni del 1800 e nei primi del 1900 – verrebbe da dire "improvvisamente", dopo secoli di immobilismo – Collina si trasforma in cantiere: si aprono nuovi percorsi, strade in luogo di mulattiere, viabilità autenticamente percorribile con ogni mezzo e in ogni stagione (o giù di lì), libero transito di merci e di uomini22.

In questi anni, la comunità di Collina provvede a risolvere il secolare problema del trasporto a valle del proprio legname destinato alla vendita, costruendo a proprie spese la strada del Fulìn, da Collinetta al fondovalle del Degano. Dall’ideazione della strada all’individuazione del percorso, alla progettazione (i progetti furono tanto mutevoli quanto numerosi), fino alla conclusione dei lavori, l’iter della realizzazione dura sette anni, dal 1907 (anno di ideazione della strada) al 1914 (fine dei lavori).

La costruzione della strada si conclude alla vigilia del primo conflitto mondiale, una guerra che vanificherà i sogni, gli sforzi e il lavoro dei Collinotti (come chiamano sé stessi gli abitanti di quassù, Culinòts). L’esigenza di migliorare le comunicazione tra il fronte e le retrovie porta alla costruzione di numerose vie d’accesso in tutto l’arco alpino orientale.

Terminato il conflitto, restano le strade lungo le quali ora scorrono più agevolmente persone e merci: i costi di trasporto crollano, crolla anche il valore del legname, principale ricchezza di molte valli e villaggi alpini, fra cui Collina.

Anche la strada del Fulìn (detta anche la strado di Créts), così faticosamente costruita, è prima affiancata e poi sostituita dal percorso, finalmente reso sicuro e transitabile, che congiunge Collina con la sede comunale di Forni Avoltri attraverso le frazioni di Sigilletto e Frassenetto. Una via anch’essa antica e storicamente importantissima, ma sin qui omessa dal vostro artatamente infedele cronista che corre ora ai ripari23.

La via per il paradiso: lunga e travagliata

In realtà questo pur fondamentale percorso da Collina a Forni non fu mai, fino alla costruzione della nuova strada carrozzabile, un’autentica "via di comunicazione". Per i sette od otto secoli che precedettero la realizzazione dell’attuale strada il percorso fu invece, per i parrocchiani di Collina, ciò che potremmo definire la lunga via della chiesa parrocchiale della cura di Sopraponti a Frassenetto. Ciò non toglie che, per molti aspetti, il percorso rappresenti un autentico pezzo di storia di questo paese, definizione che trova efficacissima sintesi nella Ruvîš, la frana che – ultimo ostacolo per chi giunge da Forni – quasi preannuncia la vicinissima conca di Collina.

Se non un intero volume, la rovisa di CP meriterebbe un ampio capitolo a sé (e infatti così sarà…), in quanto per secoli e secoli fu chiave di volta – naturalmente in negativo – delle comunicazioni della villa: dapprima con la chiesa parrocchiale, e quindi con la sede comunale di Forni Avoltri24. Preoccupazioni di anime prima e di corpi poi, dunque, che troveranno soluzione solo ben oltre gli albori del XX secolo appunto con la costruzione della strada carrozzabile attraverso la Ruvîš, sostanzialmente coincidente con l’attuale strada che da Forni porta a Collina.

Come già accennato qualche riga addietro, in origine il problema connesso a questo percorso non consiste nella difficile comunicazione con il fondovalle: nel 1200, come nel 1500 o 1700, quei di Forni e di Avoltri e Sigilletto han poco da spartire (chiesa e curato a parte) con Collina, tant'è che i Collinotti vanno tranquillamente a valle per il Gùof, e in Tadésc per Volaia e Plumbs.

Non preoccupazione di transito di beni e persone, dunque, ma bensì di movimento d'anime: il dì di festa – e ogni volta che Dio comanda (sic), d'estate come d'inverno – il gregge della cura di Sopraponti è chiamato a riunirsi al suo pastore, officiante nella parrocchiale di san Giovanni Battista. È infatti la parrocchiale la sola titolare e depositaria di fonte battesimale e di messa domenicale, nonché dell’ufficio divino di tutte le feste e ricorrenze religiose (a quel tempo, beninteso, altrettanto comandate della domenica).

Ben per quelli di Sigilletto, una camminatina o poco più; un po' peggio per quei di Forni e di Avoltri, su per un sentiero in ripida ascesa – magari con neve e ghiaccio – da discendere poi perigliosamente. Per quelli di Collina, un vero disastro.

Un’autentica sventura, poiché l'esile sentierino che in continui saliscendi attraverso la ruvîš e ponti e rivi conduce a Sigilletto e Frassenetto non unisce, ma divide e separa la popolosa comunità di Collina – la più numerosa della cura ma priva di battesimi e messa festiva – dalla chiesa e dalla Chiesa. E più d’ogni altro disagio o pericolo è l'ineludibile attraversamento della frana, a poche decine di metri dall’abitato di Collina, all’origine di infortuni e disgrazie a ripetizione, con morti e feriti. A un certo punto, i Collinotti non se la sentono più di attraversare continuamente, avanti e indietro in ogni stagione e con ogni clima, la pericolosissima ruvîš. E piantano la grana25.

La prima clamorosa e documentata manifestazione di dissenso è del 1602. È l'anno della visita pastorale del luogotenente patriarcale Agostino Bruno, il quale ordina urgenti lavori di manutenzione alla Parrocchiale di Sopraponti. I Collinotti rifiutano il loro contributo: a più miti consigli sono ricondotti solo nel 1606, nientemeno che dal Vicario abbaziale in persona, e sotto pena di privazione dell'ingresso alla chiesa. Dopo il confronto e la prova di forza patriarcale, per quasi un secolo e mezzo i documenti tacciono: il dissidio certamente continua, ma non giunge all’orecchio del Patriarca. Finché…

Nel 1744, il rifiuto al pagamento del contributo per il rifacimento della Parrocchiale si ripete clamorosamente, e non sarà l'ultimo. Nuovamente, i riottosi Collinotti desistono solo davanti alla rinnovata prospettiva del fuoco eterno, non però senza una puntualizzazione fedelmente registrata dal notaio Giovanni Battista Vidoni, precisazione che non abbisogna di commenti tanto è esplicita: “(…) comparsi appresso a me Nod. li Sigg. (…) rappresentanti l'Onor. Comune di Collina, & instarono a notarsi qualmente quello sin hora hanno somministrato in solievo della Ven. Parrocchia sudetta, e quello pure somministreranno non intendano esser socumbenti per titolo d'obligazione, ma di pura amabilità e cortesia, e non altramente, & tanto esposero (…)”26.

Sia genuino o strumentale l’argomento della strada, per quasi due secoli i Collinotti si battono duramente per ottenere prete e fonte battesimale propri, e la querelle con i curati di Sopraponti, timorosi di perdere prebende e benefici, assume toni drammatici. Fra suppliche al Patriarca prima e al vescovo poi, accompagnate da ingiunzioni, rifiuto del pagamento dei tributi, minacce di preclusione al culto della chiesetta di san Michele a Collina, di sospensione a divinis del Mansionario e dei Collinotti dai sacramenti, punteggiata da concessioni puntualmente revocate la controversia si trascina per lustri, decenni, secoli.

Ad abundantiam, le minacce spirituali dei vescovi sono integrate da argomenti decisamente più temporali: carcere e remo per i riottosi che osassero non allinearsi alle bolle curiali.

Tra una fiammata e l’altra, il conflitto prosegue fino 1771, quando finalmente sembra trovare definitiva e stabile composizione. In quest'anno, il vescovo concede a san Michele in Collina (e a san Lorenzo in Forni) messe festive e fonte battesimale, con buona pace di tutti.

O quasi. I parroci di Sopraponti soffiano sul fuoco, e trovano ascolto in curia: il dissidio riesploderà nuovamente di lì a pochi decenni, per proseguire ben entro il XIX secolo. Ma il tempo non passa invano, e infine il conflitto si risolve definitivamente, non prima di aver lasciato un buon numero di vittime lungo la via di Sopraponti27.

Placati finalmente gli animi e saziate le anime, soddisfatto il trascendente, resta – dolorante e doloroso, e autentico nomen omen – l'immanente: la ruvîš è sempre lì, incombente sull’esile traccia che l’attraversa.

Passa ancora molta acqua nel Fulìn, e ai cessati obblighi spirituali extra moenia dei Collinotti se ne sostituiscono altri, del tutto nuovi: i vincoli burocratici. La riorganizzazione degli assetti amministrativi operata dai francesi fra il 1803 e il 1815 modifica pesantemente strutture, istituti, tradizioni: la vicinia, vecchia di secoli, è abolita; Collina, già “comune” autonomo, è accorpata al comune di Forni Avoltri, del quale diviene semplice frazione. Il comune di Forni è a sua volta assegnato al cantone di Rigolato e al distretto di Tolmezzo. Ha insomma termine la sostanziale autonomia amministrativa di Collina: ora il primo centro decisionale della piramide amministrativa, della nascente burocrazia moderna, è Forni, oltre la ruvîš.

Incurante delle umane cose, inamovibile ma sempre in movimento, la ruvîš continua a colpire: non è più l'ecatombe di secoli addietro, ma – un morto qui, due feriti là, in moto o da ferme, dall'alto o al basso – le pietre della frana mietono vittime.

Il 29 agosto 1894, di ritorno a Sigilletto dalla celebrazione di un matrimonio a Collina, cade e muore alla Ruvîš il parroco di Sopraponti, pre’ Pietro Longo: “Uomo di considerazione, pre’ Pietro Longo” scriverà quasi settant’anni più tardi pre’ Fortunato Molinaro28.

Non si può tirare in ballo la nemesi: pre’ Pietro è innocente delle nequizie perpetrate dai suoi predecessori. Tuttavia, l’illustre vittima è forse quella che, paradossalmente, smuove le acque per arrestare infine le pietre.

Nel 1895, a meno di un anno dalla morte del parroco, prende avvio il rimboschimento della frana. Nel 1896, con un abile colpo di mano il maestro Eugenio Caneva trasforma un programma di semplice manutenzione del sentiero nel piano di costruzione di una strada.

Grazie a varie concomitanze di interessi – e anche a qualche furbizia – il piano riesce e si concretizza: il nuovo tracciato attraverso la Ruvîš, praticamente coincidente con l'attuale strada, è realtà. La Ruvîš non uccide più, ma da semplice tracciato a strada – strada vera, carreggiabile – il percorso è ancora lungo, e per concluderlo ci vorrà una guerra. E una pace.

Dopo l’avvio delle ostilità nel 1915, le esigenze belliche convinsero ben presto il comando militare della Zona Carnia della necessità di una strada che avvicinasse Forni Avoltri, sede del comando di settore, alla linea del fronte che si snodava lungo la cresta principale, dal passo Giramondo a Volaia a Monte Croce Carnico.

Un percorso che mettesse in collegamento Forni con Collina, dunque, ovvero con l’immediata retrovia della prima linea che dal monte Volaia correva all’omonimo passo, per poi risalire al Cogliàns e alla Chianevate. Fu quindi dato avvio alla costruzione della strada attuale, i cui lavori furono però interrotti dalla disfatta di Caporetto e dalla conseguente ritirata del novembre 1917 da tutto il fronte orientale. La costruzione della strada fu infine portata a compimento solo nel dopoguerra, a spese del Comune di Forni Avoltri.

Microviabilità

Oltre alle vie di comunicazione vere e proprie, sulle quali ci siamo abbondantemente dilungati, il territorio è (era) percorso da una fitta rete di sentieri funzionali all'attività agricola e all'attività silvo-pastorale: decine e decine di anonime piste pedonali, o tuttalpiù strados des ùolgos, le "strade delle slitte", semplici solchi che seguono la linea di massima pendenza e lungo i quali scendono le slitte cariche di fieno o di legna29. Tutti percorsi che, senza distinzione, esauriscono la loro funzione nel momento stesso in cui viene a cessare l'attività che li ha creati e ne ha reso necessaria la manutenzione.

Dulcis in fundo, nel 1915-17 anche la guerra introduce e mette in pratica il proprio concetto di viabilità capillare, funzionale a ben altre esigenze che lo sfalcio e il trasporto a valle del fieno e della legna. Abbiamo già fatto cenno alla strada attraverso la ruvîš, arteria polmonare dell’organizzazione bellica nella zona di Collina: da qui si dipartono le arterie minori e i capillari che raggiungono l’ultima postazione e l’ultimo uomo.

A differenza del valligiano, contadino o boscaiolo che sia, il Regio Esercito non ha proprio nulla da portare a valle (tranne, e con spietata regolarità, qualche salma): al contrario, deve portare in quota enormi quantitativi di armi, munizioni, vettovaglie, materiali da costruzione e chissà che altro.

La viabilità militare è dunque diversa da quella dei villici, tanto negli scopi quanto nella tecnologia: ove possibile, i soldati fanno scavi, strade, sentieri ampi e a regola d'arte, ma rispetto ai valligiani cambiano soprattutto gli obiettivi, e quindi le mete.

I soldati vanno dove i Collinotti non sono mai andati o, quanto meno, non si sono mai sognati di costruire sentieri. I soldati vanno sulle creste e sulle vette, nel mondo delle paure ataviche e delle fobie dei valligiani, dove non cresce erba da fieno e non c'è legna da bruciare. Vanno dove i nomi dei luoghi – i nostri toponimi – si rarefanno, o spariscono del tutto.

Con le dovute eccezioni per gli iperfrequentati sentieri turistici, tutta questa viabilità secondaria (o terziaria, o n-aria…) è oggi in via d'estinzione. Siano essi percorsi militari o sentieri interpoderali e di mont, l'abbandono è comunque un male apparentemente inguaribile. In assenza di manutenzione (un tempo una delle attività prioritarie della comunità, e come tale oggetto di obblighi assai rigidi), molti di questi tróis sono oggi in via di totale cancellazione: alcuni sono già ora irriconoscibili, letteralmente ingoiati dalla vegetazione o cancellati dalle frane; altri aspettano pazientemente il loro turno.

L’attesa, temo, non sarà lunga.

Viabilità e toponomastica

La relazione fra viabilità e microtoponomastica è, nella sua generalità, fenomeno assai complesso: tuttavia, anche intuitivamente è percepibile il nesso di causalità fra i due elementi topografici (quale poi sia causa, e quale effetto, richiama molto da vicino la questione dell'uovo e della gallina). Terreno arduo, e scivoloso assai, tant'è che preferisco aggirarlo, ricercando più stabile sostegno nell'evidenza sperimentale: fatti e numeri.

E i numeri evidenziano la quasi totale assenza di odonimi30 (esclusa, beninteso, l’odonomastica urbana, peraltro recente e non compresa in questo lavoro). Si è già detto come sentieri e stradelle siano tróis e strados (termine, quest’ultimo, invero un po’ pomposo specie se rapportato alla realtà dei fatti) accompagnati dal toponimo di destinazione o di transito: lu trói di Cjampei, la strado dal Gùof.

Uniche eccezioni al generale anonimato viabilistico sono la Vïùto (via piccola), la Vio Montarèço (via che sale) e la Strado di Soldâts (strada dei soldati), percorsi lontani fra loro ma uniti in questa apparentemente incongrua eccezione ad una regola altrimenti inderogabile.

Rari anche i microtoponimi direttamente o indirettamente correlati alla viabilità (per intenderci, i Bevorcjàn-biforcazione e simili), in numero quantificabile nel 3-4% del totale (quindi, una dozzina in tutto). Sono i toponimi che nascono lungo i sentieri, in corrispondenza di punti salienti o comunque con qualche particolarità: il già citato Bevorcjàn-biforcazione, qualche puint e diverse carònos che qua e là accompagnano i solchi dei corsi d'acqua.

Economia, popolazione, lingua

Economia

Si è già detto dell’origine di Collina come luogo stanziale, in contrapposizione ai luoghi di transito – di persone, merci, denaro, come i luoghi di mercato, di esazione di gabelle, di stazioni di posta e quant'altro – che hanno dato origine a borghi come Tolmezzo, Venzone (e, oltreconfine, Mauthen-Mudo), oppure la stessa Comeglians, tanto per non allontanarci troppo da “casa”31.

Su queste premesse di sostanziale autoproduzione-autoconsumo, integrata da modesti commerci a dimensione di gei e di cràšeno – rispettivamente, la gerla e la cassetta del cramâr – Collina sopravvisse (ma certamente non prosperò) per secoli32.

Il versante a bacìo (sx orografica della valle, esposizione costante a N) è totalmente boscoso e quasi ovunque ripidissimo, e pertanto del tutto inadatto a qualsiasi impiego agro-pastorale. Al contrario, il versante a solatio offre pendii più atti a questi scopi, economia primaria di nome e di fatto per la gente di quassù.

Un tempo probabilmente anch'essi boschivi, e successivamente deforestati nella loro parte inferiore per far luogo agli insediamenti abitativi e alle attività agricole ad essi connesse, i declivi immediatamente a N dei due abitati e il breve fondovalle fra le confluenze del rio Plumbs e del rio Collinetta nel rio Fulìn hanno rappresentato la quasi totalità del territorio disponibile per l'attività agricola.

L’elenco delle coltivazioni è necessariamente breve, giacché l’abbassamento dei limiti altimetrici si fa sentire pesantemente: patate (dopo il 1800), cavoli, rape, segale, orzo (qualcuno favoleggia di frumento33, ma non se ne ha memoria alcuna) e qualche ortaggio come carote e piselli (ma non fagioli). Non altro. Non frutta, se si eccettuano nocciole e frutti di bosco, ma è roba selvatica, e sul resto non c’è da contare. Pruni e meli (pochi) fruttificano a loro comodo, vale a dire ogni due o tre anni e più; dai due (2) noci esistenti alla metà del XX secolo si vedono (e si sentono!) cadere sfere verdi dure come sassi; i due (2) ciliegi sono piante ornamentali, o giù di lì. E questa è tutta l’agricoltura di Collina.

Poi ci sono i prati, ma questo è già allevamento (una vacca e un maiale per casa sono allevamento!). Fieno buono, dai prati di Collina: quando il clima lo consente, tre tagli da giugno a settembre – rispettivamente urtigóul, fén e mujàrt – e poi via nel fienile, aspettando l’inverno sempre troppo lungo. Alle aree di fondovalle vanno aggiunti i già citati prati di mont: aree in quota con la fienagione limitata ad un solo taglio annuale il cui ricavato è stivato in loco, nelle mèdos (biche) o entro le stàipos (fienili) disseminate nei prati periferici, per poi essere trasportato a valle durante l’inverno.

Fra i prati di valle e quelli in alpe o il pascolo, fino a 1600-1700 metri si estende la foresta di abeti, in gran parte e per lungo tempo proprietà comune e indivisa34, dalla quale la comunità traeva il soldo integratore del bilancio della Villa (oltre, beninteso, al legnatico per gli abitanti) e con la cui rendita Collina pagò il mutuo sottoscritto per la costruzione della già citata strada del Fulìn.

Già, perché il bosco faceva di Collina un villaggio “ricco”: naturalmente secondo criteri di altri tempi, e soprattutto secondo l’opinione di chi, pur avendo altro, non aveva il bosco (o ne aveva di meno, o meno bello: l’erba del vicino è sempre più verde). Vera o presunta che fosse la ricchezza, questa non ha comunque impedito che lunghe schiere di Collinotti si avviassero per le strade del mondo in cerca non di (altre) ricchezze ma piuttosto di una decorosa sopravvivenza.

Da ultimo, non si può omettere di rammentare tutta quella serie di attività artigianali – mulini, segherie, battiferro – che, pur mantenendo una dimensione modesta e mai andando oltre le esigenze del villaggio, hanno comunque giocato per secoli un importante ruolo nell’economia locale, lasciando di sé ampia testimonianza sul territorio e nella memoria di Collina.

Economia e toponomastica

Anche dalle righe che precedono (oltre che dal buonsenso) appare chiaramente che la toponomastica è elemento funzionale al rapporto fra uomo e territorio. Tanto banale quanto ineludibile, questa affermazione è vieppiù valida là dove l’interazione fra uomo e territorio è intensa e continua: necessità viarie da un lato, e di sfruttamento del territorio dall’altro, conducono ad un presidio del territorio del quale il “marcamento” del territorio stesso è una necessaria conseguenza (se non un presupposto).

Il rapporto fra economia (ovviamente in senso lato) e toponomastica si intreccia e si confonde con quello fra la toponomastica stessa e il territorio, al punto che una netta linea di demarcazione è difficilmente individuabile: l’economia si sovrappone al territorio (tanto in senso stretto che figurato), se ne appropria, lo modifica, gli attribuisce appellativi talvolta arbitrari, talvolta perfettamente “naturali” e calzanti.

Non potendo tracciare una linea di demarcazione fra i due ambiti (ciò di cui peraltro non si sente l’esigenza in questo lavoro, i cui scopi sono essenzialmente descrittivi) gioverà dire che la presenza di toponimi a vario titolo legati all’attività agro-silvo-pastorale è assai elevata, ritrovandosi in numerosissimi toponimi composti con i termini generici (prât, cjamp, bošc, runc ecc.) nonché nei toponimi derivati da attività artigianali (sieo, mulìn, cjalcinêro).

È importante sottolineare, ancora una volta, come l’aspetto intrinsecamente ludico della toponomastica sia praticamente assente (unico esempio è il Plan di Trìcui, o “Pianoro delle Altalene”); oppure, e non senza qualche forzatura35, è elemento rintracciabile solo nei toponimi di origine venatoria, definizioni di luoghi ben al di fuori della portata (e dell’interesse) del contadino o del boscaiolo.

Popolazione

Delle origini di Collina si è ampiamente trattato in altra sede36, e non vale riprendere o ripetere qui i medesimi concetti. Giova solo ricordare che le origini dei due borghi (Collina Grande e Collina Piccola) risalgono all’XI-XII secolo (le prime notizie storiche sono intorno al 1270), e che la popolazione è di schietta origine carnica (nulla a che vedere con i vicini insediamenti germanofoni di Sappada-Bladen e Timau-Tischlbong e, più lontano, Sauris-Zahre).

Si è già rilevato altrove come la popolazione locale si sia evoluta, nel corso dei secoli, con un elevato grado di collimazione37. Ne consegue logicamente che, ai giorni nostri, gli abitanti di Collina sono in misura preponderante i discendenti dei primi coloni o, quanto meno, degli abitanti che vi si trovavano nel XVI secolo. Nel 2000 sono ancora presenti 8 delle 15 famiglie registrate a Collina alla fine del XVI secolo: delle stesse 15 famiglie nel 1900 ne erano ancora presenti ben 11.

In buona misura, i collinotti di oggi sono figli di quelli di ieri, di coloro che generazione dopo generazione costruirono la base toponomastica che andremo ad esaminare in dettaglio. Beninteso, non è certo l’intera toponomastica a datare dalla notte dei tempi, o anche solo da secoli addietro: trattandosi di un processo dinamico, l’evoluzione/involuzione procede senza sosta. e gli ultimi due toponimi a nascere sono di poco posteriore al 1943 l’uno (Ornella), e circa del 1975 l’altro (Canòbio). Non casualmente, si tratta di due antropotoponimi, certo la forma toponomastica a genesi più rapida ma anche la più labile, e talvolta destinata a rapida obsolescenza.

Popolazione e toponomastica

Tratto caratteristico della microtoponomastica del territorio di Collina è la presenza tutto sommato modesta (<10%) di antropotoponimi rispetto ad altri luoghi, in particolare rispetto ai comuni della piana friulana.

Ulteriore tratto distintivo è l’assoluta trasparenza e tracciabilità di tutti gli antropotoponimi, dai quali quasi sempre si risale con relativa facilità (fatte salve le omonimie anagrafiche) direttamente all’individuo o alla famiglia a cui il toponimo si riferisce, senza ricorrere ai particolari e desueti precursori latini.

È abbastanza evidente che a Collina non vi fu centuriazione (e di che, poi?), da cui la totale assenza di toponimi prediali in senso classico38. Viceversa, si hanno toponimi prediali di origine più moderna (ma, almeno apparentemente, mai contemporanea), ai quali si accompagna un buon numero di antropotoponimi con origine non relata al diritto di proprietà o d’uso, genesi invece tipica dei toponimi prediali.

In questi ultimi casi l’origine è piuttosto da ricercare in eventi particolari debitamente annotati dalla cronaca locale ed entrati, con il tempo, a far parte del patrimonio comune del villaggio.

Lingua

Della variante del friulano parlata a Collina s’è detto e ridetto39.

Ciò che tuttavia non si dice abbastanza, o abbastanza forte (o, detto senza perifrasi, non si vuol sentire…) è che questa parlata è destinata a scomparire nel volgere di poche decine d’anni (poche vuol dire anche 2 o 3: venti o trent’anni!).

Ciò che è peggio, di essa non resterà nulla di scritto: alcuni suoni caratteristici della parlata non sono rappresentabili con la grafia ufficiale, e pertanto i testi che tenessero conto di questi fonemi non sono pubblicabili nelle sedi altrettanto ufficiali.

Detto un po’ crudamente, e con il sano pessimismo della ragione, siamo ancora e sempre al samizdat

Lingua e toponomastica

La lingua costituisce un unicum con i nostri luoghi. I toponimi sono figli della lingua, sono fatti dalla e della lingua nei secoli quotidianamente parlata dai Collinotti. La presenza di microtoponimi non in lingua è assolutamente trascurabile, essendo in numero di 2 (due), entrambi in italiano. Altri toponimi di importazione, in lingua tedesca, sono stati adattati alla parlata locale al punto di sembrare originali.

Volendo dunque rappresentare i toponimi come essi sono pronunziati, e viste le brevi considerazioni del paragrafo precedente, ho di necessità adottato una grafia non ufficiale (clandestina?) in grado di consentire ai volenterosi lettori una decente raffigurazione e comprensione dei suoni del parlato.

La base toponomastica

Origini della toponomastica

I capitoli che precedono, talvolta lunghi e divaganti in apparentemente prolissi excursus, non hanno lo scopo di descrivere al lettore le bellezze o bruttezze, il territorio, le caratteristiche e le attività del luogo del quale ci accingiamo ad analizzare la toponomastica. Meglio, non hanno il solo scopo di illustrare, descrivere e decantare. Scopo principale è invece quello di porre le basi per un corretto inquadramento (avevo scritto contestualizzazione, ma mi sono auto-emendato) della toponomastica di Collina.

È logico pensare che la base toponomastica di Collina si sia sviluppata nei primi secoli della colonizzazione del territorio: o, meglio, che a quel tempo si sia sviluppata la base della toponomastica odierna. Non abbiamo elementi certi a sostegno di questa tesi: tuttavia, un documento del 1595-1605 riporta un buon numero di toponimi esattamente identificabili con i toponimi odierni (grafia a parte, ma si tratta di un testo in lingua italiana) 40. Di più: tutti i toponimi colà registrati alla fine del cinquecento esistono ancora oggi.

Giova ripetere ancora che, con rare eccezioni, i toponimi sono figli della morfologia del territorio (gli agârs, claps, plans, riùs…) e dell’economia (i prâts, cjamps, runcs, mulins…). La viabilità, a sua volta figlia dell’economia e del territorio, e sulla quale ci siamo soffermati a lungo, dà anch’essa accesso ai luoghi variamente denominati e descritti qui di seguito. Ecco dunque che a posteriori la lunga introduzione trova una sua ragion d’essere e, almeno così mi auguro, mette a profitto le pagine descrittive a mo’ di antipasto al pranzo vero e proprio che seguirà.

Non è stata effettuata un’analisi statistica sui pur numerosi toponimi che andremo a descrivere. Non si è dunque quantificata la loro distribuzione per tipo e origine, un’attività che esula dagli obiettivi di questo lavoro e che potrà fruttuosamente essere portata a termine in futuro (e auspicabilmente da altri). Non posso tuttavia esimermi qui da una analisi almeno grossolana degli elementi più specifici e caratteristici della toponomastica di Collina.

Come ho già implicitamente rilevato poche righe addietro, è il territorio con la sua morfologia a farla da padrone nella genesi della toponomastica. Comprensibilmente, verrebbe da dire, vista la complessità e l’elevato livello di articolazione del terreno: elementi questi che a loro volta vengono in aiuto del contadino o del boscaiolo al momento di conferire identità al bosco, al prato o al campo, o anche solo al luogo di passaggio verso la propria destinazione. Talvolta, alla morfologia del terreno si aggiunge la curiosità e la fantasia dell’uomo, solleticata dal profilo di un costone, da un masso strano o da un evento inatteso.

Nella nostra toponomastica sono dunque dominanti il territorio e la sua morfologia: a questi si accoda un buon numero di toponimi legati al lavoro dei campi, del bosco o dell’artigianato, spesso in riferimento a chi in questi luoghi esercita la propria attività. Una sorta di commistione fra economia (sia pure primordiale) e toponomastica, che viene parzialmente a compensare la totale assenza di toponimi prediali in senso stretto.

Gli antropotoponimi, versione moderna dei toponimi prediali (nella quasi totalità sono databili negli ultimi due secoli), risultano infatti prevalentemente circoscritti alle aree nell’immediato intorno di insediamenti artigianali dai quali derivano i già citati Mulìn di Codâr, Sieo di Cjanóuf e simili.

Circa la già menzionata assenza di una toponomastica prediale “classica”, un ruolo determinante è stato probabilmente giocato dai tempi e dalle modalità della nascita di Collina.

Avvenuta in epoca di poco posteriore all’anno 1000, la colonizzazione di questa testata di valle periferica si colloca in condizioni geograficamente e temporalmente lontane dai meccanismi di genesi della toponomastica prediale. Condizioni non solo lontane dalla centuriazione, ma anche dagli assetti fondiari e dai meccanismi del lento frazionamento della proprietà terriera propri di altre realtà geopolitiche della Carnia e soprattutto del Friuli.

È possibile, forse anche probabile, che la proprietà fondiaria a Collina sia rimasta indivisa più a lungo che altrove (o comunque molto a lungo), di fatto prevenendo la genesi di toponimi prediali. Tracce di terreni di proprietà comune o di proprietà della locale chiesa di san Michele (un altro modo di configurare la proprietà comune) sono tutt’altro che rare, tanto nella toponomastica che negli archivi, così come nelle cronache recenti e in alcuni aspetti delle odierne strutture consortili.

Detto delle differenze, non si può tuttavia non rilevare lo stretto legame che unisce la toponomastica di Collina a quella del resto della Carnia e del Friuli. Non sappiamo con certezza, ma possiamo forse intuire perché alcuni coloni decidano di andare a Collina a piantar sementi, a pascolar vacche e tagliar fieno (nonché, per nostro sommo godimento, ad inventare toponimi ex novo)41. Di fatto ci vanno, trascinandosi dietro cultura, lingua, usi e costumi dei luoghi di provenienza (con pochi dubbi, la Carnia stessa): in sostanza portando con sé tutto ciò che, coniugato con gli elementi del territorio, è alla base della toponomastica che è giunta fino a noi. Di qui le strette analogie, e talvolta le identità, con i toponimi di altri luoghi vicini e meno vicini.

Trattando delle origini della toponomastica è comunque necessario evidenziare un aspetto che, pure implicito nelle considerazioni sin qui effettuate, tende ad essere dimenticato quando si passi al confronto dell’interpretazione etimologica con lo stato attuale dei luoghi.

Abbiamo già sottolineato come e quanto i toponimi – non tutti, ma in larga maggioranza – siano antichi, nati secoli e secoli prima del limite massimo a cui si spinge la conoscenza diretta dei Collinotti d’oggi, la stessa tradizione orale o le evidenze documentali (circa 100, 200, e 500 anni, rispettivamente). In una sola parola, l’esperienza non va oltre i 500 anni.

Va da sé che, nel plurisecolare intervallo che intercorre fra l’origine – o, meglio, il consolidamento – della toponomastica e il limite superiore dell’esperienza e della conoscenza, il territorio può subire e spesso subisce modificazioni stravolgenti, ad opera tanto dell’uomo quanto degli eventi naturali, così da rendere irriconoscibile la propria ragione etimologica. Si tagliano e ricrescono boschi, si costruiscono e si cancellano strade, si dissoda e si abbandona, si scava e si livella, si edifica e in capo a cent’anni non si ritrova pietra su pietra.

In questi casi, il solo legame con la situazione pristina è, per l’appunto, l’etimologia (oltre, beninteso, al buon senso). Se nella foresta troviamo una radura ad uso di prato o pascolo, è molto probabile che sia opera dell’uomo: se poi si chiama Runc, è stata (quasi) certamente creata in un certo modo; se invece si chiama Cércen, è stata ricavata con un’altra tecnica.

Analogamente, se un terreno contiene il termine Vidrìnos esso era quasi certamente terreno di proprietà della chiesa locale, o comunque soggetto a gravami in denaro o in natura in ottemperanza alle regole che governavano la comunità locale.

Questi metodi di ricostruzione onomastica sono spesso in forte odore di eterodossia per i locali. In particolar modo i più anziani, che hanno precisa memoria dei luoghi e degli usi storici secondo la propria personale esperienza e ne hanno sedimentato interpretazioni altrettanto “storiche”, manifestano meraviglia o sospetto – e talvolta autentico rigetto – nei confronti di interpretazioni “rivoluzionarie”.

Un hors d’œuvre alla collinotta: spigolature toponomastiche

Tanto nella toponomastica ufficiale quanto nel linguaggio italiano corrente (ma anche nel friulano), il toponimo “Collina” identifica univocamente la sola frazione del comune di Forni Avoltri sita oltre il rio Collinetta. Contiguità etimologica e geografica a parte, niente da spartire quindi con Collinetta, frazione al di qua dello stesso rio. Due nomi, due frazioni.

Da quasi mille anni, ovvero da sempre, per i locali non è così (e per 800 anni così non fu neppure per la toponomastica ufficiale), e l'uso del toponimo che da essi viene fatto nel linguaggio corrente è rivelatore di una storia (o Storia) diversa, rimossa nel XIX secolo da un semplice tratto di penna di qualche oscuro burocrate durante l'amministrazione francese.

Nella parlata locale (in culinòt), Culìno-Collina indica sempre e solo, univocamente e senza alcuna eccezione, l'insieme delle due ville, Culìno Grando e Culìno Pìçulo. Questa denominazione ha antiche e profonde radici (e ragioni) storiche, religiose, civili e amministrative. Un solo campanile, un cimitero, una vicinia, un meriga, una comunità, un solo nome verso l’esterno e “ufficiale”: Culìno-Collina.

A tal punto, in tutta evidenza la suddivisione fra Pìçulo e Grando risponde ad un'esigenza di precisione più propria dei Collinotti stessi (v. il lemma Viculìno, s.v. Culìno) che del vescovo, del podestà, dell’ufficio delle imposte o del distretto militare.

L'infelice introduzione di “Collina” e “Collinetta” per i due borghi (nella traduzione in friulano dal secondo – già brutto di suo – scaturisce un orribile Culinète) fu opera di forse beata ma certamente crassa ignoranza. Opera che con ogni probabilità resterà per i secoli a venire irreversibilmente scolpita su cartelli stradali e carte geografiche: comprese, ahinoi, anche le mappe cui si fa riferimento in questo stesso lavoro. Il fatto che in giro per il Bel Paese si sia visto e ancora si veda di peggio non ci esime dallo stigmatizzare anche questa bruttura, tanto inutile quanto gratuita.

Lasciandoci alle spalle gli obbrobri burocratici, proviamo ora a gettare un'occhiata a ritroso nel tempo, alle origini, a quando il popolo abitante questo luogo (o qualcuno per esso) decise di chiamarlo… Culìno.

Le interpretazioni etimologiche (poche davvero) sin qui avanzate circa la genesi del toponimo Culìno non appaiono del tutto convincenti. Tanto l’origine asseritamente evidente (Collina = collina) che una radice diretta nel latino collis = monte, analogamente a quanto proposto per Cogliàns, non sembrano sposarsi con il territorio, con la sua morfologia, con le caratteristiche ambientali e tutto quanto di concretamente connesso alla nascita del toponimo si possa congetturare. Neppure la statistica.

Perché dunque non arrischiare, in un'opera interamente dedicata alla toponomastica di Collina, una qualche etimologia alternativa a quelle rare e poco persuasive sin qui avanzate per Collina (con l'italica appendice Collinetta) e Coglians?

Detto, fatto! Dalla precedente astensione (o quasi), in sede di revisione di questo lavoro si è provveduto anche a questo...


  1. Questo lavoro ha molte pretese, forse troppe per chi se ne è – forse incautamente – fatto carico. Non ha però pretese di scientificità, e mi scuso fin d’ora con gli specialisti del settore per l’indebita invasione di campo. Se nel testo compaiono termini specialistici e citazioni apparentemente dotte, il (de)merito non è di chi scrive: una volta appreso il loro significato, i pochi termini specialistici semplificano scrittura e lettura, in quanto consentono l’uso di un solo termine in luogo di un lungo giro di parole. Quanto alle citazioni il merito è… dei citati e non di chi, davvero umilmente, li menziona. Gli stessi riferimenti al REW, e chiudo questa poco piacevole nota, hanno la funzione di sottolineare la stretta derivazione latina del friulano piuttosto che di validare l’etimologia proposta dei toponimi. 

  2. La parafrasi è dell’Antologia di Spoon River, di Edgar Lee Masters. Dopo la bellissima traduzione in italiano di Fernanda Pivano (e l’altrettanto splendida versione musicale di Fabrizio de André in Non al denaro, non all’amore, né al cielo, senza dimenticare Dal pruc di Giorgio Ferigo) chissà che, un giorno o l’altro, qualcuno non si arrischi a volgere l’Antologia pure in culinòt… 

  3. La parcella dell'azzeccagarbugli di turno non ci è nota. È però dimostrato che temporibus illis i Collinotti ricorrevano con impressionante frequenza – tanto individualmente quanto collettivamente – ai ben remunerati servigi di notai, avvocati, procuratori e periti in occasione di liti e contenziosi con chicchessia: padri contro figli, mogli contro mariti, creditori, debitori, vicinia e mansionario e curato si contendevano affitti, terreni, mobili, immobili, confini, eredità e qualsiasi cosa adombrasse l'idea di diritto, di proprietà e di valore. Per tutti, i due plurisecolari contenziosi che opposero l'uno Collina al curato di Sopraponti, e l'altro Collina a Givigliana. 

  4. Si tranquillizzi il lettore. Il linguaggio in questo libro non è sempre così aulico e al limite della comprensibilità. In particolare, in questo caso ho solo giocosamente cercato di emulare il nostro avvocato, con riuscita temo modesta. Per la cronaca, la supplica dei Collinotti al Patriarca non sortì risultato alcuno, vista la ferma opposizione del curato di Sopraponti. Gli agognati benefici furono concessi solo nel 1771, in occasione della visita del legato vescovile. Ma il successo fu tutt’altro che agevole: il contrasto con il curato-oppositore fu ancora lungo e assai aspro, come si vedrà più avanti. 

  5. Con il trascorrere dei secoli e il mutare dei commentatori il giudizio si trasforma radicalmente, al punto che la "scoscese situazione" diviene di volta in volta "conca di incomparabile bellezza", "bellezze naturali risaltanti" e "conca alpina veramente stupenda". Mi sembra di poter dire che, spoglie dell'enfasi che le accompagna tutte, dalla prima all’ultima, le definizioni antiche e moderne possano tranquillamente e fruttuosamente coesistere pur nella loro apparente contraddittorietà. 

  6. Ad affrontare questi argomenti – il territorio, le vie di comunicazione, il paesello abbarbicato sui monti… – il rischio di ripetersi, e per di più in maniera oleografica, è decisamente elevato: oppure, e non c’è poi gran differenza, si corre il rischio di ripetere cose già dette da altri. Evenienza, quella della ripetizione poco piacevole e ancor meno desiderata. Tutto già detto, dunque? Correremo il rischio della ripetizione, stuzzicando l'attenzione del lettore con l'inframmezzare l'inevitabile "già detto" con qualche novità (o antichità, che spesso e volentieri significa la stessa cosa…). 

  7. Precursore del rio Fulìn è il rio Morareto, che a valle della confluenza del rio Collinetta assume per l’appunto la denominazione di rio Fulìn. 

  8. Al contrario di quanto comunemente si ritiene, il confine con il comune di Rigolato non segue interamente lo spartiacque fra Fulìn e Degano lungo la dorsale che dal m. Cròstis scende al Degano stesso. Alla Forcella Bioichia il confine scende direttamente al sottostante rio Plumbs per poi risalirne interamente il corso, e infine raggiungere il crinale m. Cròstis-m. Florìz-Forcella Morareto 50 m a S della Forcella Plumbs. 

  9. Tutte le denominazioni riportate in questo preambolo sono riferite alla Toponomastica Ufficiale, e non alla toponomastica orale locale. Come spesso accade, le differenze sono considerevoli, anche quando la TU riprende toponimi in lingua o presunti tali. 

  10. Mentre la valle si sviluppa in direzione E-O, il passo Volaia è orientato in direzione N-S. In virtù di ciò i venti settentrionali non battono la valle, ma solo una parte del versante boscoso a S della valle. 

  11. Nei dintorni degli abitati e lungo le strade principali non è raro trovare addensamenti di flora altrimenti poco diffusa sul territorio, ad es. piante a foglia caduca come frassini, aceri, sorbi e consimili, altrove non particolarmente diffuse. 

  12. Il “prato spontaneo” è figlio di un duplice eufemismo. Eufemismo 1: un tempo (diciamo 1000 anni addietro?) quassù regnava ovunque la foresta, dal che la spontaneità del prato risulta notevolmente appannata. Eufemismo 2: il termine corretto sarebbe “prato inselvatichito”, in quanto figlio del totale abbandono dei coltivi prima, e dello sfalcio poi. 

  13. Maggiori dettagli circa le specifiche coltivazioni succedutesi nel tempo si ritrovano nel capitolo dedicato all’economia. 

  14. Anticipando alcuni contenuti di questa rivisitazione del territorio, segnalo l'uso dei nomi generici – appunto agâr e riù e val, e altri ancora – anche tal quali, da soli, in microtoponimi con identità e localizzazione ben precise. Nella decina di toponimi comprendenti il generico prât, vi sono tanto un Prât che un Prâts (peraltro geograficamente lontani fra loro). Negli altrettanto numerosi toponimi composti con ruvîš, troviamo parimenti un de Ruvîš e un a Ruvîs, e altrettanto vale per plan, runc, riù e altri ancora. A prima vista parrebbe una sorta di antonomasia, a indicare il prato per eccellenza, il piano più pianeggiante, e così via. Nella pratica, vissuta con le conoscenze e con gli occhi di oggi, non è così. Una volta di più appare in tutta la sua evidenza (se mai ve ne fosse bisogno…) la necessità, ai fini di una corretta ricostruzione etimologica, di una minuziosa e quasi esasperata analisi del territorio sotto ogni profilo (geologico, antropologico, sociologico, storico, linguistico, cronologico e quant’altro), pena… terribili cantonate! Cantonate che va da sé, vista la esigente premessa: e poi sappiamo di quale piede andiamo zoppi… qui certo non mancheranno, ma faremo un po’ come i cantori della famosa villotta: Perdonainus, compatînus se cjantâ non vin savût: tornarin doman di sere, cjantarin a vuestri mût… 

  15. Uniche eccezioni a questa regola altrimenti ferrea sembrano essere i generici fiori dei Flurîts, i mirtilli di Morarìot, e i cardi/cirsi di Gjarsìot

  16. Naturalmente le colloca in valle e in mont ma, per molteplici ragioni, non sulle vette dove invece oggi abbondano. E si può immaginare come per il contadino-boscaiolo-pastore quei “moderni” cristi e madonne affollati lassù, lontano dal lavoro e dalla fatica, sapessero di apocrifo. 

  17. Dibànt=inutilmente, per nulla. 

  18. Piccolo(?) problema semantico, ovvero quando si dice la distanza tra forma e sostanza. Nella realtà le vie di cui si tratta lungamente in questo capitolo sono assai più di "fuga" che non di "accesso". Fino a tutto il 1800 e oltre, per le vecchie vie fra i monti transitano i cramârs verso il lavoro stagionale in mezza Europa. Nel 1900, per le nuove vie verso valle passano gli emigranti verso l’Italia e il mondo, in un viaggio senza ritorno. Nel periodo 1600-2000, il saldo netto fra "chi viene" e "chi va" è nettamente a favore degli emigranti (c'era forse da dubitarne?) per un valore di circa 1000 unità: lungo le cosiddette "vie d'accesso", ogni anno e per 400 anni 2,5 individui se ne sono andati per non fare più ritorno. 

  19. Ad evitare malintesi, e per nostra stessa memoria, ricorderemo che una via di comunicazione degna di questo nome deve rispondere a requisiti abbastanza precisi: transitabilità in ogni stagione dell’anno, possibilità di movimento quantitativo di merci e di persone, velocità di transito non penalizzante e comunque ragionevolmente commisurata ai tempi e ai ritmi dell'umana esistenza. Un'idea di viabilità, questa, certamente mutevole nel tempo e nello spazio, ma – almeno intuitivamente – ben definita e comprensibile. Fino alla metà del XX secolo, ovvero alla fine dell'attività agro-pastorale, il mezzo di trasporto di gran lunga più utilizzato a Collina – dopo, beninteso, la donna con gerla – è la slitta. Trainate (o piuttosto trattenute, lungo le ripide discese che scendono di mont) a braccia, estate e inverno, le slitte si muovono lungo le cosiddette strados des ùolğos, le “strade delle slitte”. Sui pattini, le slitte portano le catene anche d’estate, a frenare l’impeto che travolgerebbe uomini e animali: di qui i profondi solchi delle strados des ùolğos di cui i ripidi pendii della valle portano ancora oggi le cicatrici. 

  20. Si fa certa e Publica Fede, per l’Officio di questa Cancellaria, che nel giorno 8 Novembre dell’Anno 1787 fu dal Vice Meriga della Villa di Collina di questa Giurisdizione, Pietro qu. Giorgio Tomasin, ebbe a denonziare in questo istesso Officio qualmente la Sera innanzi fu ritrovata accidentalmente morta la questuante Madalena, Moglie relitta del qu. Bortolo Longo di detta Villa, per essere precipitata nel passaggio che fece tra la detta Villa di Colina e la Villa di Rigolato, ove esiste un trozzo precipitoso. In fede ecc. In quorum ecc. Dall’Offizio della Cancelleria di Tolmezzo, e provincia della Carnia, li 7 Gennaro 1800. Filippo Bartolini Cancelliere.” L’originale di questo documento, che mi è pervenuto solo in copia, è archiviato in luogo a me sconosciuto. 

  21. Agli albori del XXI secolo, l’isolamento culturale – ancor prima che materiale – di pochi ha portato, in rapida e straordinaria successione, al progetto e alla scellerata costruzione di una ampia strada carrozzabile lungo questo stesso percorso. Terminata la costruzione della strada, solo la temporanea mancanza di fondi (altrui) ne ha rinviato l’asfaltatura. Se in prospettiva la stolta opera si propone come un altro dei numerosi elementi di suicidio turistico/ambientale perpetrati con successo in questi luoghi, già nell’immediato esso si configura come opera inutile, delitto ambientale e sperpero di pubblico denaro. Il tutto contrabbandato per volontà popolare. Quos deus perdere vult, prius dementat. E così sia. 

  22. L'affermazione è intenzionalmente ambivalente, poiché il ventesimo secolo porta anche le strade lungo le quali si avvieranno sempre più nutrite schiere di emigranti. Non più i cramârs che utilizzavano la via del Ğùof per unirsi ai compagni di ventura di Cercivento, e con essi scendere la Valcalda per poi risalire a Monte Croce, o che da Collina si avviavano direttamente alla meta attraverso Volaia o Plumbs. Questi emigranti non vanno più a piedi alla meta, come un tempo i cramârs: questi vanno a Rigolato oppure a Comeglians a prendere prima la corriera e poi il treno. Ê il primo passaggio di un viaggio spesso senza ritorno, autentico export di Collina – e di tutta la Carnia e di tutta la montagna, a ben vedere – in una sorta di confusione merce/uomo a saldo di una bilancia commerciale in perpetuo passivo (affermazione, quest'ultima, che non risponde numericamente alla realtà, ma che tuttavia vi si avvicina abbastanza da poterla considerare corretta). 

  23. La minuziosa descrizione dell’antico percorso da Collina alla parrocchiale di Frassenetto, frutto della perizia effettuata nel 1769 da Antonio Pascoli, “Pubblico Perito nella Villa di Colza del Quartiere di Socchieve in Cargna”, è riportata integralmente in appendice, insieme a numerosi rimandi alla parte analitica. 

  24. La cura di Sopraponti, così detta – Sorepuìnz – perché situata a monte dei ponti sul Degano, fu istituita verso la metà del XIV secolo a comprendere l’intero territorio dell’attuale comune di Forni Avoltri e le relative frazioni. La chiesa parrocchiale, dedicata a san Giovanni Battista, è posta nella frazione di Frassenetto. Per una disamina della nascita delle pievi e parrocchie in Carnia si veda Flavia De Vitt, Pievi e Parrocchie della Carnia nel tardo Medioevo (secc. XIII-XV), Società Filologica Friulana-Ed. Aquileia, Tolmezzo 1983. 

  25. In realtà la “grana” non fu piantata dai soli Collinotti. Qui di seguito si tratta in dettaglio della durissima contrapposizione fra la villa di Collina e i curati di Sopraponti: tuttavia, identica controversia contrappose i curati anche alle ville di Forni e Avoltri, che avanzavano analoghe pretese nei confronti della parrocchiale. 

  26. Una trascrizione meno letterale si trova in Mo74. 

  27. Nella seconda metà del XVII secolo, l’Ufficio della Cancelleria di Tolmezzo registra un considerevole numero di testimonianze giurate, relative a incidenti di varia natura occorsi alla Ruvîš. Dalla caduta di donne gravide risoltesi con un semplice (!) spavento, alla morte per caduta di pietre, vi si trova davvero di tutto. In un arco temporale di sei secoli (l’intervallo di tempo nel quale i Collinotti furono obbligati a recarsi a Frassenetto per la messa e i sacramenti), gli accidenti di qualsiasi natura ed esito, direttamente o indirettamente da attribuirsi alla Ruvîš possono attendibilmente essere stimati in centinaia, con decine di morti. Vittime privilegiate – se così si può dire – furono gli infanti, spesso neonati condotti al battesimo: costretti ad attraversare la frana con qualsiasi condizione di tempo, soprattutto d’inverno i piccoli morivano di freddo, talvolta prima di raggiungere la chiesa o sulla porta di questa. Avanti le porte (chiuse) del Cielo, insomma. Forse sarebbe il caso di spendere qualche parola su chi, ostinatamente e per secoli, per mera avidità di potere (e soprattutto di denaro), tenne ben strette le chiavi di quelle porte, conclamatamente venendo meno alla propria missione di pastore d’anime. Storia e documenti insegnano e dimostrano ampiamente quanto i Collinotti fossero litigiosi: ma sono proprio i documenti a dimostrare come, nella lunghissima querelle con i parroci di Sopraponti, i Collinotti avessero sacrosanta ragione e i parroci, timorosi di perdere 12 soldi a battesimo (oltre, beninteso, a tutto il resto) indubitabilmente e colpevolmente torto. 

  28. Mo69. 

  29. Sul territorio le strados des ùolğos sono ancora oggi (e saranno ancora a lungo) un segno profondo della civiltà contadina. Profondo in senso anche letterale, giacché in alcuni tratti letteralmente si inabissano nel terreno a profondità di 3 metri e oltre. L’infossamento è dovuto al plurisecolare passaggio delle slitte cariche del fieno che scendeva di mont, ai cui pattini – non diversamente dalle ruote delle auto – erano applicate le catene per rallentarne la corsa verso il basso. Le catene agivano da freno “mordendo” il terreno, progressivamente asportandone lo strato superficiale: l’opera di scavo è stata poi accentuata dei cospicui fenomeni di ruscellazione in occasione di precipitazioni particolarmente abbondanti. La dimensione del fenomeno dell’infossamento delle strados des ùolğos è ancora oggi perfettamente visibile lungo le tre principali direttrici che scendono dai prati di Temós, di Ğùof, e di Cjalgjadùor. In particolare quest’ultima è visibile in località Cjamavùor, poche decine di metri sopra l’abitato di CP, a 5 minuti di cammino. 

  30. È detto odonimo il nome proprio assegnato a una via, a una piazza, ecc. L’insieme degli odonimi costituisce l’odonomastica. 

  31. Procedendo per categorie economiche, Collina è insediamento ad economia primaria (agro-silvicola), mentre gli altri sono ad economia secondaria (artigianato o, in qualche caso, industria: per tutti, la lavorazione del legno e la tessitura) o terziaria (servizi). Vale, naturalmente, il principio della prevalenza: un'attività non esclude l'altra, ma risulta comunque preponderante. 

  32. Più d’uno fece fortuna emigrando, ma nessuno tornò ricco – vivo – a Collina. Di alcuni si ebbe il segno della prosperità e della munificenza, come nel caso del lascito per la Mansioneria di Collina, di altri ritornò la fama di mercanti e imprenditori, di nessuno si vide la ricchezza vissuta. 

  33. Lo stesso Gortani, a proposito di Collina, ne fece menzione nel rifacimento della Guida della Carnia di Giovanni Marinelli: “benché la vegetazione sia rigogliosa, il clima non permette che la coltura del frumento, della segale, dell’orzo, della patata, dei cappucci e della canapa…” (Mn573). Tuttavia, anche da parte degli anziani (persone nate negli ultimi decenni del 1800) già negli anni ’60 del secolo scorso non si aveva memoria alcuna di frumento lassù. 

  34. La proprietà comune non si limitava al solo bosco, comprendendo numerosi e vasti terreni (molti dei quali indivisi fino al 1880), pascoli e malghe. 

  35. L’aspetto ludico come elemento esclusivo o anche solo prevalente dell’attività venatoria è circoscritto all’ultimo secolo, o forse meno. Prima di allora, anche quassù la caccia aveva lo scopo di mettere in tavola un poco di carne in più, integrando una dieta non particolarmente ricca in questo senso. 

  36. Aa11-14 e più recentemente Ab16-19. 

  37. Aa23 e segg. 

  38. Si definisce prediale un nome di luogo costituito da un gentilizio, generalmente del proprietario del fondo, con un suffisso di appartenenza (ad es. il lat. -acu(s)). 

  39. E dirò ancora, seppure brevemente. A stretto rigor di termini, la comparazione dovrebbe essere fra la parlata di Collina (e contermini) e le diverse varianti del friulano, giacché nei dialetti dell’alto Gorto si riconosce gran parte degli elementi del friulano nativo quale si è venuto formando nel basso medioevo, caratteri progressivamente perduti dal basso friulano. È cosa risaputa (oltre che abbastanza intuibile) che gli elementi primitivi e caratteristici della lingua friulana sono meglio preservati mano a mano che ci si allontana dall’area della parlata oggi dominante, più esposta di altre alla contaminazione di influenze alloglotte, in particolare venete prima, e italiane poi. Il prolungato isolamento di Collina, anche rispetto ai paesi vicini, ha favorito la conservazione di un linguaggio antico di cui il femminile in “o” (peraltro comune a tutto l’alto Gorto) e l’articolo maschile “lu” non sono che gli elementi più noti in tutta la furlanìa. Per una efficacissima ed esaustiva analisi della parlata di Collina, si veda Giuseppe Scarbolo, Il dialetto di Collina, Tesi di laurea presso l’Università degli Studi di Padova, Relatore prof. Carlo Tagliavini, 1947. 

  40. Rotolo del cameraro di s. Michele di Collina, 1595-1605, APC. 

  41. Sulle ipotesi circa le possibili motivazioni alla base dell’insediamento di Collina si è diffusamente trattato in AP.