Enrico Agostinis

 

Mons di Culina, Culìno e Culinòts

Divagazioni storico-toponomastiche in tempo e luogo (e altro ancora) su un alpeggio carnico e dintorni, dal 1400 ai giorni nostri

 

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Scarica questo file (MonteCollina.pdf)Mons di Culina Culìno e Culinòts[© 2015 Enrico Agostinis]819 Downloads

Premessa (breve)

A Collina (localmente Culìno)1, oggi frazione del comune di Forni Avoltri nell'alta valle del Degano alias canale di Gorto, in Carnia, è credenza diffusa che nel '700 l'allora Comune di Collina vendesse i propri pascoli e malghe di val di Collina, siti alla testata della valle della Bût alias canale di san Pietro, allo scopo di finanziare la realizzazione del coro della propria chiesa di san Michele Arcangelo. La tradizione è di origine esclusivamente orale e non ha riscontri documentali, ma è fortemente radicata in virtù dell'omonimia fra il paese e la valle, distanti e separati da ostacoli naturali non di poco conto e purtuttavia legati da un palese e trasparente vincolo toponomastico.

A ciò si aggiunge il generale convincimento, non solo collinotto ma decisamente più diffuso e anzi generalizzato, che i toponimi rio di Collinetta, val di Collinetta, Creta di Collinetta e derivati traggano origine dall'oggi omonimo borgo.

Dalla tradizione collinotta dei pascoli perduti prende avvio — un po' pretestuosamente, ma da qualche parte bisogna pure iniziare — un lungo vagabondaggio spazio-temporale intorno e dentro quell'angolo di Carnia dimenticato da dio e dagli uomini che è Collina: angolo in verità dimenticato più dai secondi che dal primo (e forse ancor più dagli autoctoni che dai foresti…). Una peregrinazione lungo percorsi desueti, linee secondarie e binari morti da cui si può solo tornare indietro, valli alpine e corsi d'acqua e sentieri, compresi quelli del tempo. Dopo tutto, lo dice il (sotto)titolo stesso: di-vagare

Conclusioni (ancora più brevi)

Trattandosi di argomenti d'importanza men che secondaria nel già secondario baiarzo o campicello della storia e toponomastica cargnella, nonché a evitare perdite di tempo a chi va diritto allo scopo, anticipo il dispositivo della sentenza del lungo procedimento: la credenza dei Collinotti di cui alla premessa è dimostratamente infondata, e il generale convincimento circa la genesi dei toponimi “rio di Collinetta” e affini è altrettanto immotivato. Il Comune di Collina non vendette mai le malghe di val di Collina perché mai ne fu proprietario, e i toponimi di rio, valle e Creta di Collinetta non derivano dall'oggi omonimo villaggio perché essi sono nati prima che Culìno Pìçulo-Collina Piccola fosse sventuratamente italianizzato in Collinetta. Tanto vi dovevamo per obbligo di sintesi.

Viceversa a chi, insoddisfatto delle conclusioni in stile Reader's Digest, fosse incuriosito dall'indagine di per sé, invogliato al vagabondaggio e alla divagazione nonché attratto dal benefico esercizio del salto dalla frasca al palo… Prego, si accomodi e allacci bene le stringhe: ci sarà da scarpinare.

Primi passi. All'indietro…

Alla prima “stazione”, occorre dotarsi di… biglietto: al nostro caso fanno alcuni documenti tardo-medievali riguardanti ciò che proprio in essi è denominato Mons de Culina. Monte che, contrariamente alle apparenze, non è il Cogliàns ma la Mont di Culìno ovvero la Monte di Collina2, ciò che nella attuale toponomastica e sulle mappe d'oggi sostanzialmente corrisponde alla val di Collina, ai suoi pascoli e alle sue malghe.

I documenti (due) sono datati intorno al 1470, ma le nostre divagazioni si muoveranno in un arco di tempo molto più ampio, di secoli e secoli tanto all'indietro che in avanti rispetto ai documenti stessi: praticamente l'intero secondo millennio dell'era cristiana, con una brevissima incursione finale fin dentro il terzo millennio, ai giorni nostri.

… nel tempo e non solo

Con un nome così, la Monte di Collina sarà certamente situata presso l'omonimo villaggio, amena frazione del comune di Forni Avoltri, posta a 1250 m di quota alle falde del m. Cogliàns ecc. ecc…

Naturalmente, non è così. Troppo facile! Il percorso dal villaggio di Collina alla omonima Monte è tutt'altro che la strado dal órt (a Culìno la pronunzia è con la “o” acuta), la strada dell'orto che i Collinotti prendono a paradigma di un percorso molto breve. Al contrario è strada lunga, e tormentata assai.

Anzitutto l'alpeggio si trova non solo al di fuori dei confini frazionali di Collina, ma anche fuori dell'odierno comune d'appartenenza della frazione stessa, Forni Avoltri. Non che il limes amministrativo, per di più di conio recente, costituisca in sé elemento di separatezza geografica o sociale, e men che meno un invalicabile impedimento al movimento di uomini e cose. Il ridente borgo di Gjivïàno-Givigliana, ieri comune autonomo e oggi ubicato in comune di Rigulât-Rigolato, non per ciò è mai stato far away per Culìno e Culinòts, e men che meno off limits (tanto per continuare con una variante moderna della parlata locale): al contrario, la distanza di Givigliana da Collina è tale da non costituire ostacolo a che per secoli gli ardenti giovinotti di Collina ci andassero a morose (codeste ultime, a tempo debito, spesso pure legittime spose).

Si potrà obiettare che l'esempio è mal scelto, nel senso che qualche chilometro in più o in meno non sarà certo di grande ostacolo o, rispettivamente, incentivo ai morosamenti (che, come è ben noto, si incentivano da sé e non in base al chilometraggio), ma potrebbe ad esempio costituire ostacolo al movimento delle merci, soprattutto in tempi di dazi, pedaggi e gabelle a ogni attraversar di rio. E infine — non più in senso lato, ma in preciso riferimento al borgo e all'alpeggio — non è solo questione di mera distanza, pur considerevole, ma anche di dislivello: Collina è separata dalla omonima Monte dalla cresta che congiunge il massiccio del Cogliàns al Cròstis, e per la via più breve che dall'abitato conduce all'alpeggio si devono superare oltre 700 metri in salita, e poi qualche altro centinaio in discesa.

Dettagli utili ma non essenziali, e sui quali potremo ritornare fra poche righe. Importante ora è sottolineare come la Monte di Collina o val di Collina che dir si voglia si trovi lontana dal villaggio omonimo, e sia oggi situata in territorio amministrativamente “alieno”. E proprio questo curioso ma non esclusivo status sarà oggetto, insieme ad altre particolarità, della nostra attenzione.

Carta canta

I due documenti che costituiscono la premessa alle nostre divagazioni (mie e dell'unico, ostinato lettore rimasto) risalgono l'uno al 1467, l'altro al 14683.

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Incipit del documento del 1468 e confines della Monte di Collina nella trascrizione di Alessandro Wolf (v. nota 3).

Si tratta di due regesti notarili aventi entrambi per oggetto la rinuncia della Villa di Collina al beneficio della concessione della Mons de Culina contro pagamento di un fitto o livello. Il livello era in natura, stabilito in 333 libbre e 4 once di formaggio (poco meno di 160 kg, ovvero circa 30 forme: non è specificato se formadi fresc o vecju), più le spese di trasporto fissate in 13 denari4. Oltre alla definitiva rinuncia da parte di Collina, gli atti sanciscono altresì l'investitura formale del nuovo affittuario, Matteo Bruni di Paluzza, e il livello “aggiornato” (c'era già l'ISTAT?) a 335 libbre oltre alle consuete spese di trasporto.

L'oggetto dei documenti — in sé non di particolare interesse in quanto non dissimile, pur con le sue peculiarità, da centinaia o migliaia di analoghi contratti, concessioni, patti e quant'altro, stilati in epoca di dominio patriarcale/veneto — fornisce tuttavia lo spunto per numerose quanto varie divagazioni e digressioni fra costume, toponomastica, economia ed altro, in una sorta di ciclo di affreschi collinotti (ma forse anche cargnelli, e ancora oltre) che lentamente sfuma in album di fotografie, prima vecchie stampe sbiadite e virate seppia, poi il colore e infine i pixel d'oggidì.

Perché tutta questa strada, tutto questo travaglio? Perché, dopo tanto divagare, nei pixel di oggi non sarà difficile ritrovare le tracce degli affreschi dell'altroieri…

Uno sguardo ai confines

Ovvero las cunfins dell'idioma natio. Sarà invero qualche cosa più d'un semplice sguardo a questi confini, dal momento che non tutto appare evidente e neppure chiaro. Per di più, anche quel poco che sembra chiaro ci porterà ben oltre una semplice presa d'atto, e avrà non trascurabili implicazioni e conseguenze sull'insieme della nostra disamina.

Ecco dunque i confines, così come la stessa autorità amministrativa del tempo li definisce, della Monte di Collina. A prima juxta Stratam Montis de Cruce. Nel nostro caso (il criterio non è univoco), a prima corrisponde est, e dunque “a levante la strada di Monte Croce” (Carnico, beninteso), nel suo tracciato medievale che in parte ancora ricalcava il percorso della via romana5.

A seconda juxta Cripta sive prata de Stali: “a settentrione la Cripta ossia i prati di Stali”. Stali è il toponimo friulano storicamente in uso per indicare la località detta in tedesco Plöcken (in passato anche Plecken e Pleken), poco oltre il valico di Monte Croce, un pianoro al cui limitare si trovava anche la piccola chiesa di santa Elisabetta appunto detta di Stali o di Plöcken6.

 
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Particolare della carta di Giampiccoli (1787) comprendente Collina e Monte Croce Carnico, con l'indicazione della località di Stalis e della chiesa di santa Elisabetta.

La chiesetta, ricordata anche da Giovanni Marinelli nella sua Guida della Carnia7, era nel tardo medioevo sottoposta alla parrocchia di Paluzza: dal XIII al XIX fu meta del pellegrinaggio dei valligiani dell'alto canale di san Pietro, e la sua croce prese parte all'antichissima cerimonia del Bacio delle croci presso la Pieve matrice di Zuglio, dove solo recentemente (2001) è ritornata8.

Indi, a tertia juxta Chiaulam Tumicinam, ovvero “a meridione Chiaula Tumicina”, malga nell'alta val di Chiaula i cui ruderi ancora oggi conservano la medesima denominazione, e dove “Tumicina” è l'italianizzazione di Tumiecìne ovvero “Tolmezzina”, in quanto territorio e pertinenze nella disponibilità della Comunità di Tolmezzo9.

Infine, quartam juxta Montem de Val de Meleseijs possessum per illos de Culina: “a ponente la Monte di Val de Meleseijs, possesso di quelli di Collina”. A prima vista (e udito) “Val de Meleseijs” suona oscuro, dal momento che né oggi né a memoria d'uomo esiste alcunché, nelle vicinanze, che apparentemente somigli a quel toponimo. Di primo acchito e apparentemente, giustappunto, ma avremo tempo e modo per una seconda e più proficua visita a questo confine occidentale: per il momento basti annotare che a ponente della Monte di Collina come sopra definita si trova solo la valle di Morarìot-Morareto, effettivamente sede di pascoli e di malga (montem) e, giusta i documenti, possessum della Villa di Collina.

Ancora confini, ma a dì di vuìo (aujourd'hui)

Visti i confini sopra descritti, la Monte di Collina dei documenti quattrocenteschi corrisponde — con qualche interessante aggiustamento, soprattutto sotto il profilo storico — alla intera valle del rio di Collina, affluente di sinistra del rio Chiaula, a sua volta “precursore” della Bût. Alla val di Collina propriamente detta sono da aggiungere anche l'arido vallone del rio Monumenz nonché la piccola valle del rio Collinetta, entrambi tributari di sinistra del rio Chiaula. La val Collinetta è una sorta di valletta pensile racchiusa fra la cresta di confine (Creta di Collina-Cresta Verde-Creta di Collinetta) e una quinta che, staccandosi fra la Chianevate e la Creta di Collina, forma verso sud un gradone roccioso che scende ripidissimo a formare il versante settentrionale del vallone Monumenz: verso nord la val di Collinetta si raccorda poi con il valico di Monte Croce, mentre il versante meridionale, oltrepassato il breve pianoro della casera Collinetta di sotto, precipita ripidissimo al fondovalle della Bût. Tutte queste valli sono oggi interamente situate in territorio del comune di Paluzza.

Il limite settentrionale della Monte di Collina, posto ai prati di Stali-Plöcken, si trovava dunque oltre l'attuale confine di Stato (e anche, apparentemente, oltre i confini quattrocenteschi della Repubblica di Venezia)10.

 
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Particolare della Kriegskarte, Sezione XV 5-Forni Avoltri, di Anton von Zach (v. nota 16), da Collina a Monte Croce. In verticale l'immagine è bipartita dalla dorsale che dal Coglians (Quel Cane) scende al Crostis. A sinistra sono ben visibili le valli di Morareto e di Plumbs: a destra, dall'alto, le valli Collinetta (erroneamente indicata in luogo del rio Monumenz), Collina e Chiaula.

D'altra parte, quando si presentò la “necessità” di stabilire i confini fra i possedimenti del Patriarca e quelli del Duca di Carinzia, i confini a Monte Croce rimasero — per ragioni storiche, economiche, sociali, politico-religiose — sostanzialmente indefiniti. E poco o punto definiti rimasero per altri mille anni, sì che furono oggetto di contenzioso anche nel 1921-22, dopo la fine della Grande guerra, in sede di applicazione del trattato di San Germano in materia di frontiere. In quella sede il delegato austriaco riconobbe — salvo rimanere rigidamente ancorato ai confini geografici e geomorfologici effettivamente concordati — che […] una parte dei pascoli alpini furono e sono ancora proprietà di comuni o di soggetti italiani […]11. Fra questi, evidentemente, la piccola parte di pascolo della Monte di Collina fino a santa Elisabetta e ai prati di Stali.

In epoca moderna, oltre alle malghe Collinetta di sopra e di sotto, la qui definita Monte di Collina comprende nella sua parte inferiore le casere Collina Grande e val di Collina; nella sua parte superiore le casere Monumenz e Plotta. Il riferimento allo stato di degrado dell'edificio (domus, al singolare tanto nel primo che nel secondo documento) lascerebbe supporre che, ferma restando l'estensione della “monte” e quindi del pascolo all'intera valle, al tempo della stesura degli atti fosse presente una sola casera propriamente detta, da individuarsi probabilmente fra le già citate casere Collina Grande e val di Collina. Sulla base dei soli documenti di cui ci occupiamo non è possibile stabilire univocamente di quale delle due malghe si tratterebbe, se effettivamente fosse una sola: probabilmente val di Collina, più “centrale”, ma siamo nel campo delle ipotesi12. Dettagli, e per di più di modesto rilievo ai nostri fini: a metà del XV secolo c'era una casera, ed era diroccata. Tanto ci basta.

 
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La parte superiore della val di Collina. Sullo sfondo l'alto canale di san Pietro e il villaggio di Timau (foto e arch. E. Agostinis).

Speculazioni a parte, e di ritorno ai fatti documentali, va da sé che questa fioritura toponomastica di Colline e Colline Grandi e Collinette fra '400 e '600 non ci lascia indifferenti, prestandosi fra l'altro a considerazioni di una certa portata (pur sempre, beninteso, mantenendo il senso delle proporzioni: storia o toponomastica che sia, la nostra sempre micro è…). Se ne tratterà più diffusamente oltre, ma sin d'ora non si può proprio evitare di rilevare come l'antiquitus (nel testo) del diritto collinotto sulla Monte di Collina dovesse già allora essere davvero… antico, significando probabilmente “da sempre” (dove “sempre” va naturalmente inteso come nessuno ha memoria di quando ha avuto inizio, oppure da prima che quella valle avesse un nome, che è poi la stessa cosa).

In buona sostanza, ben prima che a memoria d'uomo e fino al 1448, quando proclamarono la propria rinunzia, utilizzatori di quella valle furono gli uomini della Villa di Collina, e solo loro. Furono invece “altri” — come sempre succede, anche se non sempre questi “altri” sono identificabili — ad attribuire a quella piccola valle, prima in via colloquiale e informale, e poi documentale e ufficiale, il toponimo ancora oggi in uso di val di Collina: prima i viandanti sulla via di Monte Croce, o gli abitanti di Timau (se presenti) o di Cleulis, o di Paluzza e poi dell'intero canale di san Pietro, e infine il Gastaldo di Tolmezzo e l'amministrazione patriarchina. Insomma, la burocrazia.

Sentieri di pastori e di cramârs…

Per accedere alle loro pertinenze extra mœnia (ripetiamo ancora che la val di Collina è al di fuori del territorio storicamente e propriamente collinotto)13, i Culinòts transitavano certamente per la forcella Plumbs, via che da Collina costituisce il percorso più breve per la val di Collina, per di più con 150 m di dislivello in meno rispetto alla sola altra alternativa, forcella Morareto, oggi trafficatissima ma allora pressoché deserta14.

Oltre che dai Collinotti pastori-pellegrini la forcella Plumbs era assai utilizzata dai cramârs15 dell'alto e medio Gorto diretti a Monte Croce. Nella Kriegskarte di Anton von Zach16 la forcella Plumbs è denominata “Forca Grande”, italianizzando il toponimo dei cramârs ancora oggi in uso a Givigliana e contermini (Gran Fòrcjo), in contrapposizione alla “Forca Picola” (Pìçulo Fòrcjo o Forcjùto a Givigliana, Fòrcjo des Bióucjos a Collina, Sella Biòichia nella toponomastica ufficiale). Quest'ultimo valico era a sua volta transito quasi obbligato, o comunque preferenziale, fra la valle di Plumbs e le propaggini meridionali del m. Crostis che da un lato scendono alle frazioni di Rigolato e Comeglians, e dall'altro a Ravascletto, Zovello e alla Valcalda.

Oltrepassata forcella Plumbs la via dei cramârs proseguiva, secondo la toponomastica attuale, traversando a sinistra per malga Florìz alta e quindi scendendo direttamente ad attraversare il rio di Collina, lasciando la malga Plotta in alto a sinistra; indi lungo il rio di Collina fino alla casera val di Collina e più in basso, attraversato il rio Monumenz e aggirate verso sinistra le ultime propaggini (il cosiddetto Malpasso) della quinta che si stacca dalla cresta Chianevate-Creta di Collina e scende a racchiudere la valle del rio Collinetta, una breve risalita per raggiungere casera Collinetta di sotto e infine il valico di Monte Croce.

… e poi di escursionisti e alpinisti

Questa la via più frequentata (ovviamente con il caval di san Francesco, mica in carrozza!) dal canale di Gorto verso l'Austria e il Centro Europa. Se poi vi capitasse di sentire o di leggere che i cramârs scendevano a Monte Croce lungo la val di Collinetta, accedendovi per la Scjalòto ovvero “la Scaletta” (ad abundantiam, si narra anche che gli stessi cramârs — o, più genericamente e forse anche correttamente, “migranti” — transitassero per forcella Morareto) alzate pure un sopracciglio, o anche due17. Beninteso, nulla (o quasi nulla) è impossibile, ma per quanto suggestiva l'ipotesi appare per lo meno improbabile. Molto improbabile, dal momento che così facendo i viandanti si sarebbero complicati la vita dibant.

Anche a prescindere dalla moderna carpenteria con cui è attrezzato il passo più problematico, il percorso della Scaletta è relativamente recente: la dettagliatissima Kriegskarte (1804), che pure con grande minuzia riporta non solo le vie rilevanti sotto il profilo bellico ma anche alcuni sentieri secondari del tutto insignificanti (c'è persino qualche trói di mont che conduce solo agli stavoli in quota, e lì finisce), riporta la via per Monte Croce così come sopra descritta per i cramârs, via val di Collina, ma non riporta alcun sentiero per la Scaletta e per la val Collinetta, percorso che pure avrebbe avuto qualche rilievo a fini militari. Quanto a forcella Morareto, non solo la Kriegskarte non riporta alcun tracciato (e a maggior ragione valgono le considerazioni strategiche già espresse per la val Collinetta), ma neppure indica la forcella stessa, in tutta evidenza funzionalmente irrilevante al punto di non essere neppure quotata dai topografi prima del 1901 quando, a ricovero Marinelli ormai inaugurato, Olinto Marinelli provvede alle ormai opportune misurazioni.

Né si vede ragione per cui dovesse esservi tutto questo bendidio dell'escursionista, dal momento che fino alla seconda metà dell'800 turisti non ce n'erano, e pastori e cramârs non si complicavano la vita dibant (termine che da queste parti, per chi ancora nutrisse qualche dubbio, significa inutilmente). Come tale, il sentiero di forcella Morareto fu aperto fra fine '800 e inizio '900, in concomitanza con la costruzione del ricovero Marinelli (1901) in prossimità della forcella stessa, e verosimilmente così fu anche per il sentiero attraverso il non banale passaggio della Scaletta18.

 
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Il ricovero Marinelli a forcella Morareto nel 1907 (arch. E. Agostinis)

Non che quella per Plumbs-val di Collina fosse l'unica via praticata dai migranti di Collina e del Canale di Gorto diretti oltreconfine, dal momento che alcuni di essi transitavano persino da Volaia, che sta da tutt'altra parte. Ancora la Kriegskarte (sì, sempre quella, ma è la prima carta dettagliata di cui si disponga) riporta due distinte direttrici attraverso il passo Volaia, vie evidentemente molto frequentate nel XVIII secolo ma forse da ben prima di allora: una che porta “nella Vall aÿa e Gail Thal”, l'altra “a Mauten e Monte Croce”. La prima, scendendo a Birnbaum per la Volayertal, non porta a Monte Croce ma abbrevia di molto il percorso per chi è diretto verso l'alta valle della Drava; la seconda invece, attraverso il Valentin Törl, porta sì verso Monte Croce, ma a prezzo di non poche complicazioni: è molto più lunga di quella per Plumbs-val di Collina e con maggior dislivello da superare (oltre 150 m), ma soprattutto è più disagevole e pericolosa, dal momento che per un lungo tratto è soggetta alla caduta di valanghe fino a primavera inoltrata, e in parte il terreno è innevato tutto l'anno. Rischiosa, dunque, e qualcuno vi lascia anche la vita19.

Perché mai dunque andare per di là, a cercare fadìo, fastidis e piricul, che non necessitano di traduzione? Per una sola ragione: quella via permette di raggiungere Mauthen aggirando il valico di Monte Croce ed evitando anche buona parte della più frequentata — e verosimilmente più controllata — “via principale” che vi transita. Un dettaglio non di poco conto per chi ha qualcosa o qualcuno (magari sé stesso) da nascondere: e, in tutta evidenza, spesso il gioco vale la candela.

Tramontata l'epoca di contrabbandieri e passeur, quella via è oggi solo una bellissima escursione estiva o scialpinistica (va da sé, non senza attenzione e qualche ovvia precauzione).

Di ritorno alla oggi frequentatissima forcella Morareto, con ulteriore digressione escursionistica aggiungiamo pure che, in assenza del ricovero come punto d'appoggio, anche la salita al Cogliàns per la via normale da Collina non seguiva il percorso attuale forcella Morareto-Pic Chiadin-forcella Monumenz-vallone del Ploto, ossia entrando in quest'ultimo vallone già molto in alto, oltre forcella Monumenz e una volta aggirate le propaggini del contrafforte che scende dalla Cima di Mezzo. Il tracciato originale si svolgeva direttamente attraverso il Cjadìn e il Cjadinón (il “Ciadìn di Sot” e “Ciadìn di Sore” di Marinelli) ovvero risalendo per intero, fin dal suo sbocco inferiore, il cosiddetto e già citato vallone del Ploto. Seppure non frequentatissimo, il percorso è seguito ancora oggi20.

Molte domande, poche certezze

Si apre dinanzi il gran campo (minato!) delle ipotesi. Le osservazioni circa il percorso seguito per accedere alla Monte di Collina nulla dicono riguardo al quando e al perché i Collinotti abbiano colonizzato la valle che ancora oggi porta il nome del loro villaggio, e ne siano stati investiti del beneficio. Struttura e fraseologia dei documenti, e soprattutto il confine settentrionale di Stali-Plöcken, lasciano intendere che fin dalle origini si trattasse di possesso da beneficio feudale.

Se poi il concedente originario fosse il Patriarca stesso, o invece il beneficio datasse da tempi ancora più antichi, non ci è dato sapere con certezza: in via induttiva, il potere patriarcale “pieno”, post 1077, è il principale indiziato. Il che, un po' ragionando e un po' congetturando (in assenza del “vero” ci si attacca al verosimile, al probabile, al possibile…), apre nuovi scenari riguardo alla colonizzazione della stessa valle del rio Morareto-Fulìn, quella dove si trova Collina. Insomma, dell'origine di Collina stessa. Anche su questo si dovrà ritornare più avanti.

Pastori sì, ma di che, e di chi?

Non lo sappiamo con certezza. Che nella Monte di Collina i Culinòts facessero i pastori-malgari è persino banale a dirsi, ma che cosa vi pascolassero, e chi fosse proprietario di questo “che cosa” è molto meno scontato. In prima istanza si potrebbe pensare a pecore (o, meno probabilmente, capre) dal momento che, almeno fino al XVI-XVII secolo, quello ovino sembra essere stato l'allevamento prevalente in Carnia. Senonché quelle 333 libbre di formaggio da consegnare a mo' di fitto al Gastaldo-esattore pesano come macigni, e non è solo un modo di dire. E dunque, pur se anche gli ovini sono quasi certamente presenti nella Monte di Collina, i 160 kg contrattuali di formadi di mont — le già citate 30-32 forme — sono prodotti con latte di vacca. Senza troppo distrarre l'ormai solitario lettore con calcoli astrusi, diciamo che con il bestiame dell'epoca, autoctono, non selezionato e quindi di bassa produttività21 (l'abate Mendel è un pezzo di là da venire), 160 kg di formaggio sono il prodotto di una stagione in mont di 4 o 5 vacche. È molto? È poco? Dipende: se pascoli 200 vacche di tua proprietà è poco, se ne pascoli 50 di proprietà altrui è molto.

Non sappiamo neppure con quanti capi i Collinotti monticassero l'alpeggio, ma quasi certamente non si trattava di bovini di loro proprietà (o solo di loro proprietà): ciò non tanto per la distanza da Collina (il bestiame che va in mont viene anche da molto più lontano) quanto per il percorso descritto in precedenza. Il passaggio obbligato dei bovini a quasi 2000 m di quota avrebbe comportato una elevata probabilità di accorciamento del periodo di pascolo (a metà giugno, a forcella Plumbs e soprattutto oltre, nel traverso di Florìz, spesso si trova ancora la neve) e ancor più il concreto rischio di rendere insicuro il ritorno a Collina a causa di precoci nevicate settembrine, tutt'altro che infrequenti a quelle quote. A ciò si aggiunge l'attraversamento di pascoli di altre malghe (Plumbs, se già attiva, e parte di Chiaula Tumicina), e infine la piena e totale disponibilità da parte di Collina di altri alpeggi più convenienti sotto ogni profilo, in primis Morareto.

Quindi ipotizziamo che in val di Collina i pastori collinotti monticassero — in parte o del tutto — bestiame altrui. Di dove e di chi l'altrui? Probabilmente bovini del canale di san Pietro (troppo facile…), in numero variabile a seconda se proprietà di contadini (una o raramente due vacche per famiglia: dopo tutto siamo nel Medioevo!) o di possidenti (anche decine di capi, ché del Medioevo e annessa povertà ai sorestants cale poco o nulla). Ma anche a noi non interessa più di tanto.

Può interessarci invece comprendere con quale modalità si dedicassero i Collinotti a questa attività, ovvero secondo quali accordi tenessero a pascolo l'altrui bestiame. I bene informati ci suggeriscono trattarsi probabilmente di soccida, modalità contrattuale con cui il proprietario del bestiame (soccidante) conferiva, per il periodo della monticazione, il bestiame stesso al titolare della malga (soccidario) a scopo di custodia, ingrasso, sfruttamento della produzione lattiera. Comunemente, per il bestiame lattifero, il prodotto della monticazione era suddiviso in parti uguali fra soccidante e soccidario: detto altrimenti, i costi sono tutti del malgaro (tutti, compresi eventuali incidenti al bestiame), mentre i ricavi si dividono a metà fra malgaro e proprietari del bestiame stesso.

Quale che sia la modalità dell'accordo, funziona per secoli. Finché a un certo momento, fra il 1440 e il 1450, i Collinotti non ce la fanno più, e decidono di lasciare. Apparentemente non succede nulla: eppure cambia tutto, e le conseguenze arriveranno fino ai giorni nostri. Vedremo come.

Ancora domande…

Ad esempio, perché i Collinotti del Medioevo si spingono a pascolar vacche fino alla Monte di Collina, così lontano dal loro villaggio? Che ci fanno, ancorché in virtù di diritto di emanazione patriarcale e dunque a pieno titolo, sotto Monte Croce e sulla Bût? È necessario un lungo passo indietro, alle origini stesse del villaggio di Collina.

Altrove abbiamo ipotizzato la colonizzazione dell'alta valle del Rio Morareto-Fulìn come opera di cargnelli del medio Gorto sospinti dalle “solite” ragioni dei migranti: forse un'epidemia, forse una carestia, oppure la pressione demografica e le troppo numerose bocche da sfamare, c'è di che scegliere22. Senza dubbio fu la miseria, ché quella non faceva mai difetto. Ipotesi ancora plausibile e persino probabile, per di più compatibile con ulteriori particolari emergenti sulla scorta della genesi degli insediamenti germanofoni di Sappada-Plodn e Sauris-Zahre (e forse, ancorché su basi diverse, anche di Timau-Tischlbong).

Si ipotizza che gli insediamenti di Sauris e Sappada siano stati promossi o facilitati dai Patriarchi germanici che si succedettero ininterrottamente fino al XIII secolo sul seggio di Aquileia23, allo scopo di mettere a frutto terre ancora incolte e soprattutto non redditizie per il feudatario. I suddetti Patriarchi, dietro implorazione-richiesta o motu proprio, avrebbero dunque richiamato dalle valli a nord delle Alpi alcuni nuclei familiari, concedendo loro l'uso di fondi feudali incolti a condizioni di particolare favore. Poteva trattarsi di beni in concessione d'uso, affitto o enfiteusi, contro pagamento di un canone o livello — come abbiamo visto per la Monte di Collina — da cui i concessionari potevano, in casi particolari, essere successivamente affrancati in tutto o in parte24. In altri casi fu invece sin dall'inizio concesso il dominio diretto di alcuni terreni25, ovvero la piena proprietà, a fronte di prestazioni perpetue di altra natura (tipicamente, la sorveglianza dei passi), ma nel sistema feudale patriarcale ciò venne a rappresentare più l'eccezione che la norma. In altri casi ancora il medesimo dominio diretto da parte dei villici — o almeno una consuetudine che de facto richiamava la sussistenza del dominio diretto e del concetto di piena proprietà — aveva origini molto lontane nel tempo, tali da non potersene neppure stabilire le radici26.

Analoga genesi socioeconomica, ma con base etnica ovviamente diversa (i Culinòts sono indubbiamente di matrice friulana), potrebbe avere avuto Collina. Rispetto a Sappada e Sauris, tuttavia, la valle di Collina ha certamente minor disponibilità di suolo in termini tanto di superficie che di fruibilità del territorio, essendo la valle del Rio Morareto-Fulìn assai più angusta e ripida delle alte valli del Piave e del Lumiei27. Di qui la necessità/opportunità di estendere il territorio in disponibilità dei Collinotti aggiungendovi la Monte di Collina, che pur si trova al di fuori dei limiti geografici della valle del Fulìn e con l'aggiunta della curiosa appendice oltreconfine.

 
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Formella in legno incastonata sopra l'ingresso di casa Maçócol, a Collinetta. L'opera, probabilmente ottocentesca e successivamente rielaborata, è di intento autocelebrativo: anche al netto dell'intrinseca incoerenza delle date (1315-1458!), la “fondazione” di Collina è comunque anteriore al 1274.

Un indizio in questo senso viene proprio dai documenti da cui siamo partiti per questo lungo viaggio. All'atto della rinuncia i Culinòts in miseria affermano che et potius vellent dimittere villam et mansos (…) quam ipsum montem tenere et affictum predictum pro ipso solvere: “rimetteremmo piuttosto le case, i campi e i prati anziché tenere la Monte e pagare i fitti”. È un'iperbole palesemente strumentale, un'esagerazione, una mezza sceneggiata, come si direbbe ad altre latitudini (io m'accido!), su cui magari Dario Fo avrebbe costruito un nuovo Mistero goffo (sic), ma la sostanza c'è tutta. Di questa iperbole ora ci interessa tuttavia il verbo utilizzato, dimittere, che oltre ad “abbandonare” o “rinunciare” a qualche cosa, significa “rimettere” nelle mani di qualcuno qualche cosa che da quel qualcuno ti è stato affidato. Il “qualche cosa” sono evidentemente la villa e i mansi; il “qualcuno” è all'epoca dei fatti la Signoria veneta, tramite il Gastaldo di Tolmezzo suo rappresentante. Ciò in quanto la Signoria è subentrata al Patriarca, ossia a colui che, nella nostra ipotesi, concesse ai Collinotti il beneficio della villa e dei mansi.

Insomma, questa iperbole minacciosa, o minaccia iperbolica, sembra indirettamente confermare la genesi e lo status della Villa e dei mansi di Collina quale sopra si è ipotizzata, per “mano” dei Patriarchi di Aquileia.

Quanto al “quando”, è una domanda destinata a rimanere senza risposta, almeno per il momento e in questo contesto. Posto che il territorio era nella disponibilità patriarchina, alcuni indizi fanno nuovamente propendere per il periodo fra la fine dell'XI e gli inizi del XIII secolo28, lo stesso periodo di Sauris e Sappada. Patriarchi tedeschi, quindi, come sembra indicare la successione dei patriarchi stessi, ma anche l'intitolazione della chiesa a san Michele29. Quanto invece all'estensione dei confines a Stali-Plöcken, oltre alla labilità dei confini su cui già si è argomentato in precedenza, va ricordato che in questo periodo la Chiesa aquileiese aveva certamente giurisdizione ecclesiastica in Carinzia, ma che in vari tempi e luoghi ebbe oltreconfine anche benefici secolari. Per tacere di usi e consuetudini trascinatisi fino in età moderna: a mero titolo di analogia si ricordi che fino al XIX secolo i Collinotti monticavano, da affittuari, anche le malghe dell'alto Wolayertal, oltre lo spartiacque principale carnico e dunque in territorio austriaco.

Sempre con gli occhi(ali) di oggi ci si potrebbe chiedere che pensassero dell'occupazione collinotta della Monte di Collina gli attuali “locali”, ossia i villici di Timau che, sebbene non vicinissimi al territorio in questione, sono pur sempre i più prossimi ad esso, almeno sotto il profilo della mera geografia (e infatti la val di Collina oggi è in comune di Paluzza). Questione in realtà un po' oziosa, soprattutto se proiettata al Medioevo quando, oltre che della terra, il feudatario era spesso “proprietario” anche dei suoi villici. Non in Carnia, a quanto ci è dato sapere, ma tant'è.

Anzitutto, anche se forse un po' semplicisticamente, si potrebbe argomentare che non è neppur certo che al tempo della “presa di possesso” della Monte di Collina da parte dei Collinotti il villaggio di Timau addirittura esistesse come tale, dal momento che l'abitato ebbe origine in diversi e successivi afflussi, generalmente situati fra l'anno 900 e il 1300 e ancora oggi di origine non del tutto chiara: la versione più accreditata vuole promotori dell'insediamento i Conti di Gorizia30, cui fu formalmente riconosciuto il possesso nel 1277. Quindi, se pure fra il XI e il XIII secolo a Timau esiste un villaggio nel senso pieno del termine (ancora agli inizi del XVII secolo nel luogo non v'è più d'una sessantina d'anime) questo è possesso o sotto l'influenza del Conte di Gorizia, che con il Patriarca — il proprietario della val di Collina — è in lite o in aperta belligeranza un giorno sì e l'altro pure, e dunque…

In secondo luogo, avendo come principale attività quella mineraria, o quella di supporto logistico al transito per Monte Croce (manutenzione della strada, stazione di posta ecc.), per un congruo periodo di tempo la comunità di Timau non dovette essere particolarmente interessata all'allevamento del bestiame e ai pascoli in quota.

In terzo luogo… dov'è il problema? Il Patriarca è proprietario della terra, i Collinotti la affittano, i canalotti di san Pietro affidano loro il bestiame in alpeggio. Si chiama divisione del lavoro (e anche rendita fondiaria, certo, ma adesso non andiamo troppo a… fondo!).

Carta canta: proprietà e proprietari
(e anche non-proprietari)

Al di là del puro e semplice merito contrattuale, sia l'ipotesi avanzata sopra (ipotesi, non verità rivelata!) che gli stessi documenti offrono spunti interessanti anche sotto altri aspetti: certamente per ciò che concerne la microstoria e la microtoponomastica locale (in particolare culinòto), ma anche sotto un profilo storico più generale, segnatamente per quanto concerne i beni com(m)unali o beni d'uso civico31, tema ancora oggi di estrema attualità in Carnia e non solo.

Alle origini lontane dell'istituto dei beni d'uso civico si è già fatto cenno qualche pagina indietro. Origini che anche in Friuli e in Carnia si perdono nell'Alto Medioevo, ben prima della cessazione del potere dei conti del Friuli nel 1077 e del contestuale affermarsi del pieno potere feudale del Patriarca di Aquileia. Dopo il 1420, anno della “dedizione” del Friuli, la Serenissima subentra al Patriarca nel dominio temporale (e, con modalità e tempi diversi, nella proprietà dei fondi patriarcali). In epoca di dominio veneto, al tempo dei documenti in questione, da queste parti il rappresentante della Signoria è il Luogotenente della Repubblica per la Patria del Friuli: Angelus Gradenigus pro Ill.mo et A.mo Dux dominio Veneto Patriae Forijulij solum tenens. Proprio a partire dall'età veneta, e soprattutto dal XVII secolo, la proprietà e l'uso/gestione dei beni d'uso civico — fattispecie nella quale verosimilmente ricadeva anche la Monte di Collina32 — saranno oggetto di vicissitudini e contenziosi ancor oggi non del tutto pienamente risolti.

Di ritorno all'epoca e ai fatti di cui ci stiamo occupando, la “gestione” dei beni d'uso civico e della loro titolarità (investitura o revoca del diritto sul bene civico, definizione dei compensi, fitti e livelli e loro modalità di riscossione ecc.) è faccenda di una qualche importanza e certo non priva di forma e solennità. Come risulta anche dai documenti in oggetto, anche la rinunzia al diritto-beneficio non si riduce a una mera dichiarazione dell'avente titolo, o a un semplice atto amministrativo affidato a un qualsivoglia funzionario (ivi compreso lo stesso gastaldo collettore dei fitti): al contrario, la procedura è piuttosto complessa o, quanto meno, è costituita da una sequenza di atti formali e obbligatori di un certo rilievo.

Il primo atto, imprescindibile, è la formale rinuncia al diritto-beneficio da parte del titolare. A sua volta, la rinuncia produce due effetti principali: da un lato l'ormai ex-beneficiario è formalmente sollevato dall'obbligo del pagamento del censo connesso al beneficio stesso; dall'altro viene a cessare lo status di bene d'uso civico del fondo, che in tal modo è restituito alla piena disponibilità del proprietario.

Rientrato nella piena disponibilità del bene, il proprietario o chi per esso può ora cederlo in affitto o alienarlo totalmente.

I tempi cambiano

Nel '400 corrono tempi grami. Prima la peste che in più riprese spopola mezza Carnia, poi le alluvioni che devastano i prati e i pascoli, e chissà che altro ancora: sta di fatto che anche equilibri plurisecolari si spezzano e, fra essi, si sgretola anche l'apparato che per secoli ha tenuto in piedi l'impresa culinòto della Monte di Collina, che viene così abbandonata. Gli ormai ex-imprenditori collinotti formalizzano l'abbandono del beneficio con un atto di rinuncia: atto che è formalmente accettato dal Luogotenente della Repubblica con la registrazione in cancelleria galdastale in data 3 marzo 1448. Causa della resa dei Collinotti è dichiaratamente lo stato di inopia — ovvero mancanza assoluta di mezzi, la Miseria in persona! — in cui la villa di Collina è venuta a trovarsi. Dal testo (ad inopiam devenissent ita quod ipsium montem tenere non possent nec ipsum affictum solvere) non si comprende se, a causa della conclamata miseria, Collina sia anche in mora con i fitti. Viste le condizioni al contorno, tale eventualità non sembra inverosimile33.

Cessato il beneficio e il vincolo sul fondo, intorno all'alpeggio si aprono altri giochi, e non del tutto limpidi. Sul momento è probabile che per la rinuncia dei Collinotti il Gastaldo, compreso (o forse no…) nel suo ruolo di pubblico funzionario, si freghi le mani pensando qualcosa come dopo secoli di “equo canone” questi raccomandati finalmente se ne vanno, e io (nel senso della Signoria che egli rappresenta, oppure di sé stesso) ho mano libera. Pensar male è peccato, ma… Sta di fatto che affittuari per un nuovo contratto stabile non si trovano (o forse non si cercano), e la Monte è affittata quando capita e come capita. Intanto a Udine — per conto di Venezia — si attende. Si attende con impazienza inversamente proporzionale alla sollecitudine del Gastaldo e alla trasparenza degli affari.

Dopo vent'anni-20(!) il procuratore fiscale della Serenissima finalmente sbotta: doctore Erasmo de Erasmis de Utini procuratore phiscalis (sic) dicente affictationem praedictam fieri posset debere pro beneficio Camerae Ill.mae do. nostrae. Il procuratore fiscale dice che si deve poter affittare (stabilmente) quella Monte! E infatti — finalmente! — la si affitta a Ser Matheus quondam Ser Leonardi Bruni de Palucia. A quali condizioni? Praticamente alle stesse condizioni economiche dei Collinotti (dopo vent'anni!), ma infine con contratto ben definito e canone da versare tutti gli anni alla Camera fiscale veneziana. A fronte delle ultradecennali aspettative il fitto sarà forse poca cosa, ma scripta manent, e con gli scripta sono anche e soprattutto garantiti, dopo vent'anni e per ogni anno che verrà, anche gli schei in cassa erariale.

Fra cotanta seriosità, un po' di gossip. Il subentrante ai Collinotti, Matteo Bruno, non è un carneade qualsiasi. Contemporaneo di (e spesso confuso con) Matteo Bruno di Antonio da Tolmezzo, il neo affittuario del Monte di Collina compare anche in altri documenti notarili dell'epoca. Fra questi, nel 1500, l'atto di vendita di un prato o baiarzo: nulla di strano e neppure di curioso, se per accidente compratore del baiarzo non fosse appunto l'altro Matteo Bruno (di Antonio), e venditore il nostro Matteo Bruno (di Leonardo)34. Come che sia, il nostro Matteo è in affari, e non di poco conto.

Di famiglia benestante, locandiere, definito “ricco” nel documento di investitura35, Matteo è proprietario in parte o in tutto anche di malga Pramosio, e quasi certamente è proprietario anche del bestiame che invia al pascolo nelle proprie malghe. Insomma è un imprenditore vero e proprio, e incorpora la Monte di Collina nel suo “sistema aziendale”. Non sappiamo se e quanto a lungo l'impresa funzionerà: sappiamo che in seguito la Monte cambierà ancora proprietario, ma di questo ci occuperemo fra poco, e in tutt'altro contesto.

Abbiamo citato testualmente il “sollecito” del procuratore fiscale veneziano: sempre in ambito di costume, restiamo a un'altra illuminante (anche oggi) citazione dallo stesso documento in occasione dell'investitura di Matteo Bruno: juramento ipsi Matheo, qui tactis scripturis juravit dictam concessionem sibi fuisse factam per dictum gastaldionem simpliciter pro beneficio gastaldiae sine ullo privato praemio seu promissione, dolo vel fraude. Anno 1468 Matteo Bruno giura, mano sopra le Scritture, che il Gastaldo gli dà la concessione a solo beneficio della gastaldia, ovvero nel pubblico interesse, senza alcun promessa o compenso personale, senza dolo e senza frode. Dopo quasi 5 secoli, al solenne giuramento di Matteo è subentrato il Magistrato anticorruzione e l'autocertificazione antimafia…

Giuramenti anticorruzione a parte, il nuovo locatario è prima investito dal Gastaldo, con tanto di paludato cerimoniale (Cum fimbria suae vestis investivit…), “investì con l'orlo della sua veste”), con l'atto del 20 dicembre 1467: quindi, sentito il procuratore fiscale, l'investitura è pienamente confermata nei minimi dettagli — comprese le spese di trasporto… — dallo stesso Luogotenente del Friuli con l'atto del 16 maggio 1468.

Il cambiamento è davvero epocale. Per la Serenissima, ora la Monte di Collina la xe roba che la se pol vender (e la si vendarà!).

Riepilogo e ripetizione ad usum delphini
(che non è il patriarca Delfino)

A dispetto del pomposo cerimoniale con cui è investito, con ogni probabilità il subentrante ai Collinotti è null'altro che il “semplice” affittuario di un bene ormai nella piena disponibilità del proprietario. Tant'è che, come si vedrà, nel volgere di poco più (e forse meno) di un secolo la Signoria veneta cederà la proprietà della Monte di Collina: in una parola, la Monte sarà venduta, ciò che non sarebbe stato possibile qualora la Monte avesse conservato lo status originale di bene d'uso civico che possedeva quando era nella disponibilità dei Collinotti. Fra le peculiari caratteristiche di questi beni infatti vi erano (e vi sono) l'inalienabilità, inusucapibilità, inusurpabilità del bene stesso.

Agli inizi del XVII secolo la Serenissima, nel quadro di un riordino e della catasticazione dei possedimenti in Dominio di Tera, invia anche in Carnia i suoi periti al fine di censire tutti i beni d'uso civico36. Fra gli altri, in Carnia giunge nel 1607 il perito Ercole Peretti, che fra i beni di Tamao37nel Canal di S. Piero riporta una commugna boschiva e pascoliva la quale confina […] a mezodì con la monte di Terzo, et monte di quelli di Tolmezo, a sera con la monte delli Signori Saorgnani, detta Colina et Riù di Colineta38. Ma quest'ultima, quella monte detta Colina che si trova a ponente della comugna di Timau, è la “nostra” Monte! Ora è dei conti Savorgnan, nobile famiglia udinese con abbondanti beni al sole in Friuli e in Carnia, prima fra tutte l'alta val Tagliamento e i Forni per l'appunto detti Savorgnani. È dunque la nobiltà terriera (latifondisti, avremmo detto in tempi più recenti) che in un periodo indeterminato fra il 1468 e la fine del 1500 acquisisce la Monte di Collina, ormai non più gravata da usi civici dopo la rinuncia dei Collinotti e anche sgomberata dal successivo affittuario e suoi eredi. In ogni caso, agli inizi del 1600 la Monte di Collina non solo non è più bene d'uso civico, ma è certamente proprietà dei Savorgnan, e dunque di privati39. E proprietà dei Savorgnan le due Monti sono ancora intorno al 1782, come il puntualissimo Nicolò Grassi provvede a ricordare nelle sue Notizie.

A margine della tormentata storia di questo remoto angolo di Carnia viene così a cadere la suggestiva ma mai documentata ipotesi della vendita, nel '700, dei pascoli di val di Collina da parte dei Collinotti per finanziare la costruzione del coro della chiesa di san Michele. La leggenda, che fa storicamente parte dell'immaginario collettivo dei Culinòts, non ha mai trovato (né in verità cercato…) alcun riscontro storico. A parte beninteso l'esistenza stessa del coro, che dovrà tuttavia cercare altrove gli eventuali donatori.

Melesijs? What are Melesijs?

Mentre i Collinotti sono (o affermano di essere) in miseria nera e intendono liberarsi della omonima e infelicissima Monte, la villa di Collina ha anche il possesso (possessum per illos de Culina) della confinante e più fortunata Montem de Val de Melesejis, toponimo apparentemente oscuro già incontrato ormai pagine addietro e la cui conoscenza rinviammo a tempi migliori. I tempi sono giunti e, per quanto possibile, fiat lux.

In sede di descrizione dei confini si è già stabilito, senza possibilità di equivoco, che la Montem de Val de Meleseijs — che diviene Melesijs nel documento del 1468 — corrisponde all'attuale valle, pascolo e relativa malga di Morareto, a ovest della Monte di Collina (la quartam dei confines indicati nei documenti e riportati sopra). Resta il toponimo, di primo acchito decisamente oscuro e quindi — di qui l'altrimenti irriverente citazione biblica — necessitante di luce: Meleseijs? Melesijs?

Anche senza sfoderare particolare audacia etimologica diciamo pure che Melesijs è il precursore dell'attuale Malìots, toponimo che indica una località che si trova sul crinale che dal m. Gola scende verso Collina e separa le valli del rio Plumbs e del rio Morareto. Meglio ancora si trovano, in quanto nella toponomastica culinòto le località sono invero due: Malìot propriamente detto verso il rio Plumbs, Devóur ju Malìots (“Dietro i Malìots”, al plurale) verso il rio Morareto e decisamente all'interno della valle dello stesso rio.

Toponimi per i quali altrove, e in tempi non sospetti, si è proposta l'etimologia nel friulano melésj (pronunzia di Collina)40, termine il cui plurale è melés ma che nel latinorum tardomedievale dei nostri documenti diviene a sua volta, secondo il gusto dell'estensore, il melesijs o melesejis che ormai ben conosciamo. E dunque, intorno alla Montem de Val de Melesijs, almeno per quel poco che sappiamo e possiamo, lux fuit.

 
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Morarìot-Morareto intorno al 1960. In alto a destra si intravede la omonima forcella, in prossimità della quale è posto il rif. Marinelli (arch. E. Agostinis).

Di ritorno a cose più tangibili e monetizzabili delle nostre elucubrazioni toponomastiche, nella seconda metà del '400 la Villa di Collina ha il possessum (qualsiasi cosa ciò significhi, effettiva proprietà o mera disponibilità del bene) della valle di Morareto. In effetti il significato del termine “possessum” non è qui univoco sotto il profilo del diritto, ma è comunque indice di una potestà sulla valle in questione e relativo alpeggio. Anche per Morareto vi sono pochi dubbi che, proprietà o fruizione che fosse (alla luce degli eventi successivi, probabilmente la prima), si trattasse di bene o beneficio comune e indiviso, di diritto di tutte le famiglie della comunità e, almeno originariamente, non negoziabile.

In epoca successiva, ma non sappiamo con esattezza né quando né come, le cose cambiano. Per le ragioni che già abbiamo citato in precedenza (v. nota 36), maggiore indiziato è il secolo che intercorre fra le guerre di Cipro (1570-73) e di Candia (1645-69) fra Venezia e l'impero ottomano, ivi compresa la onerosissima — soprattutto per i boni Furlani — costruzione della fortezza di Palmanova (1593-1595): insomma, quando si fa più acuta e impellente la necessità della Serenissima di dare ossigeno alle casse dello Stato, ormai boccheggianti e ridotte allo stremo.

Che cosa precisamente accada in quel periodo allo status proprietario di Morareto non ci è dato sapere. Forse il titolo di proprietà è rivendicato dalla Repubblica e messo in vendita. Forse — e più probabilmente — la proprietà rimane della Villa di Collina, ma certamente da comune, indivisa e incedibile che era muta in proprietà privata tout court, ancora frazionata fra i capifamiglia ma in quote di proprietà ormai negoziabili.

Ciò che sappiamo con certezza è che nel 1771 Morareto è proprietà di privati, che la proprietà stessa è divisa in quote, e che fra i proprietari delle quote vi sono anche abitanti di Collina. E il titolo di proprietà ora è certamente negoziabile. E anche negoziato: in quell'anno 1771 Bortolo q.m Nadal Longo oriundo nel Cadore ora domiciliante in questa Villa (…) facendo per sé, ed eredi jure liberis dà, cede, e per sempre vende al Sig.r Leonardo q.m Antonio di Tamer (…) le rate della montagna denominata Moraretto41.

In buona sostanza, Morareto è ormai a tutti gli effetti proprietà “privata”, e tale rimarrà seppure con diversi passaggi di mano. Da ultimo, il definitivo acquisto da parte del Consorzio Privato di Collina nel 192642.

Di nuovo la toponomastica…

Vale qui ricordare e sottolineare ancora una volta che da sempre, e ancora oggi, Culìno Pìçulo e Culìno Grando formano insieme l'unicum di Culìno-Collina. Per intenderci, diversamente da Forni di Sopra e Forni di Sotto, comunità non solo distinte ma anticamente persino in lite per questioni di primazia di pieve. E diversamente da Sauris di Sopra e di Sotto, un solo comune ma due chiese (fra loro i due borghi son ben più distanti che non Culìno Pìçulo e Culìno Grando).

A Collina due borghi, una sola comunità: una sola chiesa, un solo cimitero, una sola latteria, una sola vicinia, un solo meriga, una sola unità amministrativa cui fare riferimento (per secoli e secoli, il Comun di Collina). Non basta? Boschi in comune, pascoli in comune, malghe in comune. Altro ancora? I Collinotti sono (ed essi stessi si dicono) Culinòts e basta, non pìçui e grants. Insomma, due abitati, una sola comunità: Culìno.

Nella già citata catasticazione di Timau del 1607, opera del perito Ercole Peretti, abbiamo incontrato il toponimo Colineta a indicare il rio Collinetta, e quindi la valle da questo formata. Analogamente, in altro documento abbiamo incontrato la denominazione Monte di Collina Grande (v. nota 12). A prima vista, con gli occhi(ali) di oggi, nulla di particolare e men che meno di strano: la val di Collinetta a… Collinetta, e l'altra a Collina Grande. Non è così. Non può essere così. Che gli uni potessero avere la malga Collinetta, e gli altri la malga Collina Grande è semplicemente fuori dalla storia, fuori dai documenti, e in certa misura anche fuori dalla logica43. Ma si sa, talvolta la logica non basta.

Nel 1600, quando incontriamo questi toponimi alpestri, in Carnia non esiste né è mai esistita — non sui documenti né sulle carte topografiche — alcun villaggio chiamato Collinetta: men che meno esiste come corrispondente alla nostra Culino Pìçulo dal momento che, come tale, vedrà la luce solo nel XIX secolo. In ciò tutti i documenti sin qui reperiti sono concordi: quando proprio si vuol precisare che in-quel-luogo-lì gli abitati sono due (e già, perché la denominazione in assoluto più frequente è Colina o Culina senza aggettivi, e tanto basta) per Culìno Pìçulo in italiano/veneto abbiamo avuto Colina Picola, Culina Parva, Colina Minore e persino Collina di Sotto (e analogamente Granda, Magna, Maggiore, di Sopra a indicare Culino Grando), ma mai Culineta o Colineta o Collinetta44. Tutto ciò fino ai primi anni dell'800, ultima annotazione di Colina Picola e Grande nella citata Kriegskarte: nel 1813, nel catasto napoleonico, a indicare i due borghi compaiono per la prima volta Collina e Collinetta (toponimo, quest'ultimo, già orrendo di suo, ma il furlano di ritorno Culinète è pure peggio!). Insomma, il Rio-Valle-Monte di Colineta del '600 non può, proprio non può originarsi in riferimento alla oggi — ma non allora! — omonima villa.

E dunque, al contrario della Monte di Collina, la cui etimologia è antica e, soprattutto, direttamente in capo alla colonizzazione/uso/diritto degli homines villae Culinae (Culìno, l'unicum di cui sopra), si può pensare che le denominazioni Monte di Collinetta e di Collina Grande abbiano origine diversa dalla Monte di Collina, e forse da questa derivata. Detto altrimenti, il diminutivo Collinetta e l'aggettivo Grande sono in riferimento rispettivamente alla valle e alla monte — più piccola la prima (e forse dépendance di val di Collina), più vasta la seconda — e non ai villaggi, dal momento che, come abbiamo visto, in giro per la Carnia non c'è nessuna Collinetta, e dovranno passare secoli e secoli prima che la Culìno Pìçulo dei locali o la Colina Picola della Serenissima e degli Asburgo (1804) sia chiamata così.

Detto ciò, resta da stabilire se non vi sia piuttosto una relazione diretta di causalità al contrario — e, se del caso, risalente a quando e a opera di chi — fra il seicentesco Colineta e l'ottocentesco, odierno e definitivo “Collinetta” per Colina Picola. Ovvero, è possibile che l'italiano Collinetta rifilato nell'800 al borgo di Culìno Pìçulo derivi dal nome del rio-valle-pascolo che porta quel nome almeno 200 anni prima del villaggio?

La risposta è naturalmente affermativa: sì, è possibile e pure probabile. Allo scopo, è sufficiente un procedimento à l'envers (che non è un friulanismo). E chi il “riformatore”, chi il reo a futura memoria?

Parlano i documenti: l'infelice parto è da collocarsi fra la pace di Presburgo, che consegnò il Friuli alla Francia (1805), e la stesura del catasto napoleonico per le terre di quassù (1813). Stabilito il “quando” — e conseguentemente anche una parvenza di… pourquoi, e manco questo è un friulanismo — del “chi” inteso come persona fisica ci interessa assai poco. Anzi nulla: vondo cussì! (e questo sì che, infine, è culinòt per l'italico “basta così”!).

Signori, si chiude

E non solo il cerchio delle nostre ampie e ormai lunghe divagazioni.

 
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Casera Chiampei. Costruita da privati intorno al 1870, la malga era ancora attiva negli anni '50 del secolo scorso (foto e arch. E. Agostinis).

Abbiamo volato alto, a 2000 metri e al Medioevo, al latinorum e all'aria sottile nella quale abbiamo avanzato (e speriamo non campato…) alcune ipotesi. Abbiamo divagato in lungo e in largo, forse anche troppo, spesso perdendo il filo del discorso o almeno facendolo perdere al lettore. È venuto il momento di scendere terra terra, al tempo nostro, e sporcarsi un po' le mani (anche se, a quanto pare, non di stallatico…).

Negli ultimi anni, le infrastrutture zootecniche in quota (leggasi: monts, malghe) in Carnia sono state prima in gran parte abbandonate, e poi (alcune di esse) oggetto di numerosi e considerevoli investimenti di denaro, in buona parte pubblico, volti soprattutto alla conservazione, adeguamento normativo e messa in sicurezza degli edifici. Dibant o quasi, verrebbe da dire, e per rendersene conto basta una rapida occhiata, un'escursione di poche ore.

Beninteso non è il deserto, o solo ruderi. Anche ruderi, certo45, ma grazie agli investimenti di cui sopra molte strutture (malghe pubbliche e private, e relative pertinenze) e infrastrutture (strade, acquedotti, generatori d'energia) in Carnia sono in condizioni eccellenti, oggetto di continua manutenzione e dunque in grado di assolvere ai propri scopi: ergo, ospitare bovini, o almeno quadrupedi. Eppure le vacche si vedono poco o non si vedono punto. In val di Collina, un po' sì e un po' no (più il secondo del primo). In territorio di Collina, a Plumbs pascola regolarmente una discreta quantità di bovini non lattiferi, ma a Morareto — nonostante la malga sia regolarmente concessa in locazione, e dove dovrebbe pure essere in funzione un agriturismo (che si presume, inalberando la scritta “vendita prodotti di malga”, con un poco di agri-qualcosa) — il bestiame è da qualche anno come il bollettino della neve di certe stazioni sciistiche: non pervenuto46.

Viste da lontano, meglio se dall'alto, le casere in questa sorta di limbo sembrano malghe da presepe. Ma viste da vicino queste malghe — tutte quelle in questo stato-non stato operativo: potrei-ma-non-voglio, vorrei-ma-non-posso, non-posso-e-non-voglio — si rivelano per quel che sono, e non è un bel vedere: sembrano balocchi in attesa di un bambino che non verrà mai, presepi-fantasma vuoti e senza manco le vacche di gesso intorno, senza le figure di pecore e pastori, di animali e uomini di circostanza a validare una altrimenti inverosimile scenografia. Manco quei simulacri di vita ci sono per le nostre malghe da presepe di cartapesta o, dio non voglia, malghe di carta nel senso più deteriore del termine, funzionali a “pascoli” di ben altra natura che quelli dei bovini.

Non che ci si aspettino malghe monticate con migliaia di capi, e men che meno l'arcadia del tempo che fu, magari con l'aggiunta della pastorella in versione 2.0: non saremo noi a scoprire — ma non sempre a giustificare, né ad accettare supinamente — lo spopolamento della montagna e l'abbandono di pressoché ogni forma di attività agro-pastorale, compreso il pollaio e l'orto di casa. Nessuna sorpresa, e non indulgiamo neppure al frusto (e dimostratamente falso) “si stava meglio una volta”, così come non ci abbandoniamo ai troppo facili giudizi di valore, buono/cattivo. Nulla di tutto questo, ma un po' d'amaro in bocca rimane comunque, e non solo per tanto denaro — a maggior ragione se pubblico — impiegato dibant (avverbio che sta diventando un po' troppo rappresentativo della Carnia d'oggidì: e per favore dimostrateci il contrario).

Marum comprensibile, verrebbe da dire. Dopo aver così a lungo (di)vagato di valle in villa e attraverso i secoli, dopo aver discettato di monts e malghe e casere a decine, e pure di affitti misurati a quintali di formadi, vedere oggi non già i ruderi del tempo che fu e mai più ritornerà, ma piuttosto le malghe ammodernate e manutenute, e dunque in condizioni operative, vederle dunque semivuote o deserte del tutto e, nello stesso tempo, sulla tavola degli autoctoni occhieggiare coloratissime porzioni di formaggio fuso di incerta provenienza (certo non formadi di mont!) e di ancor più oscura fattura e composizione (ancorché provvisti, a norma di legge, della scritta “crosta non edibile”), che dire?

 
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Valle e casera Morareto secolo XXI (foto e arch. E. Agostinis).

Dico che rivoglio formadi di mont e crosta mangereccia, e che il pur coloratissimo prodotto che lo surroga senza sostituirlo proprio… proprio…

Proprio non-mi-va-giù!

 

 

All'unico, devoto e soprattutto paziente lettore che ci ha accompagnato sin qui, un affettuoso saluto e un caloroso ringraziamento.

Perdonàinus, compatînus, se contâ no vin savût

Mandi, grazie e scusait. E buinonot.

 

 

I documenti

La traduzione/trascrizione dei documenti rispetta, per quanto possibile e a prezzo di qualche difficoltà di lettura, gli originali. Qualche intervento si è reso necessario solo là dove la sintassi del latino tardomedievale (1500 anni dopo Cicerone…) e la pomposa verbosità della forma contrattuale rendono il testo praticamente incomprensibile. Talvolta si è reso necessario reinserire il soggetto del periodo o altri elementi sintattici funzionali alla lettura, termini che sono segnalati dalle parentesi [].

Documento 1 (1467)
20 dicembre 1467 in Tolmezzo, nella stua dell'abitazione del Nobile Gastaldo Ser Ludovico di Colloredo, presente il nobile Ser Francesco fu Ser Tommaso di Bampergo

 

Dall'antichità la Comunità e gli uomini della Villa
di Collina in Carnia ebbero in concessione
dalla Chiesa d'Aquileia un monte denominato Monte
di Collina, per il quale annualmente essi pagavano
a detta Chiesa d'Aquileia o al Gastaldo
di Carnia 333 libbre e 4 once di formaggio,
e 13 denari per il trasporto di detto formaggio,
come risulta dai libri contabili dello stresso Gastaldo.
Accadde che gli uomini di detta villa si trovassero
in condizioni di estrema povertà, in modo tale
da non essere in grado di tenere il monte né
di pagarne l'affitto, e dichiarassero di rimettere
al Gastaldo la stessa Villa e i suoi mansi piuttosto
che tenere il Monte di Collina e pagarne l'affitto.
Accadde dunque che gli uomini di Collina
rinunciassero al Monte nelle mani del Gastaldo,
il quale tuttavia con grande difficoltà riuscisse ad
affittare il Monte ora all'uno e ora all'altro affittuario.
Volendo il presente Gastaldo Ser Ludovico di Colloredo
reintegrare le entrate della gastaldia, emise un bando
pubblico per l'assegnazione del Monte contro
pagamento dell'affitto consueto, al quale bando non si
presentò alcuno salvo Ser Matteo fu Ser Leonardo Bruni
da Paluzza, il quale si fece carico dei fitti e degli altri oneri,
rilevando tuttavia che la casera era da tempo in disuso
e in cattive condizioni.
Ciò premesso, il Gastaldo Ser Ludovico investì
formalmente Ser Matteo Bruni affittuario perpetuo
della Chiesa di Aquilea per il citato Monte di Collina in Carnia.
Il quale Monte confina: primo [est] con la strada di
Monte Croce Carnico;
secondo [nord] con la Cripta, o prati di Stali;
terzo [sud] con la malga Chiaula Tumicina;
quarto [ovest] con la malga Val de Meleseiis,
possesso degli uomini di Collina.
Per l'affitto Ser Matteo pagherà annualmente
al Gastaldo di Carnia, nel giorno di san Michele
di settembre, 335 libbre di formaggio e 13 denari
per il trasporto dello stesso, come già d'uso fin dai tempi antichi.

 

Rogitato da Gio. Francesco fu Daniele Ermacora
Notaio in Tolmezzo
Documento 2 (1468)
16 Maggio 1468. Noi Angelo Gradenigo in nome dell'Illustrissimo e Amatissimo Signore
unico depositario del dominio Veneto della Patria del Friuli.

 

Udita la supplica del nostro fedele Matteo fu Leonardo Bruno
di Paluzza della Carnia, il quale umilmente chiede per sé e per i propri eredi
di confermare la locazione, a lui concessa tramite il nobile Ser
Ludovico di Colloredo gastaldo della Carnia in forma di diritto
perpetuo, di un certo monte denominato Monte di
Collina sito in Carnia, i cui limiti si dicono essere:
a prima [est] fino alla strada di Monte Croce, a
seconda [nord] fino alla Cripta o sia i prati di Stali, a terza
[sud] fino a Chiaula Tumicina, a quarta [ovest] fino alla monte
di Val de Melesijs, possesso di quelli di Collina
salvo che non vi siano migliori e più antichi confini,
con tutti i diritti e attribuzioni
pertinenti e spettanti allo stesso monte.
[Matteo Bruni pagherà] annualmente
al Gastaldo di Carnia, in settembre alla festa di san Michele,
335 libbre di formaggio; per il trasporto,
ossia il carico di detto formaggio, 13 denari come
era d'uso anticamente pagare per esso, e inoltre
saldare anche ciò che era solito saldare
il Decano di Gorto, così come sosteneva essere evidente il documento
manoscritto di investitura di Daniele Ermacora
fu Ser Giovanni di Socchieve, pubblico notaio
della città di Tolmezzo, il giorno 20 Dic. 1467 Indizione XV,
che è stato qui presentato nella sua ufficiale e presente
forma. Il suddetto documento fra l'altro
afferma come la Comunità e gli uomini
di Collina di Carnia avessero ottenuto e tenessero
la suddetta monte di Collina dalla Chiesa Aquileiese
pagando al Gastaldo di Carnia per detta monte
annualmente 333 libbre e 4 once di formaggio, e per il trasporto
del formaggio stesso 13 denari, come risulta dai libri e quaderni
della stessa gastaldia. E quando gli uomini
della villa si trovarono in miseria, di modo che
non poterono né tenere la monte né
pagare il fitto, decisero che o avrebbero
fatto a meno di pagare il fitto, o avrebbero
abbandonato la villa e i mansi. Perciò
fu accettata la loro rinunzia,
e a minor danno la suddetta monte
fu affittata ad arbitrio del Gastaldo
di Carnia, il quale con grande difficoltà
affittò meglio che poté la
monte ora all'uno e ora all'altro. Ora invece,
volendo il suddetto Ser Ludovico Gastaldo
di Carnia provvedere alla sicurezza delle entrate
della Gastaldia, [egli] ha ricercato
e pubblicamente proclamato che, qualora alcuno volesse
accettare l'affitto della monte alle antiche condizioni,
[costui] dovesse comparire davanti a egli stesso.
Non comparendo nessuno, allo scopo di evitare il danno irreparabile
della stessa monte, la cui casera era crollata e diroccata
e che senza sosta inselvatichisce e volge in bosco,
e poco a poco scompare, egli stesso
[la] concesse al predetto Matteo di Paluzza
e constatò la rinuncia dei rappresentanti e
degli uomini della villa di Collina al monte
succitato, accettata dal Magnifico signor Andrea Bernardini
funzionario del Luogotenente della Patria del Friuli il giorno 3 Mar 1448
Indizione XI. e registrata negli atti della cancelleria allo scopo
di sollevare i detti uomini
dall'onere del pagamento. E udito Ser Francesco di Colloredo
Gastaldo di Carnia riferire che, dopo aver accettato
la rinuncia degli uomini della villa di Collina
alla Monte, incontrò difficoltà nell'affitto,
e che la monte era in via di deterioramento; e analogamente
sentito lo Spettabile dottore Erasmo de Erasmis,
procuratore fiscale di Udine, affermare che la Monte
debba essere affittata a beneficio
della Camerae della nostra Illustrissima Dominante,
[la Monte è concessa a Matteo Bruni]
poiché lo stesso Matteo è uomo facoltoso
e paga i suoi affitti senza problemi
e terrà la monte e la casera sempre in buono stato.
E visti i nostri libri precedenti tanto antichi che recenti
che sono pieni di conferme in tal senso
ribadiamo il precedente giuramento dello stesso Matteo, il quale
toccate le Scritture giurò che detta concessione
a lui stesso era fatta da parte del suddetto gastaldo
semplicemente a beneficio della gastaldia,
senza alcun premio privato ossia promessa
dolosa o fraudolenta, volendo [con l'affitto] provvedere
un'indennità alla Camera predetta e un beneficio
allo stesso affittuario. Seguendo la consuetudine osservata in simili circostanze,
in nome della nostra Illustrissima Dominante e per i nostri
successori approviamo e confermiamo la citata locazione ossia
investitura dello stesso Matteo ricevente, per sé
e per i suoi eredi. La affidiamo [affinché]
grazie al Gastaldo di Carnia [la Monte di Collina] sia
inviolabilmente preservata tanto nel presente che in futuro
fatti sempre salvi i diritti della Nostra Illustrissima Dominante
e di qualsiasi altra persona. In fede
ordiniamo che il presente [atto] sia trascritto e munito del nostro
sigillo maggiore di san Marco, e che il signor Jacobo nostro vicario
[consegnai] copia di sua mano ai presenti
esimi dottori signori Erasmo de Erasmis e Antonio Toluzzi di Udine e
Ser Biagio Guartari figlio del diligente Marescalco della patria

 

in sala delle udienze
del Castello di Udine
Giorno 16 Maggio 1468, Indizione I

 

copia fedele di Cortesino de Barbaro coadiutore
dalla Cancelleria di Udine

Note


  1. Se ne tratterà a fondo più oltre, ma è d'obbligo precisare sin d'ora che storicamente e nei fatti, al di là di ogni (ir)ragionevole dubbio, “Collina” è l'insieme delle attuali Collina e Collinetta, e in questa accezione sarà sempre qui utilizzato. Repetita… 

  2. Nota per i non friulanofoni. Il genere femminile (e relativo articolo determinativo) del titolo non è frutto di sgrammaticatura ma è invece d'obbligo, in quanto il mons latino del testo si volge nel friulano la mont, termine con cui è definito l'alpeggio con tutte le pertinenze: pascolo, casera, ricoveri per gli animali ecc. Sempre per quei quattro lettori che hanno poca o punta familiarità con la lingua furlana, la mont sta per alpeggio ma anche “monte” o “montagna”, mentre al maschile il mont (a Collina lu mont) sta per “mondo”. Qui di seguito per l'alpeggio sarà sempre usata, con la sola eccezione delle citazioni documentali, la grafia italianizzata “Monte di Collina” in luogo degli antichi e latineggianti Colina, Culina ecc. 

  3. V. in allegato la traduzione (non… certificata) delle trascrizioni dagli originali di mano di Alessandro Wolf in Fondo principale manoscritti, vol. II - Documenti carnici 1451-1883 della Biblioteca civica V. Joppi - Udine. 

  4. Quando si dice la precisione. Perché mai un numero apparentemente bizzarro come 333 libbre e spiccioli, e non invece 30 o 32 forme (il peso medio per forma è 10-12 libbre, circa 5-6 kg)? Perché si sa che contadini e pastori sono furbi, ma i burocrati lo sono ancor di più, e con l'affitto a peso rendono inutile il trucco di ridurre volume (e peso) delle forme. Così invece, e c'è da giurarci, gastaldo e patriarca avranno sempre 333 libbre di formaggio freschissimo… 

  5. V. l'interessante saggio di Mirta Faleschini in Tischlbongara Piachlan — Quaderni di cultura Timavese, n. 4 Dic. 2000, pp. 63-75, in particolare la cartina a p. 72. V. anche l'imponente lavoro di Rupert Gietl, Die Römer auf den Pässen der Ostalpen, (mappa degli itinerari della strada di Monte Croce, a p. 118 della stessa rivista). 

  6. Stàli=stavolo, costruzione in muratura […] di cui il superiore serve da fienile e l'inferiore è ripartito fra stalla e l'abitazione […] (Il Nuovo Pirona, p. 1108). L'origine del toponimo friulano è certamente da individuarsi nei migranti carnici che numerosissimi transitavano quasi obbligatoriamente di qui nel loro lungo viaggio verso il nord Europa. Anche di questo si tratterà diffusamente più avanti. 

  7. Giovanni Marinelli, Guida della Carnia, Società Alpina Friulana ed., Tip. Ricci, Firenze 1898 (Ia ed.). 

  8. Il tema è approfondito da Mauro Unfer in Griasmar in oltn goot - Avòditi al Crist di Tamau, in Tischlbongara Piachlan — Quaderni di cultura Timavese, n. 5 Dic. 2001, pp. 41-48. Per la cappella di santa Elisabetta v. anche Giulio Del Bon, Paluzza e la sua Chiesa, vol. I dalle origini alla fine del '500, Comune di Paluzza 2002, mentre la località di Stalis con la figura della chiesa è riportata nella carta di Marco Sebastiano Giampiccoli in Notizie istoriche e geografiche appartenenti alla provincia della Carnia con la carta topografica della medesima, Belluno 1787. Curiosità: dal cartiglio della mappa, in alto a destra sbucano due tele arrotolate con la scritta “Tellarie Linucio” (forma mezzo foresta per “Telerie Linussio”). E poi ci raccontano che gli sponsor li hanno inventati gli americani… 

  9. Chiaula Tumicina è quindi lontana da Tolmezzo persino più di quanto non sia la Monte di Collina da Collina stessa. 

  10. Nelle sue Notizie storiche della Provincia della Carnia, nel 1782 Nicolò Grassi scrive: Il Villaggio di Timau non è che un miglio distante dal monte di Croce, e tre miglia dai confini della Carintia. Distanze da non prendere alla lettera (anzi!), ma anche questa annotazione suona conferma degli antichi confini posti oltre il valico di Monte Croce. In ogni caso, fino al passaggio di Napoleone il Friuli e la Carnia — e anche la stessa Carinzia — furono caratterizzati da una “geografia proprietaria” a macchia di leopardo, con possessi, benefici, domini e diritti vari di origine feudale sparsi per castelli, borghi, conventi e altro, i cui titolari di diritto avevano sede anche assai lontano dal territorio, da Bressanone a Verona, da Gorizia al Tirolo e quant'altro. 

  11. Consiglio Nazionale delle Ricerche, Istituto di Studi Giuridici Internazionali, Prassi Italiana di diritto internazionale, ASE, P 1919-30, 821. 

  12. Sappiamo che […] nel 1665 i peccorari su Monte di Collina Grande, e sul confinante Monte di Chiaula Tolmezzina […], cit. di altro documento in Giorgio Ferigo, Da estate a estate, Gli immigrati nei villaggi degli emigranti, in Cramârs, a cura di G. Ferigo e A. Fornasin, Arti Grafiche Friulane, Udine 1997; ma nel 1665 siamo a 200 anni dai fatti da noi richiamati, e comunque ciò non è in sé sufficiente a dirimere la questione. 

  13. Il territorio del Comune di Collina ieri, e della frazione oggi, è interamente compreso nel bacino del rio Morareto-Fulìn (il rio Morareto prende il nome di rio Fulìn a valle della confluenza in riva destra del riù di Cuéstos o — assai impropriamente — rio Collinetta): in riva destra l'alto bacino, fino alla confluenza del Riù d'Ormentos-Rio Armentis; in riva sinistra l'intero bacino — a eccezione di modeste correzioni amministrative nell'alto bacino del rio Plumbs — fino alla confluenza del Fulìn stesso nel Degano. 

  14. Che qualche pastore o cacciatore vi si spingesse è più che probabile, ma ciò non ne faceva una frequentata via di transito. Prima dell'apertura del ricovero Marinelli anche l'antico, annuale pellegrinaggio dei Collinotti al Cristo di Timau (lu Perdon da Temau) percorreva la via di Plumbs. 

  15. I cramârs (in collinotto cremârs, i commercianti ambulanti carnici che fino agli inizi del XX secolo si spostavano stagionalmente in tutta l'Europa centro-orientale) sono stati oggetto di ampi e approfonditi studi — fra i quali quelli citati alla nota 12 — ai quali si rimanda per gli opportuni approfondimenti. 

  16. Anton von Zach, in Topographisch-geometrische Kriegskarte von dem Herzogthume Venedig, 1798-1805, Sezione XV 5-Forni Avoltri, Archivsignatur B VII a 144, Kriegsarchiv Vienna; ed. italiana a cura di Massimo Rossi, Fondazione Benetton Studi Ricerche — Grafiche V. Bernardi, Treviso 2005. 

  17. È detto de Scjalòto (a Collina) o “Scaletta” il passaggio, oggi attrezzato con gradini, corrimano e funi metalliche (sentiero CAI 146), che consente a chi proviene da forcella Morareto ed è diretto a Monte Croce la risalita diretta della quinta rocciosa che delimita a sud la val di Collinetta, quindi l'accesso alla valle stessa e per essa la discesa al valico. Secondo Marinelli il toponimo si deve alla scaletta che fu collocata in loco nel 1902 (v. nota seguente), ma mi sembra interpretazione costruita ad hoc per un toponimo preesistente e che forse indicava altro, o di più che non il solo passaggio. Scjalòto è termine collinotto che, con l'aggiunta della preposizione articolata de (sta per “alla” o “presso la”), diviene toponimo: altrove la pronunzia è Scialòta o Scjalòte, ma l'origine è quasi certamente collinotta dal momento che scjalòt (la o finale muta solo il genere) è “gradino” nella parlata di Collina, ma il termine manca nel Pirona (così come vi manca scjalote, mentre vi si trovano scjalète e scjalòne), ed è quindi da considerarsi endemismo di Collina e dintorni. È quanto meno verosimile che con Scjalòto pastori e cramârs definissero in parte o in tutto il costone roccioso che a mo' di zoccolo sorregge e nasconde la val di Collinetta e che, chiudendo a nord il vallone Monumenz, ha appunto l'aspetto di un enorme gradino. Quanto al mutamento di genere, scjalòtscjalòto, è tutt'altro che infrequente in toponomastica (e non solo): senza andare lontano, si pensi ad es. a crét=roccia e crèto=croda (che è fatta di crét…), clap (sasso) e clapo (masso erratico, grande pietra appiattita, insomma un clap particolare…), ecc. 

  18. La prima edizione della Guida della Carnia di Giovanni Marinelli (1898) non fa menzione di alcun percorso attraverso la Scjalòto, il quale fa invece la sua comparsa nella seconda versione della Guida stessa (1906, p. 204, 224, 339), quando il ricovero Marinelli è già costruito ed è il punto di appoggio privilegiato per escursioni e salite nella zona. Le prime menzioni note della Scaletta risalgono al 1902, quando è collocata la scala per superare il passaggio più difficile (In Alto-Cronache della S.A.F., Anno XIII-1902, pp. 33, 43). Analoga sorte tocca alla forcella Morareto. Prima della costruzione del ricovero la forcella Moreret (sic) è considerata dagli alpinisti al pari della forcella Monumenz, ossia una via escursionistica fra Timau e Collina alternativa alla più breve via di Plumbs; per la salita al Coglians è invece suggerita solo la forcella Monumenz. Entrambe le vie sono su “buon sentiero” fino a casera Monumenz, e poi per erbe e sfasciumi o rocce “non difficili”. 

  19. La notissima guida alpina di Collina Pietro Samassa vi perse un fratello, travolto da una valanga il 21 dicembre 1893. Solo sette mesi più tardi, nel luglio dell'anno seguente, Pietro riuscì a ritrovarne il corpo. 

  20. Se ne è già trattato altrove (Sot la Nape, Rivista della SFF, n. 2 2015), e il richiamo in questa sede sa di autocitazione gratuita: la citazione è forse capziosa, dal momento che introduce una nota toponomastica da tempo piazzata sul piloro del vostro scrivano-scrivente, ma non gratuita. Alla base del toponimo ormai ufficiale “vallone del Ploto”, decisamente fuori luogo (sic), v'è il doppio errore dei cartografi, o forse dello stesso Marinelli. Anzitutto del Plòto, al maschile, mentre il termine culinòt è notoriamente(!) femminile: nella parlata dell'Alto Gorto, la plòto (in friulano centrale plòte, ma per denominare il vallone i cartografi hanno evidentemente utilizzato il termine culinòt) significa “lastra”: tipicamente, la plòto dal spolèrt, la piastra della cucina economica. In secondo luogo, localmente il toponimo Plòto — e qui la toponomastica ufficiale, “Plotta”, è invece coerente con il genere, e pure con il luogo — identifica il pianoro (e già!) immediatamente sottostante a est il rifugio Marinelli, compreso fra un contrafforte secondario della Creta Monumenz e la dorsale m. Chiadin-m. Florìz. Il pianoro è caratterizzato dalla presenza di un microscopico laghetto (in realtà poco più di una pozza) a levante del quale si innalza, per alcune decine di metri, una verde cimetta tondeggiante detta cima Plotta (“M.te Piato” nella Kriegskarte). Al contrario, il vallone del Ploto dei cartografi morfologicamente non è altro che la prosecuzione verso l'alto — a rocce e ghiaie, e tutt'altro che plòto-pianeggiante! — del Cjadinón, il vallone prativo a sua volta compreso fra i dirupi scistosi del Pic Chiadìn a levante e le articolate propaggini calcaree del Coston di Stella a ponente. Verso il basso, attraverso un breve salto roccioso il vallone del Cjadinón sbocca nel Cjadìn per proseguire, ormai nei pascoli di Morareto, nel Cjampēi di Clàpos

  21. Queste e altre preziose informazioni sull'allevamento, soprattutto dei bovini, sono riprese da AA.VV., L'uomo domini sul bestiame - Dalla pastorizia alla zootecnia, ERSA, Gorizia 2010. 

  22. Quasi certamente non la guerra: al tempo della ipotizzata colonizzazione del luogo (XI-XIII secolo) gli Ungari sono già passati, e i Turchi sono ancora di là da venire. E, a differenza del Friuli pedemontano, l'alta Carnia ne è stata e ne sarà solo sfiorata. 

  23. Con la sola eccezione di Gerardo di Premariacco (1122-1129). Secondo altri autori (v. nota 30), promotori di tutti gli insediamenti germanofoni in Carnia (Sappada, Sauris e Timau) furono invece i Conti di Gorizia. 

  24. Proprio ai massari di Collina il patriarca Marquardo di Randeck condona, nel 1368, la terza parte di tutte le decime (Pio Paschini, Storia della Carnia, Stab. Tipografico “Carnia”, Tolmezzo 1927). 

  25. Oltre al concetto generale di dominio comunemente inteso, nel prosieguo si utilizzeranno anche le locuzioni di dominio diretto, ovvero il diritto di proprietà su di un bene, generalmente fondiario, soggetto tuttavia ad alcune limitazioni, e di dominio utile, ovvero il beneficio del diritto d'uso secondo diverse formule e modalità. 

  26. Analoga origine ebbero molti altri insediamenti nell'arco alpino, e non solo: nelle Alpi si pensi alla Pusteria e convalli a oriente, e ai Walser a occidente; in pianura, proprio nella Bassa friulana intorno all'anno 1000 abbiamo l'esempio della ricolonizzazione slava, a seguito dello spopolamento prodotto dalle invasioni ungare (ipotesi alla quale tuttavia si affiancano altre). In questo sistema di concessioni feudali è ravvisabile l'origine dell'istituto dei beni com(m)unali di cui, anche a proposito di Collina, si tratterà più avanti. 

  27. La valle del Fulìn è sede anche di altri villaggi (Frassenetto e Sigilletto), e l'argomento della colonizzazione dell'intera valle del rio Fulìn e della genesi dei diversi villaggi non è ancora stato affrontato. Alcuni elementi fanno ipotizzare origini differenti quanto a tempi e modalità: fra questi elementi diversificanti sono le vie d'accesso, in tempi antichi — e, almeno in parte, fino agli albori del '900 — distinte per ogni villaggio. 

  28. La prima menzione scritta di Culina (Parva), relativa (ovviamente?) a questioni di decime, è del 1274. Tuttavia, induttivamente è quasi certo che l'insediamento sia anteriore — forse anche di molto — a questa menzione. 

  29. Dell'origine germanica dei patriarchi d'Aquileia fino al XIII secolo si è già detto in precedenza. L'ipotesi circa la dedicazione di san Michele è autorevolmente suggerita anche da Desinan, il quale rileva anche come l'intitolazione di san Michele di Collina sia un caso relativamente isolato in Carnia (in San Michele Arcangelo nella toponomastica Friulana, Società Filologica Friulana 1993, p. 101). Che poi i patriarchi potessero essere tedeschi e invece, a differenza di Sauris e Sappada, i coloni di Collina di schiatta evidentemente carnica non rappresenta certo una contraddizione insormontabile. Il feudatario cercò la manodopera (ovviamente) dove disponibile e (ragionevolmente) vicino ai territori da colonizzare: i futuri Collinotti li trovò in Carnia. 

  30. Ernst Steinicke, Tischlbong - Timau: quale futuro?, in Tischlbongara Piachlan — Quaderni di cultura Timavese, n. 2 Dic. 1998, p. 10. Vi si sostiene la teoria (peraltro controversa) della medesima origine anche per Sappada e Sauris. 

  31. Al proposito si veda l'imprescindibile saggio di Stefano Barbacetto *Tanto del ricco quanto del povero. Proprietà collettive ed usi civici in Carnia tra Antico Regime ed età contemporanea, Coordinamento Circoli Culturali della Carnia, Cercivento 2000. Con l'esclusione delle citazioni documentali, in luogo di beni com(m)unali nel prosieguo si utilizzerà la dizione, certo meno rigorosa sotto il profilo tecnico-giuridico, ma anche meno ostica al lettore, di beni d'uso civico

  32. Appare in tutta evidenza la natura della Mons de Colina (almeno fino alla rinuncia del 1448) di bene d'uso civico, su cui da tempo immemorabile titolari del diritto d'uso sono Communitas et homines villae de Collina Carneae, probabilmente in enfiteusi perpetua. 

  33. Ovviamente, la mancata ottemperanza agli obblighi contrattuali poteva comportare la decadenza dal beneficio. La durata del possesso e il riferimento alle pessime condizioni della malga (dirupa et collapsa, diroccata e crollata) lascia intendere che i Collinotti fossero appunto enfiteuti della Monte di Collina, e non già semplici affittuari. Oltre al pagamento del censo, a carico del beneficiario l'enfiteusi comporta anche il miglioramento del fondo, rispetto al quale i Collinotti risultavano evidentemente inadempienti. In buona sostanza, leggendo fra le righe par di comprendere che prima della rinuncia formale dei Collinotti il beneficio fosse stato loro mantenuto solo in virtù della mancanza di altri soggetti interessati al fondo. 

  34. Sono i casi delle omonimie, vera disperazione dei topi d'archivio appassionati di microstoria locale (e ne sappiamo qualcosa anche a Collina, con gli infanti sistematicamente battezzati con i nomi dei padri, avi, zii, e fratelli morti. E così in anagrafe abbiamo Tamussin Giuseppe di Giuseppe, coevo di altro Tamussin Giuseppe di Giuseppe il quale battezza un figlio — ovviamente — Giuseppe). Ma sui “Mattei Bruni” c'è ancora dell'altro. Anzitutto il Matteo altro (non quello della Monte di Collina), a sua volta ricco latifondista, fra le altre è proprietario anche della malga Veranis in territorio di Forni Avoltri, ma è anche avo di un ulteriore e assai più noto Matteo Bruno (e il codice fiscale è ancora di là da venire!). Codesto ultimo Matteo è più famoso — o forse famigerato — dei più anziani omonimi e parenti in quanto noto eretico e per di più uomo violento assai, e per ciò nel 1537 bandito dalla città di Tolmezzo (in Giorgio Ferigo, Morbida Facta pecus… Aspirazioni e tentativi di riforma nella Carnia del Cinquecento, Almanacco Culturale della Carnia, IV - 1988). Insomma dei Bruni abbiamo il Matteo nostro, l'altro e lo sbagliato. Sembrano aperitivi… 

  35. Dives” nel documento del 1468. 

  36. Non si trattava — ovviamente — di una pur benemerita volontà, da parte della Signoria, di fare chiarezza e finalmente mettere ordine nei possedimenti in terraferma, sui quali la dominazione veneta datava ormai da quasi due secoli. Si trattava soprattutto di ribadire la potestà e il dominio di Venezia sui beni d'uso civico, il tutto finalizzato a una potenziale alienazione degli stessi terreni allo scopo di rimpinguare le serenissime ma ormai esauste casse dello Stato. 

  37. Timau. 

  38. Relazione Peretti 4 novembre 1607 (Timau), Archivio di Stato di Venezia, Provveditori sopra beni comunali, r. 258, c. 251. Il monte di quelli di Tolmezo è la malga Chiaula Tumicina, già incontrata nei confini della Monte di Collina. 

  39. Il caso(?) vuole che una prima occhiata della nobile famiglia friulana alle future proprietà delle Monti di Collina e Collinetta sia data già nel 1487, quando un giovanissimo Girolamo Savorgnan è presente a Monte Croce per fortificare il passo contro la minaccia dei Turchi. 

  40. Melésj=sorbo degli uccellatori (Sorbus aucuparia), cui nel toponimo si aggiunge il consueto e caratteristico collettivo dei fitotoponimi in -ìot, mentre mel volge in →mal (E. Agostinis, I luoghi e la memoria - Toponomastica ragionata e non della Villa di Collina, Territorio della Carnia, 2007, p. 98). Insomma, il mirtilleto (tale è il significato di Morarìot-Morareto) di oggi è, in parte o in tutto, la valle dei sorbi (val di Melés, in grafia e pronunzia odierna) di ieri. È anzi probabile che il mirtillo vi si sia gradualmente diffuso in seguito all'esbosco — anche dei sorbi — per ampliare il pascolo. 

  41. 1771 - 6 giugno, vend.a fatta da d.no Bortolo Longo al S.r Leonardo q.m Antonio di Tamer, Arch. priv., Collina. Le rate sono le quote di proprietà. 

  42. Nel 1890 Morareto appartiene interamente a tale Daniele Durigon da Magnanins. Nel suo Promemoria ai posteri lo stesso Eugenio Caneva, ideatore e fondatore della Latteria Sociale di Collina, afferma che le pressioni del proprietario di Morareto sul Consiglio direttivo della Latteria portarono all'abbandono della casera Valutis, di proprietà del comune di Forni Avoltri e gestita direttamente dalla stessa Latteria. Pressioni indebite? Improprie? Caneva non lo afferma esplicitamente, ma non si esime dal chiosare “tanto precipitosa fu la decisione, altrettanto presto avvenne il pentimento”. Quanto al Consorzio Privato di Collina, si tratta dell'erede (almeno moralmente, se non in punta di diritto) della vicinia di Collina, da antica data proprietario e gestore di parte dei beni collettivi della frazione, mentre si è in attesa della ri-costituzione del Comitato frazionale cui sarà deputata la gestione dei beni d'uso civico della frazione attualmente — e pro tempore — amministrati dal Comune di Forni Avoltri. 

  43. Nei documenti di cui qui si tratta i Collinotti rispondono in solido della gestione della Monte di Collina. Quanto alla logica, va ricordato che nelle comunità investite di qualsivoglia diritto comune chi si allontanava dalla villa perdeva il beneficio, e lo stesso beneficio non era automaticamente concesso al nuovo entrato: talvolta la concessione era preclusa del tutto, talvolta il neo comunista era sottoposto a una trafila di anni e/o con notevole esborso finanziario. E la mobilità di individui e famiglie fra Culino Pìçulo e Culìno Grando, con patronimici e denominazioni di casate al seguito, era decisamente (e comprensibilmente) rilevante… 

  44. V. la stessa carta di Giampiccoli (1787) nelle prime pagine del testo, dove sono riportate “Collina Grande” e “Collina Piccola”. 

  45. Sicuramente anche ruderi, sul terreno o nella memoria. Dai documenti che coprono un arco di 600 anni (ma sappiamo che nella realtà sono certamente di più) dal 1400 al 2000 emergono almeno sette o otto monti o malghe nel solo territorio di Collina, esclusa quindi la val di Collina. Di queste, due sono ancora operative (Morareto e Plumbs), e di altre due sono visibili i ruderi (Chiampei e Chianaletta). Le rimanenti sono del tutto cancellate dal territorio, ruderi di una memoria anch'essa in attesa di definitiva cancellazione. 

  46. Ultim'ora. Di norma scrivo con il PC appoggiato su superfici molto solide, e non su un tavolino a tre gambe. Tuttavia, evocati da tanto misteriose quanto potenti forze arcane di natura sconosciuta (non certo per merito mio, diversamente avrei provveduto ben prima, e in ben altra misura), il giorno 2 luglio 2015 si sono materializzati a Morareto circa 60 bovini, di cui una quindicina di vacche da latte. Il quadro rimane oscuro assai, come le prospettive, ma… spirin. Speriamo bene.