Enrico Agostinis

 

LE ANIME E LE PIETRE

Storie e vite di case e casate, di uomini e famiglie. Piccolo grande zibaldone della villa di Culina in Cargna

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Collina 1907
Collina, 1907.

Guida alla lettura

 

A Dite e Alberto
e
a ducj ju Culìnots,
vizins,
lantans,
chi fóur,
chi son,
e chi saran
(Alberto Agostinis, La Lavino dal Furlan)

Altre parti dell’opera

 

COLLINA E LE ORIGINI: POCHE LUCI, MOLTE OMBRE

Fra storia e leggenda…1

Questa è la storia della testimonianza resa … il 21 de maio 1236 da Odorico qm. Osualdi da Culina Magna meriga, et Lenardo qm. Lenardi da Culina Parva, presente il Sig. legato del molto Rev.do Abate di St. Gallo in Modio … al gastaldo di Tolmezzo, presso il quale la villa di Collina era stata accusata da Artuico da Sudrio (Sutrio, N.d.A.) del mancato pagamento delle decime dovute … ad esso Artuico signore et titulare de avocazia, avendo egli colà in feudo la valle Culina tutta, et le terre, le ville et anco li mansi in essa locati ….

Con il sostegno e il conforto del Vicario abbaziale di Moggio (che era anch’egli parte in causa, in quanto percettore del quartese, cioè della quarta parte delle decime, le tasse del tempo), Odorico e Lenardo testimoniarono che … ad esso ed esso solo Vicario, Sig. legato del molto Rev.do Sig. Abate di St. Gallo in Modio la comunità di Culina si era obligata d’obedienza et tributi, sicut grex conoscendosi parte della rev.da Pieve di S.ta Maria di Gorto in Luvincis … epperciò di avere presso di esso Vicario assolto ogni obligazione presente et passata con l’oblazione della decima dell’anno corrente, come pure d’ogni altro tributo fin d’anno Domini 1197 ….

Odorico e Lenardo, e con loro l’intera comunità di Collina, che già allora contava undici fuochi e cinquantadue anime, furono assolti da ogni accusa. In quella occasione fu formalmente sancita l’appartenenza di Collina, a quei tempi evidentemente contesa fra le pievi di san Pietro di Zuglio e di santa Maria di Luincis, a quest’ultima, e cioè alla pieve di Gorto. Ad Artuico da Sudrio fu intimato di non molestare oltre il popolo del reverendo Abate di S. Gallo, sotto minaccia di essere trascinato egli stesso in giudizio avanti la Curia Patriarcale. Artuico ritirò l’accusa e non infastidì oltre i Collinotti, riconoscendo in perpetuo i diritti spirituali e temporali dell’Abbazia di Moggio – e quindi del pievano di s. Maria di Luincis – su Collina e i Collinotti.

Tuttavia, le pretese di signori e signorotti locali sulle terre e le genti di Collina non terminarono con la sentenza del 1236: meno di quarant’anni dopo, nel 1274, Wecilio e Wernerio qm. Giovanni da Agrons pretendevano, non si sa a quale titolo e con quale successo, parte della decima di Collina. Un anno più tardi, le stesse pretese erano avanzate da Raipreto di Rozo di Socchieve.

È certo che verso la fine del medioevo un documento riportante la testimonianza di Odorico e Lenardo – l’originale o una copia contemporanea – si trovasse nell’abbazia di s. Gallo in Svizzera (consorella dell’abbazia di Moggio) dove nel 1492 era ancora conservato nella biblioteca locale. Del manoscritto si perse traccia nel diciassettesimo secolo, al tempo delle scorribande e dei saccheggi dei Lanzichenecchi di passaggio verso l’Italia. Tuttavia, esisterebbe ancor oggi una copia del documento in volgare, come pure una copia in ladino grigionese probabilmente contemporanea, ambedue opera dei frati di s. Gallo e risalenti al 1400-1500. I due documenti farebbero oggi parte di una collezione privata, a Coira, sempre nei Grigioni.

Nella loro testimonianza, dunque, i due collinotti ricostruirono l’intera storia della nascita della villa, quarant’anni addietro, che sarebbe andata più o meno così.

Alle tre pomeridiane di un giorno di aprile del 1196 – una splendida giornata di primavera – tre uomini oltrepassavano il Ğùof 2, facendo il loro ingresso nella valle del Fulìn. Osualdo, Lenardo, Pietro erano i loro nomi. Accompagnavano i tre uomini le rispettive consorti: Sabata (o Sabida), moglie di Osualdo, gravida di cinque mesi, con la madre Agnese e i figli Odorico e Maddalena; Marianna, moglie di Lenardo, con i figli Anna, Caterina, Lenardo e Giovanni; Margarita, moglie di Pietro e sorella di Sabata, con il figlio GioBatta. Con loro, cinque vacche e tre vitelle, e le gerle colme – più che di masserizie e vettovaglie – di timore e di speranza insieme.

Avevano lasciato Tualis e Mili (così a quel tempo era chiamata Mieli) quello stesso mattino alle sei, subito dopo la mungitura delle vacche. Certo, non era la prima volta che si portavano sotto il Culiàns (il Cogliàns d’oggi), ma questo viaggio era diverso, era particolare, unico: questo viaggio sarebbe stato senza ritorno. Andavano lassù per rimanervi.

Il Culiàns e la valle sottostante erano ben noti alle genti di Gorto: fin dall’epoca romana, la grande montagna che dominava la valle era nota con il nome latino Collis, a significare “la montagna” per antonomasia. Già dal 1077 la Carnia era parte integrante del dominio del Patriarcato di Aquileia: in quell’anno, infatti, l’imperatore Enrico IV donava la Carnia, insieme al ducato del Friuli, al patriarca Sigiarto. Quarant’anni più tardi, nel 1118, il patriarca Vodolrico I concedeva le pievi di Gorto e di Cesclans all’abate di Moggio, attribuendogli piena autorità spirituale e temporale, e tutti i diritti del feudo.

La valle del Culiàns – la “val Culìno” come venne a chiamarsi in seguito – dipendeva territorialmente dal vicario abbaziale di s. Maria di Gorto a Luincis, al pari dell’intera valle del Degano, con Tualis e Mieli e tutti i paesi già esistenti a quel tempo. Il Vicario era dunque il rappresentante del feudatario (l’Abate di Moggio), che per sé tratteneva il quartese, la quarta parte delle decime di tutta la Pieve. La piccola valle lassù non era abitata, non avendo effettivamente alcuna attrattiva per le genti che allora abitavano la parte media e bassa di Gorto: ben alta sopra il Degano, confluiva nella valle principale attraverso uno sbocco stretto e scosceso, rimanendo quasi nascosta, e accessibile attraverso un percorso non facile e malsicuro. Inoltre, verso l’alto era chiusa tutt’intorno da alte montagne che lasciavano pochi valichi, anch’essi assai elevati, difficili e di nessun interesse né commerciale né militare.

Insomma, il luogo era sì conosciuto ma certamente non attraente, né poco né tanto, almeno fino a quell’anno 1196.

A partire circa dall’anno tutto l’arco alpino il clima si era sensibilmente addolcito rispetto ai secoli precedenti: gli inverni erano ancora nevosi, ma la primavera giungeva presto, e le estati erano più lunghe e calde. Specie vegetali che in precedenza crescevano solo nella bassa Carnia si erano lentamente spinte sempre più verso l’alto (persino l’uva giungeva a maturazione, fin sopra Ovaro, a Mione, Cella, Ovasta…): già verso il 1180, il padre di Osualdo, Odorico, nel corso dei suoi viaggi sotto il Culiàns aveva sperimentato, nei terreni più a solatìo, la semina non solo di orzo, segale, cavoli e rape, ma anche di fagioli e piselli e altre verdure, e con buoni risultati. Con il passare degli anni, persino le piante da frutto seminate qua e là senza speranza – meli, pruni, persino noci e ciliegi – giunsero a fruttificare ogni anno. Curiosità, poco più che esperimenti che Osualdo e Lenardo, quasi presentendo ciò che poi sarebbe accaduto, avevano verificato e confermato nel corso degli ultimi anni: pur con molta fatica, e senza grandi risultati, quella terra lassù era coltivabile.

Il vecchio Odorico non era stato tuttavia il solo a spingersi lassù. I terrazzi della valle esposti a solatìo, in parte liberati dal bosco, d’estate erano terreno di pascolo di manze e vitelle, e in autunno vi transitavano per l’ultimo pascolo anche le vacche, al rientro dalla monticazione in Plumbs (all’andata, all’inizio dell’estate, i valligiani di Gorto caricavano invece la malga di Plumbs direttamente attraverso la sella Biòichia, assai più in quota, senza passare dalla valle di Collina). In questo andirivieni, nel corso degli anni alcune famiglie avevano costruito qua è là alcuni stavoli: negli ultimi tempi, insieme agli esperimenti agricoli, Osualdo e Lenardo avevano anche provveduto ad accomodare convenientemente i propri, rendendoli quasi abitabili anche d’inverno. Certo, le donne giù in valle si lamentavano dei loro uomini mai a casa, della fatica, del lavoro dei campi, della stalla, della casa… Tutto da sole: ma si sa, anche a quel tempo (come poi nei secoli successivi, fin quasi al giorno d’oggi) in Carnia erano le donne a portare gran parte del peso del lavoro, in casa come fuori.

In Gorto le cose cambiarono, d’improvviso, nell’estate del 1195. Già da una decina d’anni, anche con le annate di buoni raccolti che si erano succedute, la terra era sempre meno in grado di soddisfare le necessità di una popolazione che cresceva velocemente. Il terreno utilizzabile, già di per sé non abbondante e ormai messo a coltivo ai limiti del possibile, era oltretutto frammentato in parti così piccole da esasperare ancor più una situazione già ai limiti della criticità; di più, dal territorio non era possibile spremere, e al primo raccolto scarso il disastro sarebbe stato certo. Ma un’altra minaccia, un altro pericolo già si stagliava all’orizzonte e si preparava ad abbattersi sulla Carnia e sul Friuli: le cavallette.

L’estate del 1195 fu caldissima in tutta Europa. Forse spinti, forse attratti dal caldo, nugoli di cavallette da Gorizia e Cividale si lanciarono a ondate sulla pianura friulana cancellando tutto quanto trovarono sul loro cammino: campi, prati, alberi, orti, poderi, tutto ciò che aveva una parvenza di verde non fu risparmiato.

Anche la bassa Carnia fu devastata peggio che dalla grandine: fin oltre Invillino, Socchieve, Enemonzo, gli insetti non lasciarono dietro di sé altro che terra bruciata, ciò che nel nostro documento viene chiamato vastata locustarum, a somiglianza della ancor più tristemente nota vastata Hungarorum, il passaggio degli Ungari nella Bassa friulana nell’anno 928.

Più in alto, a Lauco e Cludinico, e in Gorto, ad Agrons, Clavais, Luincis e oltre, i danni furono più limitati ma pur sempre pesantissimi, deteriorando gravemente una situazione già critica e instabile.

A condizionare ulteriormente i pellegrini della nostra storia si aggiunse, alla fine dell’anno, la terza gravidanza della moglie di Osualdo, Sabata: un’altra bocca da sfamare, in piena carestia. I progetti di emigrazione di Osvado e Lenardo – anch’egli alle prese con una difficile situazione familiare – subirono un’accelerazione. La valle di Collina, tuttavia, troppo lontana e disagevole, non rientrava ancora nei loro piani: i due uomini pensavano piuttosto a uno spostamento più breve, al seguito dei coloni (fra questi, un fratello di Sabata) che lentamente risalivano la valle insediandosi sulle terrazze laterali sopra Rigolato.

Ai primi due elementi se ne aggiunse un terzo, decisivo questa volta, verso la fine dell’inverno, con i primi segnali della peste che nei due anni successivi avrebbe spopolato borghi e valli.

Il morbo, giunto dall’oriente nella seconda metà del 1195 (per via di terra o di mare non è dato sapere: la prima dovrebbe essere in qualche modo verificabile storicamente, la seconda sembra però più probabile), attaccò facilmente le popolazioni della Bassa friulana già indebolite dalla carestia. Nel febbraio dell’anno successivo la pestilenza era in marcia da Tricesimo verso nord, portata da intere famiglie che cercavano la fuga dall’epidemia, divenendo invece esse stesse veicolo del contagio. Ai primi di marzo, l’avanguardia dell’infezione era giunta a Gemona e a Venzone, si muoveva verso Tolmezzo e si apprestava a risalire il Canal del Ferro.

Osualdo e Lenardo fecero parte del loro progetto il cognato di Osualdo, Pietro da Mieli, anch’egli già intenzionato a emigrare con la sua famiglia. Di fronte al pericolo che li minacciava, un piccolo spostamento lungo il Degano, secondo il piano originale, non offriva garanzie di sicurezza: si rendeva ormai necessario trovare soluzioni più radicali e sicure. E d’improvviso Lenardo capì.

Comprese che tutto ciò che sino ad allora era stato di ostacolo alla colonizzazione della val Culìno – difficoltà di accesso, lontananza, altitudine: l’isolamento, insomma – la rendeva ora attraente e sicura, ricovero e riparo dai pericoli che minacciavano le loro case e le loro famiglie.

I tempi, ormai strettissimi, non consentivano ulteriori riflessioni. In tutta fretta, furono valutati i rischi e le prospettive, e con la stessa velocità la decisione fu presa, concordemente: non appena la neve lo avesse consentito, le tre famiglie, con gli animali e tutto ciò che si fosse potuto trasportare, avrebbero lasciato le loro case e si sarebbero trasferite nella alta valle, al riparo dai pericoli ormai imminenti.

Fra marzo e aprile gli andirivieni attraverso il Ğùof – il solo accesso a quel tempo – si fecero frenetici: slitte e gerle trasportavano più materiale possibile per il primo anno dell’insediamento lassù. Mobili, masserizie, ma soprattutto sementi (quel poco scampato alla carestia) e attrezzi da lavoro trovarono posto negli stavoli predisposti per tempo da Lenardo e Osualdo. Già alla fine di marzo, nella valle la neve era scomparsa dai pendii e dai terrazzi a solatìo, ma il sentiero d’accesso, sempre all’ombra nell’ultima parte, era ancora troppo faticoso per Sabata, ormai al quinto mese di gravidanza, e pericoloso per gli animali. La partenza fu fissata per la metà di aprile, il giorno di Pasqua.

Nel pomeriggio di quel giorno di primavera, ormai giunti sul Ğùof, gran parte della strada e della fatica erano ormai dietro di loro: ancora in pieno sole e persino insolitamente accogliente, la valle si apriva dinanzi ai pellegrini come i loro cuori alla speranza. Lenardo, con le figlie, lasciò per primo la sosta per anticipare il gruppo e preparare un poco di conforto ai viandanti nello stavolo che li avrebbe ospitati. Poco dopo, anche il resto del gruppo si avviava verso l’ultimo ostacolo, il passaggio del rio Culìn (nome poi evolutosi nell’attuale Fulìn), in un luogo malsicuro e con il torrente in piena. Oltrepassato l’ostacolo, i viandanti si avviarono verso la staipo di Lenardo, costruita in luogo riparato lungo un rio laterale (in luogo che avrebbe assunto per l’appunto il nome in Riù), dove tutti insieme avrebbero passato la notte. Pochi giorni dopo, le famiglie di Pietro e Osualdo si sarebbero portate nella staipo di quest’ultimo, in posizione più elevata e soleggiata sulle terrazze a nord della valle. Alla fine dell’estate di quello stesso anno, un altro stavolo non lontano da quello del cognato avrebbe dato riparo e focolare anche alla famiglia di Pietro.

In Riù – era ormai l’imbrunire – il tepore del focolare accoglieva gli stanchi viaggiatori, quasi a rappresentare, a un tempo, la nuova casa, la nuova patria, la nuova terra promessa per la Pasqua degli esuli. Una preghiera di ringraziamento, una povera cena, con il pensiero già alle difficoltà dell’indomani, e i pellegrini si apprestarono a passare la notte.

Quella notte di aprile del quel lontano, piccolo angolo di Carnia, al tepore di quel primo focolare si schiudeva il seme della speranza e, insieme, nasceva un sogno, un nuovo domani.

Nasceva Collina.

…più vicino alla storia

La narrazione delle pagine precedenti, ancorché assai romanzesca e in larga misura parto di fantasia, contiene nondimeno tutti gli elementi di una ricostruzione storica che, partendo dal reale, si stempera via via nel probabile e nel possibile. In aggiunta a questi, è qui manifesta l’aggiunta di elementi anche sostanziali che non appartengono rigorosamente alla ricostruzione documentale (ma certamente non ne sono del tutto estranei), e sono tuttavia funzionali alla narrazione “epica” e al coinvolgimento del lettore. Aggiunta dunque di fatti e circostanze palesemente arbitrari e fantastici, a arricchire anche emotivamente una narrazione senza altre pretese storiche che il quadro di riferimento, vero o comunque verosimile che sia.

Di tutt’altra pasta il lavoro che state per leggere, dove di arbitrario v’è ben poco, e di fantastico nulla del tutto (se si eccettuano, abbastanza paradossalmente, proprio le ricostruzioni “storiche” della tradizione locale riportate poco più avanti), dove interesse e curiosità sono risvegliati non già dall’invenzione scenica ma dalla realtà delle cifre e delle date, dei nomi e dei personaggi, degli eventi e dei luoghi.

Le origini, dunque, oltre l’invenzione e la fantasia: quando, e perché?

Quando

La tradizione di casa Tamussin (una delle famiglie più antiche e più numerose della villa) vuole Collina fondata da due antenati della famiglia, Leonardo e Giovanni di Tamosis, entrambi “Della Zità Di Bergomo Cavalier”, come recita l’effigie dei due cavalieri in una formella sopra l’ingresso di casa Maçócol, a Collinetta. Si tratta della rappresentazione figurata della descrizione che si ritrova nell’opuscolo “Il paese di Forni Avoltri con la sua miniera di Avanza. Descrizione.” di L. Grignani (Cividale – Tip. Fil. G. Zavagna, 1868)3, il quale così recita:

“Alcuni dicono, che certi De Tamosis Leonardo e Giovanni, ambidue cavalieri Bergamaschi, compromessi e perseguitati dalla signoria di Milano, rifuggiavansi in quelle boscaglie, il primo nell’anno 1315, e il secondo nel 1458 ove fabbricarono la prima abitazione.
…………
Altri manifestano invece, che certo Barbolano Leonardo, alias centranico, voluto doge di Venezia, privato di vista de’ sui nemici e competitori del suo alto grado, siasi, dopo aver soggiaciuto a questo inaudito castigo, ricoverato in Collina nell’anno 1100, e con ciò fa conghietturare in lui il fondatore del villaggio.
Altri franguellano ancora, che disertori in preda ai rimorsi pei nefandi delitti commessi si abbiano portati nell’anno 1250 circa in questo villaggio sotto alla foggia di anacoreta onde espiare con austera penitenza i perpetrati delitti, quindi si vuole che abbino fondate le prime case”.

Dopo tutto, anche al netto delle incongruenze temporali (1315-1458), quanto a fantasia queste “fonti” rivaleggiano direttamente con il Maçaròt

Le prime notizie documentali di Collina risalgono alla seconda metà del XIII secolo, intorno al 1270, quando vari feudatari della chiesa di Aquileia (Raipreto di Rozo di Socchieve, Enrico di Zegliacco e suo figlio Stefano) a turno rivendicano parte delle decime della villa di Collina. Da questi documenti, nel primo dei quali (1274) viene fatta espressa menzione di Culina Parva, discendono direttamente due considerazioni.

Anzitutto, la menzione stessa di Culina Parva che implica, già allora, la struttura della villa in Magna e Parva, toponimia che si ritroverà poi, per sei secoli, in tutta la successiva documentazione sia civile che ecclesiastica. Coerentemente, la notazione “Collina” tout court sarà qui sempre intesa a comprendere entrambi i borghi, che dal punto di vista amministrativo ed ecclesiastico (ma anche e soprattutto civile e sociale) hanno sempre costituito un unicum inscindibile: una chiesa, un cimitero, una vicinia. Tant’è che la moderna dizione “Collina” e “Collinetta”, che compare solo nel XIX secolo a indicare le due ville, risulta – se non proprio antistorica – per lo meno inesatta e distorta. Ancora oggi i locali usano la forma Culìno Grando e Culìno Piçulo (e non Culìno e Culìnèto) per indicare i due borghi, e Culìno solo per indicarne l’insieme4. Di più: gli abitanti dell’uno o dell’altro borgo da sempre si riconoscono indistintamente Culinòts, Collinotti tout-court.

Seconda e non certo meno importante implicazione dei documenti duecenteschi è l’identificazione e definizione di Collina nelle sue parti e in toto (già si parla esplicitamente di “villa” e non di soli “mansi”) quale soggetto fiscale. Una comunità, quindi, già allora con un certo livello di organizzazione, di struttura sociale e con apprezzabili dimensioni dell’insediamento abitativo.

D’altra parte, dimensioni e struttura sociale della villa quali quelli desumibili a metà del XIII secolo richiedono perlomeno qualche decennio di sviluppo a partire dai primi insediamenti: in tal modo, il limite temporale inferiore di questi insediamenti viene a collocarsi, con una certa approssimazione, verso l’inizio del secolo in corso, o la fine del secolo precedente.

In altri termini, se le caratteristiche di Collina nella seconda metà del ‘200 sono quelle menzionate or ora, è assai probabile che Collina sia stata fondata non più tardi della fine del dodicesimo/inizio tredicesimo secolo.

Per quanto viceversa concerne il limite superiore, non vi sono indicazioni e supporti documentali significativi. Probabilmente, insediamenti anche di molto anteriori al XI secolo sono stati stabiliti in alta Carnia e territori limitrofi, quantomeno allo scopo di sfruttarne le risorse minerarie. Per menzionare solo i territori più prossimi a Collina, citiamo la zona di Sappada (ancor prima dell’immigrazione allogena e alloglotta degli attuali abitanti) per lo sfruttamento delle miniere del monte Ferro, e la stessa Forni Avoltri per lo sfruttamento delle miniere del monte Avanza. È assai improbabile – se non del tutto da escludere – che la conca di Collina, alla testata di una valle angusta e di accesso non agevole, senza sbocchi e soprattutto priva di qualsiasi risorsa mineraria, sia stata oggetto di insediamenti di questa natura.

Va d’altra parte sottolineato che la tipologia dell’insediamento connesso allo sfruttamento minerario (del genere di Forni Avoltri, per intendersi) non si configura probabilmente come una vera e propria “colonia” in senso stretto. Verosimilmente, più che di vere comunità organiche con interi nuclei familiari e una organizzazione sociale ben definita e strutturata, nel caso del Furno si tratta di aggregazioni ad hoc, originariamente finalizzate alla sola attività estrattiva, fors’anche non permanenti e costituite prevalentemente da individui maschi.

Un elemento a suffragio di questa tesi è l’evidenza documentale che Collina – villa in posizione evidentemente marginale rispetto alle vie di comunicazione – fino a tutto il XVII secolo conta un numero di abitanti pari o superiore all’insieme di Forni e Avoltri, site in fondovalle e quindi, in linea di principio, luoghi di insediamento tendenzialmente privilegiati.

Una possibile spiegazione dell’apparente anomalia va per l’appunto ricercata nelle differenti tipologie degli insediamenti originari: Collina, sin dalle origini intesa come comunità organica, stabile, con nuclei familiari completi e permanentemente insediati sul territorio, e pertanto con una dinamica demografica prevalentemente legata al ciclo riproduttivo e governata dal movimento naturale; il Furno, viceversa, con una demografia originata e dettata dal flusso migratorio, a sua volta legato all’intensità dello sfruttamento minerario e alla domanda di manodopera. Con tutta probabilità, come insediamento Collina nasce quindi dopo il Furno ma, a differenza di questo, si caratterizza sin dall’origine come villa propriamente detta, e perciò si sviluppa con maggiore rapidità.

Tutto questo naturalmente non determina in sè una particolare o precisa datazione dei primi insediamenti stabili a Collina. Altri elementi, di diversa natura, fanno d’altra parte collocare il limite superiore della datazione dell’insediamento di Collina approssimativamente al XI secolo.

Una indicazione in questo senso si può ricavare dall’arrivo della comunità germanofona nella conca di Sappada, databile con qualche certezza intorno al 1050. Questa occupazione stanziale, vera e propria colonizzazione, non è da confondere con i già menzionati insediamenti minerari, quasi certamente preesistenti e più o meno situati negli stessi luoghi. Anche spogliata delle sue componenti leggendarie e folcloristiche (la storia comune la vorrebbe proveniente da Willgraten in Östtirol), l’origine della comunità sappadina è certamente in relazione con un insediamento, rilevante anche sotto l’aspetto quantitativo, di famiglie o gruppi di famiglie di ceppo germanico.

Premessa indispensabile all’insediamento – sia che i nuovi venuti discendessero dal Comelico e risalissero poi la valle del Piave, oppure discendessero più direttamente dalla val Sèsis – era comunque la disponibilità del territorio per la colonizzazione, disponibilità che fu evidentemente riscontrata. In altri termini, alla metà del XI secolo, al sopraggiungere della mini ondata migratoria germanica, la conca di Sappada era disabitata, o perlomeno libera da insediamenti permanenti.

Diversa origine etnica ebbe naturalmente Collina: la assoluta omofonia e omoetnìa con la regione circostante fanno propendere per una origine strettamente carnica della popolazione colona. Si tratterebbe, in buona sostanza, di popolazioni che su base familiare o comunque di piccoli nuclei risalivano progressivamente il Canale di Gorto, sulla spinta delle motivazioni descritte romanzescamente all’inizio, e più razionalmente qui di seguito. Se questa ipotesi ha fondamento, è poco credibile che coloni con una buona conoscenza e familiarità con il territorio privilegiassero un insediamento permanente nella angusta e tutto sommato malagevole valle del Fulin, rispetto alla conca di Sappada, poco distante e climaticamente simile, ma con ben altra fruibilità del territorio.

Va anche ricordato che, nonostante la via di comunicazione preferita fra la Carnia e il Comelico fosse allora attraverso la Pesarina e forcella Lavardet, le cronache dell’epoca riportano la via dal Canale di Gorto al Comelico e al Cadore attraverso Cima Sappada come ben nota e frequentata fin dall’antichità. La scelta della valle del Fulìn per un insediamento stabile e permanente farebbe quindi logicamente supporre la non disponibilità di terreni migliori nelle immediate adiacenze, e andrebbe quindi collocata posteriormente alla colonizzazione di Sappada, e quindi dopo la metà del XI secolo.

Per concludere, quindi, l’insediamento originario di Collina può essere induttivamente collocato, con buona approssimazione, in un arco di 150 anni, dal 1050 al 1200 circa.

Perché

È ovvio e persino banale ricondurre le cause di ogni migrazione, individuale o collettiva che sia, a alterazioni degli equilibri preesistenti nei luoghi di partenza dei migranti. Mutamenti di qualsiasi origine e natura: economica, politica, psicologica, sanitaria o quant’altro: ovvio e banale, ma anche innegabile.

Dunque, perché migrare nel luogo che sarà Collina? Quali equilibri si spezzano, pesando al punto di spingere uomini, donne, intere famiglie a rivoluzionare la propria esistenza? E poi, rottura improvvisa e traumatica o risultato di alterazioni progressive dell’habitat socioeconomico? Naturalmente, non abbiamo risposte positivamente esaurienti, tuttavia l’oscurità nella quale ci muoviamo non è priva, qua e là, di qualche fievole lume.

Ci sembra anzitutto lecito supporre che il perché sia strettamente legato al quando: la storia – anche la storia minore, come questa – è pur figlia del suo tempo!

In un intervallo di tempo indeterminato fra il 1050 e il 1200, dunque, i coloni risalgono il Canale di Gorto. Per le ragioni già esposte, non vengono da molto lontano. Al contrario, probabilmente, come nella nostra fantasiosa ricostruzione, sono popolazioni locali della bassa valle che tracimano verso l’alto. Chi, o che cosa, li spinge?

Gli oltre 500 anni di invasioni barbariche in Friuli, dai Goti agli Ungari, si sono conclusi nel 955 con la disfatta di questi ultimi a opera di Ottone I; le scorrerie della cavalleria turca sono ancora di là da venire, lontane nel futuro di 300 o 400 anni. Per 500 anni, dalla metà del decimo alla metà del quindicesimo secolo, le frontiere e le genti del Friuli sono relativamente al sicuro dai nemici d’Oriente. D’altra parte, i flussi di invasione d’ogni tempo, avendo fra i loro obiettivi strategici la pianura più a occidente, se non Roma stessa (i cosiddetti barbari, prima), o più semplicemente il saccheggio (i Turchi, poi), scorrono e scorreranno verso la pianura, arrivando appena a lambire la Carnia. Qualunque ingresso in Italia scelgano gli invasori, da Gorizia a Tarvisio, le alte vallate della Carnia non sembrano esserne affette in misura sostanziale, né prima né poi.

Per ritornare alle ragioni del perché Collina, la romanzesca ricostruzione del Maçaròt allinea addirittura, ad abundantiam, tre concause simultanee, una endogena e più specificamente strutturale (la pressione demografica), le altre due contingenti e di origine esterna (un’epidemia di peste e un’invasione di cavallette con conseguente carestia: quando si dice forzare un poco la mano alla natura…). Gli elementi oggettivi e documentali a supporto delle tre cause sono in verità indiretti, e anche piuttosto esigui.

Un sensibile incremento demico si registra in tutta la Carnia nella prima metà del ‘300. Sulla base delle caratteristiche di ciclicità naturale di questo genere di fenomeni, fra il 1050-1200 (secondo la nostra ipotesi, nascita di Collina) e il 1300-1350 (periodo di massimo demico) vi è spazio per altre fasi di espansione demografica.

In tutta la regione alpina, il periodo a cavallo dell’anno 1000 è caratterizzato da un notevole rialzo della temperatura: il fenomeno raggiunge il suo acme fra il 1080 e il 11805. Questo mutamento climatico è certamente un elemento oggettivo a favore dello spostamento verso l’alto del limite degli insediamenti umani nell’area (e anche a supporto della nostra ipotesi temporale avanzata in precedenza). Inoltre, citando annali austriaci e ungheresi dell’epoca, la medesima fonte menziona spaventose invasioni di cavallette sul finire del XII secolo (1195).

Si tratta certamente di riscontri oggettivi nel merito assai modesti, con i quali i perché del Maçaròt ( e nostri) sono comunque consistenti e compatibili. Per ripeterci ancora una volta – e in attesa di ipotesi più verosimili – se non é andata così, certamente può essere andata così.

L’epidemia di peste non ha invece alcun oggettivo riscontro nel periodo che ci interessa, in particolare in coincidenza con gli altri due fattori citati. Eventi epidemici di varia natura e intensità non erano certo infrequenti in Friuli e in Carnia all’epoca dei fatti e fino al XIX secolo: periodicamente, peste e salmonella, tifo e vaiolo spopolavano valli e pianure, villaggi e città. Salve le premesse e promesse di rigore storico-scientifico, ci sembra tuttavia eccessivo nella nostra ricostruzione attribuire a questo elemento qualcosa di più di una lontana possibilità (o, meglio, di una non esclusione) e, in ultima analisi, di una nota di colore.

Postilla 2020

Circa le origini di Collina, con il riemergere dagli archivi di alcuni documenti quattrocenteschi “riscoperti” nel 2015 (v. Mons di Culina, Culìno e Culinòts) alle cause sopracitate mi sembra di poter affiancare, forse con maggiore fondatezza, la messa a reddito da parte dell’amministrazione patriarchina di terreni prima di allora disabitati e quindi improduttivi (in senso soprattutto fiscale). Detto altrimenti, il patriarca-feudatario “spedisce” a Collina un certo numero di famiglie dotandole di benefici/incentivi legati soprattutto ai terreni: piccole proprietà, usufrutti, enfiteusi, diritti d’uso esclusivo, molti dei quali hanno attraversato i secoli per giungere sino a noi sotto forma di beni d’uso civico. Con duplice beneficio anche per l’amministrazione patriarchina. In primo luogo, oltre all’imposizione fiscale (le decime dalle quali, in parte o in tutto, in seguito i Collinotti saranno tuttavia esentati), i fitti percepiti per i terreni concessi in affitto o enfiteusi: proventi che, rispetto al nulla precedente, costituiscono un’entrata netta. In secondo luogo va considerato il presidio del territorio, che ancorché privo di valichi ritenuti strategici risulterà comunque popolato e presidiato da genti di formale appartenenza alla Patria del Friuli.

Dal lavoro citato sopra fa capolino l’ipotesi che, sin dalle origini, all’attività agricola si affiancasse una cospicua o forse anche prevalente (o preesistente) attività pastorale. Nel 1400, oltre ai pascoli di Morareto, possessum per illos de Culina, abbiamo prova documentale che i Collinotti da tempo immemorabile disponevano in enfiteusi anche di tutta la val di Collina, oltre Forcella Morareto e oggi in Comune di Paluzza. Decisamente molto per un villaggio di poche decine di anime, ciò che induce a pensare che la pastorizia fosse attività professionale condotta anche − o forse soprattutto − con bestiame di terzi.

TERRITORIO, ECONOMIA, EMIGRAZIONE

Il territorio

Collina è nell’accezione storica nome collettivo6, a indicare l’insieme delle due ville di C. Piccola e C. Grande (Culina parva e Culina magna). È oggi parte del comune di Forni Avoltri, che nell’insieme è costituito a sua volta da 5 frazioni: Forni (sede comunale), Avoltri, Frassenetto e Sigilletto, oltre naturalmente a Collina.

Il territorio comunale, procedendo in senso orario dalla sua “porta d’ingresso”, il ponte Coperto è compreso fra i comuni di Rigolato e Prato Carnico, la regione Veneto (provincia di Belluno, comune di Sappada), il confine di Stato con l’Austria, il comune di Paluzza e quindi nuovamente il comune di Rigolato7. La superficie del territorio comunale (80,407 kmq.) è situata fra gli 800 m. del ponte Coperto sul rio Fulìn, alla sua confluenza nel Degano (ma non cercate un “ponte coperto”: dell’antico manufatto in legno, bruciato al tempo delle guerre napoleoniche, non è rimasto oggi che il nome), e i 2780 m. della vetta del monte Cogliàns, limiti altimetrici che peraltro corrispondono a quelli della frazione di Collina. La parte realmente fruibile del territorio della frazione è comunque tutta al di sopra dei 1100 m. (ponte del Fulìn sull’omonimo rio, a valle dell’abitato di Collina Piccola).

L’ambiente è quindi tipicamente alpino, di alta montagna. Inoltre, come d’altra parte in tutta la Carnia, i limiti altimetrici sono considerevolmente inferiori rispetto al resto della catena alpina, nell’ordine di 300-400 m. e più. Le conseguenze sono quelle note, soprattutto sotto il profilo agro-silvicolo. Senza entrare nel dettaglio, ci sembra tuttavia utile e opportuno, nel contesto di questo lavoro, qualche riferimento più preciso alle condizioni ambientali, almeno in termini di fruibilità (disponibilità, fertilità) della risorsa territorio.

Il versante a bacìo (sin. orografica della valle, costante esposizione a N) è totalmente boscoso e quasi ovunque ripidissimo, e pertanto del tutto inadatto a qualsiasi impiego agro-pastorale. Al contrario, il versante a solatìo offre pendii meno proibitivi: un tempo probabilmente anch’essi boschivi, e successivamente deforestati nella loro parte inferiore per far luogo agli insediamenti abitativi e alle attività agricole a essi connesse, i declivi immediatamente a N dei due abitati e il breve fondovalle fra le confluenze del rio Plumbs e del rio Collinetta nel rio Morareto hanno rappresentato la quasi totalità del territorio disponibile per l’attività agricola. Oggi, con il progressivo abbandono delle colture e dello sfalcio dei prati a partire dagli anni ‘50 e ’60, il bosco sta rapidamente riguadagnando il terreno sottrattogli nel corso dei secoli dall’opera dell’uomo.

Il limite della foresta si colloca intorno ai 1600-1700 m.: al di sopra di questo limite si estende la zona a pascolo alpino che, seppure in maniera non uniforme, si spinge fino a 2000-2200 metri.

Già in tempi remoti il territorio era percorso da una fitta rete di sentieri diramantisi dai centri abitati verso i luoghi di lavoro: prato, pascolo, bosco. A questi si aggiunsero successivamente sentieri e strade militari in quota, funzionali alle esigenze belliche del 1915-18. Oggi, tutto ciò costituisce un reticolo la cui percorribilità si fa di anno in anno più problematica, sotto l’attacco congiunto della vegetazione e degli agenti atmosferici, e in pressoché totale assenza di manutenzione (questa, un tempo, oggetto di specifiche attenzioni della collettività e della vicinia: a ogni membro della comunità era fatto obbligo di fornire nell’anno alcune giornate di lavoro da dedicarsi a questa specifica mansione). Le dimensioni dei sentieri erano tali da permettere il passaggio di una persona, del bestiame, tutt’al più di una slitta per il trasporto del fieno o della legna.

1916. Strada Rigolato-Collina
1916. Strada Rigolato-Collina

La viabilità da e per il fondovalle del Degano era assicurata da due sentieri (le due strade carreggiabili, come tali, hanno entrambe meno di 100 anni).

Il primo percorso, probabilmente più antico, si sviluppava sul versante a bacìo e conduceva, attraverso il Ğùof, al Degano. Il sentiero proseguiva poi ben oltre i ponti in corrispondenza di Givigliana e Stalis, fino alla località detta Şglìnghin (probabile onomatopea per il tintinnio delle fucine, che insieme a mulini e segherie popolavano il luogo).

Sull’opposto versante, un altro sentiero, assai accidentato e difficoltoso, e in alcuni tratti largo un piede o poco più, attraverso Sigilletto e Frassenetto portava a Forni, in parte seguendo e in parte discostandosi dall’attuale tracciato della strada carrozzabile Forni-Collina.

Del tracciato di questo sentiero esiste una dettagliata e minuziosa descrizione, eseguita dal perito Antonio Pascoli il 27 luglio 1769 e conservata nell’Archivio della Curia Arcivescovile di Udine8. Fino al 1771, anno di pieno riconoscimento e di effettiva operatività della Mansioneria di Collina, in ogni stagione per i Collinotti era questa la via obbligata per assistere alla messa festiva e per ricevere i sacramenti impartiti nella parrocchiale di S. Giovanni Battista di Sopraponti, dove si trovava l’unico fonte battesimale dell’intera cura. Di qui la cinquantennale contesa fra i Collinotti e il curato per dotare la villa di mansionario prima, e di fonte battesimale poi, querelle conclusasi appunto nel 1771. Il sentiero e la descrizione stessa da parte del perito Pascoli assumono un particolare valore storico e documentale per una corretta definizione e comprensione del contesto socio-ambientale della comunità di Collina quale essa si è configurata agli inizi della propria storia e nel corso della propria evoluzione. Oltre che dalla morfologia, infatti, la mobilità sul territorio era fortemente condizionata dai fattori climatici (in parte certamente lo è ancora oggi, ma in passato doveva esserlo in misura drammatica: già pericoloso in condizioni normali9, il tracciato per la parrocchiale si trasformava d’inverno in una trappola mortale).

In presenza di neve a basse quote e con le vie di comunicazione abbastanza approssimative di cui s’è detto, sono ipotizzabili condizioni di virtuale isolamento per 4-6 mesi all’anno, e ciò fino a tempi non troppo remoti.

L’economia

Nel poco terreno disponibile, il clima – proibitivo per molte varietà vegetali, fra cui il mais – e il territorio consentivano in passato la coltivazione del frumento (peraltro in misura assai limitata, e in tempi non recenti), e soprattutto di orzo e segale fino alla metà del 190010. Oltre alla patata11, seminata a aprile e raccolta a ottobre/novembre, spesso già con le prime nevi, giungevano a maturazione i cavoli, le rape e pochi altri ortaggi.

A testimonianza della peculiare e largamente variabile fruibilità del microclima e quindi del territorio anche nel ristretto ambito comunale, si può notare come a Collina – a differenza di Forni – non risulti possibile neppure la coltivazione del fagiolo. Gli alberi da frutto (pochi pruni e meli, rarissimi noci e maraschi, assenti tutti gli altri) fruttificavano mediamente solo ogni due anni: l’unica pianta da frutto significativa dal punto di vista alimentare (i frutti di bosco sono da considerarsi, sotto questo profilo, irrilevanti) è il nocciolo selvatico. La stessa canapa, ancora coltivata alla fine del secondo conflitto mondiale, non giungeva sempre a maturazione, e spesso richiedeva post-trattamenti in fienile prima di poter essere lavorata.

Naturalmente, il riferimento è a condizioni climatiche e ambientali medie: certamente nel tempo si sono succedute situazioni ora più e ora meno favorevoli all’attività agricola, come è già stato ricordato in altra parte di questo lavoro. Resta comunque, come dato di fondo, la sostanziale avarizia quali/quantitativa del territorio sotto il profilo agricolo.

Viceversa, il bosco rappresenta una risorsa apprezzata e sfruttata sin dall’antichità (i “boschi da remi” della Serenissima ne sono l’esempio più noto): risorsa certamente importante nell’economia locale, ma condizionata – ieri come oggi – dalla elevata incidenza dei costi di trasporto in relazione al valore intrinseco del prodotto.

In un contesto di economia di sussistenza, quale quello che si configura fino alle soglie del ventesimo secolo, non desta sorpresa che il fulcro dell’attività della società collinotta del tempo sia la stalla, e ancor più la vacca – la vàcjo – e il relativo ciclo alimentare/produttivo/ riproduttivo (fieno/latte/vitelli). Il buon funzionamento del ciclo in tutti i suoi elementi è davvero una questione di sopravvivenza, la condizione necessaria (anche se spesso non sufficiente) al mantenimento di un equilibrio eternamente precario. Anche per questo ci sembra di particolare significato, nel definire l’oggetto delle cure dei villici, l’uso del singolare la vàcjo, e non del plurale las vacjos o del termine generico di “allevamento”, a sottolineare una sorta di rapporto privilegiato – diremmo quasi soggettivo – fra l’uomo e l’animale, e come e quanto attorno a questa attività ruoti una intera struttura socioeconomica e organizzativa, in primis della singola famiglia e quindi dell’intera comunità. La Latteria Sociale ne è l’esempio più noto ed evidente.

In tutta la Carnia, fino dai tempi antichi (forse da sempre, se ci si passa l’espressione) e fino a epoca recente, il peso maggiore del lavoro dei campi grava – in senso stretto e in senso lato – sulle spalle delle donne12. Sulle loro spalle, in quelle gerle spesso più grandi di loro, le donne carniche hanno portato di tutto: fasci di fieno, legna, bambini. Nella Grande Guerra, anche le granate dell’artiglieria italiana sul Pal Piccolo hanno preso la via della prima linea nelle gerle delle portatrici carniche.

1956. La medo
1956. La medo

Nel panorama della Carnia, Collina non fa eccezione: fino al secondo dopoguerra, con la presenza maschile falcidiata dall’emigrazione, le donne hanno dovuto e saputo sostenere gran parte degli oneri materiali e soprattutto morali di un’economia superata e fuori dal tempo, ormai avviata a un rapido declino e quindi all’estinzione.

Nel territorio di Collina sono ricordate, in tempi relativamente recenti, almeno 7 fra malghe e casere, di proprietà sia privata che consortile: di queste, due (Plumbs e Morareto) sono ancora attive oggi, sia pure con bestiame di provenienza da altra area. D’altra parte, all’alba del terzo millennio, a Collina i capi bovini sono in numero di 0 (zero), laddove un censimento del bestiame di inizio secolo (1911), rileva la presenza di 195 bovini, 34 ovini e 48 maiali. Per quanto riguarda un passato più remoto, alle 7 malghe e casere già menzionate vanno aggiunte le malghe di Volaia, in territorio austriaco ma gestite da Collinotti fino alla seconda metà del 1800.

Ancora più a ritroso nel tempo, qualche dubbio sussiste invece sulla proprietà delle malghe di val di Collina, situate oltre lo spartiacque Cjadìn-Floriz-Cròstis e oggi in territorio del comune di Paluzza. Secondo una tradizione popolare ancora presente a Collina (memoria orale peraltro priva di alcun supporto documentale) le malghe furono cedute dai Collinotti nel diciottesimo secolo per far fronte alle spese di rifacimento del coro della chiesa di s. Michele. Perplessità a parte, resta la curiosità legata alla precisione e al dettaglio dei toponimi ancora oggi in uso (val di Collina, casera Collinetta etc.).

Nel quadro di una economia di tipo pressoché autarchico, oltre all’agricoltura erano naturalmente presenti sul territorio anche attività di economia “secondaria”: forni da calce, fucine, mulini a macina, mulini a pestelli, segherie, attività tutte mosse da energia idraulica e ancora operanti nella prima metà del 1900. Ultime a chiudere, negli anni ‘50, le segherie, messe definitivamente fuori mercato dall’evoluzione tecnologica e soprattutto delle vie e dei mezzi di trasporto.

L’attività estrattiva del marmo, in analogia con le vicine cave di Forni e Sigilletto, non ha invece mai goduto di grande fortuna, e alcuni isolati tentativi esperiti negli anni intorno al 1960 sono stati ben presto abbandonati.

Nonostante le indiscutibili attrattive e bellezze naturali del luogo, anche il turismo stenta a decollare. Dopo un periodo di relativa vivacità della domanda, fino al secondo dopoguerra e agli anni ‘50, Collina è via via rimasta ai margini delle grandi correnti di flusso del turismo, sia estivo che invernale. Oggi sono alcune frange marginali della domanda turistica (colonie, scouts, comunità di varia natura) a beneficiare l’economia del comune di Forni, e di Collina in particolare.

Naturalmente, non ci interessa in questa sede un’analisi organica dell’eonomia locale e delle sue componenti: resta per noi l’importanza degli effetti, la ricaduta e l’impatto dei flussi economici – reali o mancati – sul tessuto sociale, sul mercato del lavoro e, in ultima analisi, sul movimento demo-anagrafico. Un quadro socioeconomico come quello appena abbozzato, peraltro storicamente assimilabile a gran parte delle realtà montane d’Italia (dalla Liguria alla Valtellina, alla Carnia stessa, per tacere del Sud appenninico), porta altrettanto storicamente a un esito largamente condiviso da tutte queste aree: l’emigrazione.

Emigrazione ed emigranti

Inizio ‘900. Emigranti
Inizio ‘900. Emigranti

L’emigrazione da Collina e più in generale da tutta la Carnia è un fenomeno tutt’altro che recente. Sia pure con connotazioni fortemente differenziate rispetto all’emigrazione dell’800, e ancor più rispetto a quella della seconda metà del ‘900, il fenomeno migratorio è già presente e rilevante nel ‘400, come ampiamente descritto e documentato in studi e lavori anche recenti13.

L’esistenza già allora, a due secoli o poco più dalla colonizzazione e dai primi insediamenti stabili nella valle, di un consistente fenomeno migratorio è solo apparentemente contraddittoria. Paradossalmente – ma non poi così tanto – le premesse e le origini autentiche dell’emigrazione da Collina sono da ricercarsi nelle motivazioni stesse della migrazione a Collina.

In altri termini, se è vero – e l’affermazione scade persino nell’ovvio – che le origini dei fenomeni migratori sono riconducibili all’alterazione di equilibri socioeconomici, a particolari spinte e motivazioni più o meno intense e più o meno contingenti ma comunque tese a ristabilire le condizioni di equilibrio perturbato, è altrettanto vero che al venir meno, o anche al solo attenuarsi, dell’intensità o dell’urgenza delle stesse motivazioni si determina una nuova situazione di instabilità (in senso inverso, questa volta) che i medesimi meccanismi sociali di regolazione e stabilizzazione già intervenuti tendono a riequilibrare.

È questa una rappresentazione che può risultare un poco meccanicistica e riduttiva ma, tutto sommato, ci sembra abbastanza comprensibile e, soprattutto, non lontana dal vero.

In altre parole, per spingere le popolazioni delle aree contigue (percorsa da importanti vie di comunicazione, la Carnia era certamente popolata almeno sin dall’epoca romana) a colonizzare la valle del Fulìn solo nel 1200, necessariamente dovevano fino ad allora sussistere condizioni ostative a ciò, o (il che è poi la stessa cosa, almeno in termini effettuali) comunque non dovevano fino ad allora sussistere condizioni di attrattività dei luoghi tali da spostare gli equilibri socioeconomici delle stesse popolazioni circostanti.

Evidentemente, quella valle non era Shangri-la, e ben se ne possono comprendere le ragioni: ciò nonostante, qualcuno ritenne che in quel momento, in quelle condizioni, valesse la pena di andarci e andò, alla ricerca di nuovi equilibri. Quanto poi questi nuovi equilibri fossero destinati a durare, è parte integrante della storia e (anche) argomento di questa storia.

Se non all’atto della nascita dell’insediamento di Collina, su cui ci siamo dilungati nel capitolo precedente, la crescita demografica è comunque e certamente elemento preponderante nell’evoluzione degli equilibri socioeconomici della villa. E con questo non abbiamo certamente scoperto od inventato nulla, ma non può sicuramente sfuggire all’attenzione anche del più distratto o scettico dei nostri lettori che l’insediamento di Collina non è stato certo programmato o anche solo immaginato come un microcosmo in grado di fornire i mezzi di sostentamento a oltre 300 abitanti, come nei primi anni del ‘700, o a 450 persone, quante ve n’erano nel 1935.

Emigrazione dunque come elemento certamente costante, se non strutturale, della società collinotta attraverso i secoli, fino al vero e proprio spopolamento attuale. Per una trattazione più organica e approfondita degli effetti quantitativi del fenomeno migratorio si rimanda al capitolo relativo alla demografia.

Tuttavia, due sole cifre – saldo naturale e popolazione residente – bastano qui a dare un’idea della dimensione del fenomeno: in 400 anni, a fronte di un saldo naturale positivo superiore alle 1000 unità, la popolazione è passata da 150 abitanti agli inizi del meno di 100 agli albori del nuovo millennio14. Anche il profilo dell’emigrante muta assai, in sintonia con il mutare dei tempi.

Agli albori della nostra storia, alla fine del ‘500, un ritratto verosimile dell’emigrante può essere questo: maschio, adulto, in prevalenza diretto temporaneamente (con cadenza stagionale, da ottobre a maggio) all’estero, in Stiria, Carinzia, Slovenia, a esercitare il mestiere di cremâr15 (dal tedesco kramar, commerciante ambulante).

Con il trascorrere dei secoli, il ritratto dell’emigrante muta e si diversifica, fino a rendersi irriconoscibile. Nell’800 giunge a comprendere le donne e interi nuclei familiari, e si differenzia per tipologia professionale (contadini, muratori, cucitrici, donne di servizio), per destinazione (alle mete tradizionali del centro Europa si aggiungono le Americhe, l’Australia e soprattutto l’Italia nord-occidentale) e per durata (da stagionale a annuale, a permanente e definitiva).

1913. Muratori di Collina a Neumarkt (Germania)
1913. Muratori di Collina a Neumarkt (Germania)

Non è questa la sede per un’analisi sociologica del fenomeno e delle sue conseguenze: non si può tuttavia non rilevare come l’impatto sul tessuto sociale e sul territorio – soprattutto in tempi recenti – sia devastante.

Più da vicino, e coerentemente con gli obiettivi limitati di questo lavoro, ci interessa la correlazione – pur essa importante – tra flusso migratorio e onomastica, lungo il talvolta tormentato percorso dell’evoluzione dell’onomastica delle “case”, intese sia come casate che come edifici veri e propri; evoluzione cui l’emigrazione ha dato e sta tuttora dando un consistente contributo. Ultimo caso, per citare solo il più recente, la scomparsa da Collina del cognome Tamer, presente fino dal ‘500 e legato a edifici ed eventi storici importanti (per tutti, le disposizioni testamentarie di Mattio Di Tamer, che nel 1729 portarono alla costituzione della Mansioneria di Collina).

Nel sottolineare l’importanza dei flussi migratori nella storia del microcosmo collinotto non si può non ricordare, accanto alla corrente emissaria, l’esistenza di un flusso in direzione opposta, verso Collina cioè, quantitativamente modesto ma sempre presente attraverso i secoli, e di grande importanza nell’onomastica locale. Di matrice allogena, tra l’altro, case e casate “storiche” fra cui Pàur e Bòrtul, Pirucèlo e Nadalìn e molte altre, alcune di esse risalenti a tre secoli addietro: gestori di malghe, casari, fabbri, fino ai militi della Guardia di Finanza di tempi più recenti16, hanno dato nel tempo il loro contributo all’attività (come pure all’anagrafe e all’onomastica) di Collina.

PREMESSA ALLA PARTE ANALITICA

Proseguendo lungo il percorso un po’ erratico seguito sin qui, va detto che si tratta di una parte analitica sui generis, nella quale si trovano inesorabilmente frammisti costume e statistica, rigore matematico e sentito dire, grafici e filo17. Un vero zibaldone, insomma (dopo tutto, il titolo non mente), nel quale però si ritrovano tutti i principi ispiratori di questo lavoro, magari non con l’ampiezza e la profondità desiderate ma forse con qualcosa in più, qualcosa di imprevisto e forse anche sorprendente, ad arricchire e insaporire un piatto certamente concepito in tutt’altra maniera.

La parte analitica consta di tre sezioni: la prima sezione è inerente ai cognomi, la seconda ai nomi delle case/casate, la terza agli aspetti demografici dei 400 anni di storia collinotta qui ripercorsi. A stretto rigore, alla parte analitica appartiene anche l’appendice in CD-ROM, che consiste nella ricostruzione dei nuclei familiari delle 30 principali famiglie di Collina, dal oggi.

La presenza della componente “scientifica" (mi si passi il termine un po’ pretenzioso, ma è anche l’elemento meno insicuro per chi scrive…) è variabile nelle tre parti analitiche. È prevalente nella prima parte, relativa ai cognomi, dove di questi vengono considerati e analizzati parametri statistici quali distribuzione, frequenza, anno di comparsa e di eventuale scomparsa, grado di endemicità e così via; secondaria o del tutto assente nella seconda – relativa alle case – dove, in assenza di una estesa e affidabile base documentale, prevale la parte descrittiva; di nuovo consistente nella parte inerente alla demografia, sebbene temperata da frequenti invadenze di note di cronaca e di costume.

La cosiddetta appendice meriterebbe ben altro che la brevissima descrizione di queste righe. Questa parte, sebbene in pratica “esiliata” al di fuori di questo volume, è l’anima autentica di tutta quest’opera, la sintesi del lavoro di indagine, di deduzione, di induzione, di scoperta: in buona sostanza, di ciò che gli inglesi direbbero di intelligence. Questo enorme lavoro ha portato alla ricostruzione, generazione dopo generazione e attraverso quattro secoli, di tutti i nuclei familiari (oltre 600) delle 30 principali famiglie di Collina: l’anima di Collina attraverso la storia di tutte le sue anime. Purtroppo, quest'anima è necessariamente collocata nel “purgatorio” del CD-ROM.

Va infine detto (ma forse andava chiarito sin dall’inizio), che una sistematica e approfondita analisi statistica dei dati non era – né sotto l’aspetto demografico, né sotto quello onomastico – negli obiettivi iniziali di questo lavoro. Ciò nondimeno, anche a una lettura superficiale e non professionale del materiale disponibile non sfuggono alcune caratteristiche interessanti e significative della popolazione (questa sì intesa anche in senso statistico).

E alla presa d’atto dell’esistenza di queste peculiarità si accompagna la certezza che, come spesso accade, dietro l'apparente aridità delle cifre, delle percentuali e dei percentili, si nascondono realtà e dimensioni assai più umane, più familiari e domestiche, legate ai ritmi di vita, alle necessità, alle abitudini e ai costumi della popolazione, della gente.

LE ANIME: UOMINI E FAMIGLIE

Statistica

Fonti

Sono stati trascritti e ordinati gli eventi anagrafici disponibili (nascite, morti, matrimoni) desunti dai registri parrocchiali – prima di s. Giovanni di Frassenetto, e quindi di s. Michele di Collina – dal 1594 al 2000.

Risulta mancante l'elenco dei nati dal 1718 al 1794, come pure l'elenco dei matrimoni dal 1914 al 1928. Quest'ultimo è stato integralmente surrogato dagli elenchi di stato civile del comune di Forni Avoltri, e costituisce parte integrante della popolazione statistica.

L'anagrafe mancante dei nati 1718- assenza di documenti sostitutivi equivalenti o probanti, è stata parzialmente e indirettamente ricostruita con l'ausilio di altri documenti (registro dei morti attraverso l’età del defunto, resoconti di visite pastorali con l’età dei singoli cresimandi, etc.); analogamente, sono stati ricostruiti e datati altri eventi (morti, matrimoni) non registrati in anagrafe.

Questi elementi anagrafici ricostruiti sono stati a loro volta utilizzati nella ricomposizione dei nuclei familiari (schede anagrafiche), come pure per la determinazione dei percorsi onomastico-temporali di case e casate. Tuttavia, gli eventi anagrafici ricostruiti non fanno parte della popolazione statistica, che risulta pertanto interamente ed esclusivamente costituita da eventi riportati in documenti fisicamente esistenti18.

Popolazione

La popolazione statistica è costituita dall’insieme di tutti gli eventi anagrafici registrati (nascite + morti + matrimoni).

Si tratta naturalmente di un criterio arbitrario e certamente non rigoroso, i cui limiti (e vantaggi) sono evidenti, ma che comunque non altera significativamente il quadro di riferimento. È evidente, ad esempio, che un individuo nato, sposatosi e morto a Collina viene menzionato tre volte, al contrario di uno nato a Collina e definitivamente emigrato prima del matrimonio, che viene contato una sola volta, o al massimo due, se viene eventualmente registrato fra i morti.

Tuttavia, come emerge anche dal confronto delle diverse graduatorie di frequenza ordinate per evento anagrafico (Tab. B, due pagine avanti), il vulnus al rigore scientifico appare assai relativo e del tutto tollerabile: come peraltro prevedibile, la graduatoria delle famiglie ordinate per matrimoni non si discosta da quelle per gli altri eventi anagrafici.

Il criterio di accorpamento qui adottato risulta pertanto accettabile, soprattutto alla luce del rapporto costi/benefici in confronto a una trattazione separata dei tre distinti eventi anagrafici, procedura certamente più rigorosa ma che non aggiungerebbe granché alla sostanza di questo lavoro. Nelle tabelle A e B delle pafine seguenti gli eventi anagrafici sono comunque riportati anche separatamente: in ordine alfabetico per famiglia (Tab. A), e in ordine di frequenza per famiglia, riferito al singolo evento (nascita, morte, matrimonio, Tab. B).

A tutto il 2000, il totale degli individui della popolazione ammonta a 5528: 2245 nati, 1948 morti, 1335 desunti dai matrimoni19.

TABELLA A - ALFABETICO
TABELLA A - ALFABETICO

Frequenza

Sulla base del numero di menzioni (frequenza), dagli elenchi anagrafici sono stati estratti e raggruppati gli elementi (records) appartenenti ai 30 cognomi numericamente più significativi (o, più semplicemente, sono stati contati gli appartenenti alle 30 famiglie più numerose dell’anagrafe: non è esattamente la stessa cosa, ma l’importante è capirsi…).

1594-2000: distribuzione delle menzioni anagrafiche per cognome
Figura 1 - 1594-2000: distribuzione delle menzioni anagrafiche per cognome (nati + morti + matrimoni)

La sommatoria di tutti i records relativi ai 30 cognomi più significativi, riportati in tab. A a fronte (i Top 30, se mi si passa il termine), rappresenta il 96.3% della popolazione (5326 records su 5528) nell'arco dei 400 anni considerati; il restante 3.7% comprende il cosiddetto residuo, ossia la somma delle presenze di tutti i nomi diversi dai primi 3020.

Le percentuali delle singole frequenze degli omonimi considerati sono comprese fra il 14.9% di Barbolan (824 records) e lo 0.2% di Faleschini (12 records), secondo quanto riportato in dettaglio nella tabella 2, e ben evidenziato dalla figura 1.

Detta “f” la frequenza, si possono identificare quattro classi omogenee:

  • f >10% (3 famiglie)
  • 10%> f >5% (6 famiglie)
  • 5%> f >2% (2 famiglie)
  • f < 2% (le altre 19).
TABELLA B - FREQUENZA
TABELLA B - FREQUENZA

Il grado di omogeneità di queste classi è abbastanza elevato: all’interno dei gruppi non c’è – in termini di frequenza – soluzione di continuità, mentre fra un gruppo e l’altro la frequenza approssimativamente si dimezza.

Per raggiungere la metà della popolazione sono sufficienti i primi 5 cognomi; per superare i ¾ ne occorrono 10, come si evidenzia dalla figura 2 qui di seguito.

1594-2000: curva integrale delle distribuzione delle menzioni anagrafche per cognome
Figura 2 - 1594-2000: curva integrale delle distribuzione delle menzioni anagrafche per cognome (nati + morti + matrimoni)

Distribuzione temporale

L'intervallo temporale di prima menzione (ingresso in anagrafe) delle 30 famiglie analizzate in dettaglio è compreso fra il 1594 (Barbolan) e il 1914 (Del Regno), come già evidenziato nella tab. A. Anche in questo caso è possibile suddividere le famiglie in gruppi, in funzione dell'anno di prima menzione. Il primo gruppo comprende le famiglie (14) presenti negli anni 1594-1609. È il nucleo storico delle famiglie di Collina (alcune delle quali ovviamente presenti sin dall'inizio con più entità familiari distinte), che oltre alle 14 qui considerate ne comprende una quindicesima (Comeleani), certamente stanziale ma numericamente non significativa, e pertanto non compresa in questa analisi.

Per allargarsi, il nucleo storico delle 14 famiglie deve attendere un secolo, quando altre due entità familiari (la prima nel 1703, la seconda nel 1734) fanno il loro ingresso stabile nell'anagrafe locale. A partire dal 1788, gli ulteriori nuovi entranti (14) si succedono con una certa continuità fino alla fine dei nuovi arrivi fra le Top 30, nel 191421.

Base comparativa

Allo scopo di rendere il più possibile oggettiva l'analisi statistica, e soprattutto di determinare il grado di endemismo dell'onomastica locale, si rende necessario il confronto con una base comparativa più ampia, sia a livello regionale che nazionale. A tale scopo sono stati utilizzati gli elenchi telefonici nazionali Telecom, assumendo gli abbonati al servizio come campione rappresentativo dell'intera popolazione italiana. A fronte dei numerosi e cospicui vantaggi di questa scelta (dimensione del campione, rapidità di accesso, disponibilità su supporto informatico, basso costo) sta un'unica riserva “tecnica”, e cioè la non perfettamente omogenea e uniforme densità/distribuzione degli abbonati sul territorio nazionale. Obiezione – come si può ben intendere – forse significativa 30 anni fa, oggi certamente trascurabile.

La popolazione del Friuli V.G. (poco meno di 1.200.000 abitanti) rappresenta circa il 2% del totale nazionale. A sua volta, il Friuli propriamente detto (le province di Udine, Pordenone e parte della provincia di Gorizia) supera di poco l’1.5% del totale nazionale. È quest’ultimo il “numero magico” per una prima (non l’unica, per carità!) verifica del grado di “friulanità”: lo scostamento – soprattutto in eccesso – da questo indicatore della frequenza del cognome rilevata in loco è un importante segnale rivelatore lungo il nostro percorso esplorativo.

Due esempi, a chiarire meglio di ogni spiegazione teorica.

In tutt’Italia risultano 25 Tamussin abbonati al servizio Telecom. Di questi, 16 (65% del totale) sono in Friuli, di cui 10 (42% del totale) a Forni Avoltri, di cui 9 (38 % del totale) a Collina (e basta di cui!). In altre parole, Collina (abitanti meno di 100, cioè lo 0.00017% della popolazione italiana) ospita il 38 % di tutti i Tamussin d’Italia. Quand’anche non sapessimo (come invece sappiamo, ma non è questo l’importante) che anche gli altri 16 Tamussin d’Italia sono di Collina o discendono da Collinotti, anche il solo 42% dei Tamussin in Friuli (42% contro 1.5%!) metterebbe in moto i nostri neuroni.

Parimenti, in Italia sono presenti negli elenchi Telecom 404 Del Regno. Di questi, 2 (0.5%) in Friuli ( Forni Avoltri), e oltre 330 (82%) in Campania. Quand’anche non sapessimo (come invece sappiamo) che il cognome Del Regno non è originario di Collina, ma è bensì presente qui da quasi 90 anni proveniente da Fisciano (SA), i nostri operosi neuroni sarebbero nuovamente in allarme.

Uno sguardo altrove

La dinamica anagrafica e demografica di Collina ha naturalmente portato a una evoluzione del quadro compositivo e della distribuzione della popolazione statistica, senza tuttavia alterarne significativamente i parametri essenziali. Una distribuzione, come si intuisce dagli elementi sin qui citati, abbastanza allargata e senza punte di particolare intensità fin dalle origini documentali della base statistica: agli inizi del 1600, ricordiamo, vi sono ben 15 cognomi stanziali, e il cognome più frequente (Barbolan) ha un'incidenza inferiore al 15% sul totale dei 400 anni.

Già questo dato in sé rappresenta un elemento, se non singolare, per lo meno caratteristico rispetto a altre realtà contemporanee analizzate altrove. Sarebbe interessante un confronto con altre realtà in Carnia: non disponendone (com’è periferica Milano…), per ora accontentiamoci.

Una analoga indagine demografica, condotta in un comune nell’entroterra del Levante ligure22, nello stesso arco temporale e su una popolazione quantitativamente paragonabile a quella di Collina, evidenzia distribuzioni onomastiche e livelli di omonimia completamente differenti, sia per ampiezza che per intensità.

Nel 1639, nella comunità di Tribogna (in val Fontanabuona, nell'Appennino Ligure), la frazione di Cassanesi conta 83 abitanti ripartiti in 18 nuclei familiari: di questi, 17 portano lo stesso cognome. Nel 1762, lo stesso cognome identifica 15 nuclei su un totale di 19.

E ancora: nel 1632, nella frazione di Aveno (193 abitanti, 43 nuclei) il cognome dominante rappresenta oltre il 58% del totale (25 su 43): la percentuale sale quasi al 78% nel 1762 (38 famiglie omonime su un totale di 49). Cifre evidentemente lontanissime da quelle rilevate a Collina, allora come oggi.

Nella loro diversità, tuttavia, i parametri statistici delle due comunità nel tempo palesano realtà con molte analogie di fondo. In entrambi i casi è infatti evidente che questi dati grezzi sottendono fenomeni socioeconomici di grande rilevanza nel microcosmo locale. Tanto la nostra comunità carnica che quelle liguri menzionate (l’una e le altre alle prese con analoghi problemi di disponibilità e fruibilità del territorio) fanno dell'endogamia un caposaldo a salvaguardia della microproprietà edilizia e soprattutto fondiaria, tendendo a costituire, sia pure in diversa misura, comunità quasi monofamiliari o comunque oligofamiliari e relativamente chiuse, con ricambio quasi nullo23.

Come ben si vedrà più avanti, non sono i matrimoni “aperti” a mancare, tuttavia l'avvento stabile e stanziale nella comunità locale di nuovi capifamiglia forestieri non rappresenta certo la regola; e ciò anche a prescindere dall’universale luogo comune (peraltro frequentemente smentito anche nella nostra statistica) che vorrebbe la moglie al seguito del marito nella casa e nella famiglia di quest'ultimo, in paese o altrove, e non viceversa24.

Gli ostacoli reali ai nuovi arrivi non sono tuttavia nelle sole consuetudini o, meglio, frequentemente sono proprio queste ultime a fondarsi su presupposti assai concreti. Per non citarne che uno, il diritto di voto nella vicinia (che di fatto formalizza l'appartenenza a pieno titolo alla comunità) viene normalmente trasmesso per via ereditaria, e altrimenti acquisito solo per censo e dietro contribuzione diretta. E infatti i nuovi entranti sono non di rado – e almeno per un certo periodo storico – certamente benestanti. Da qui l'elevato grado di collimazione dell'anagrafe che, sia pure con modalità diverse a Collina e in Fontanabuona, qui come là insiste per un lungo periodo sugli stessi cognomi, praticamente senza alcun ricambio o integrazione.

È tuttavia anche da considerare che l'inizio del nostro periodo di osservazione coincide e si sovrappone al processo di formazione della struttura onomastica moderna (nome + cognome), e si colloca quindi in un periodo di relativa instabilità e aleatorietà nella definizione del cognome stesso. Instabilità destinata a durare in alcuni casi anche due secoli (probabilmente fino alla fine del dominio della Serenissima, e al sopravvento dell'amministrazione e della meno estemporanea burocrazia francese). Una sorta di anagrafe casalinga, insomma, con la commistione e compresenza di varianti (anche 10 per uno stesso cognome) evidentemente secondo arbitrio e inclinazione del curato, il quale può indifferentemente privilegiare latino, friulano o italiano da un lato, e soprannomi, patronimici o toponimi dall'altro.

Paradigmatica (e anche molto bella), a questo proposito, è la genesi del cognome Lenardini (da de Çuéto a della Zotta, a a Clauda, al definitivo Lenardin/Lenardini), come si ritrova nella parte descrittiva relativa ai cognomi.

Per ritornare alle rilevanti differenze fra il caso ligure e il nostro, non è inverosimile che all'origine dei diversi livelli di omonimia riscontrati vi siano, tout-court, stadi diversi (più o meno avanzati) del processo di formazione del cognome. Tuttavia, una volta di più, una approfondita analisi di questi aspetti dell'onomastica collinotta è al di là dei nostri obiettivi (oltre a essere, con tutta probabilità, anche ben oltre le nostre possibilità).

Nel dettaglio analitico e descrittivo dei 30 cognomi ci limiteremo dunque ad accompagnare le note statistiche con qualche breve cenno sul contesto socio-familiare e – in particolare per l'onomastica endemica o perlomeno autoctona – con qualche cenno sulle origini.

QUADRO ANALITICO DELLE FAMIGLIE

I 30 cognomi analizzati in dettaglio qui di seguito sono elencati e descritti in ordine alfabetico nella già citata tab. A.

Nella trattazione, di seguito a ciascun cognome sono riportati in parentesi gli anni di prima-ultima presenza in anagrafe, il numero totale di presenze in anagrafe, la corrispondente percentuale sul totale delle presenze (frequenza), e infine il numero totale di nuclei familiari ricostruiti, ovviamente sempre relativi al cognome stesso.

A esempio

11. DI CORONA (1603-1926, 196, 3.5%, 23)

  • fa la prima comparsa in anagrafe nel 1603, l’ultima nel 1926
  • presenta 196 records (menzioni) nella banca dati anagrafica
  • i 196 records corrispondono al 3.5% (frequenza) del totale
  • ne sono stati ricostruiti 23 nuclei familiari

Nel testo sono inoltre indicate le case/casate con cui il nome è od è stato in relazione: il nome di ciascuna casa/casata è a sua volta associato a un numero identificativo, secondo lo schema descritto nell’omonimo capitolo.

Il significato dei termini ingresso, uscita, presenza, e altri qui utilizzati va sempre inteso in senso puramente anagrafico.

In particolare, l’espressione “tuttora presente” riferita al cognome sta a significare la presenza attuale in villa di una persona fisica suscettibile di variazione anagrafica, quale che sia, o comunque una presenza formale del cognome stesso attraverso la proprietà edilizia o fondiaria. Di casi particolari degni di nota sarà fatta specifica menzione.

Varianti a parte (praticamente ogni cognome ne registra più d’una) in anagrafe i cognomi sono tutti identificabili in maniera non equivoca, con la curiosa e già citata eccezione di Lenardini. In altre parole, i Tamussin sono e restano sempre tali, e non si confondono mai con i Mazzocoli o i Toch od altro. Questo principio vale per tutti (sempre con l’eccezione già menzionata di Lenardini, anche questa comunque risolta in maniera inequivocabile), indistintamente, i cognomi considerati.

Per completezza va pur detto che, al proposito, qualche perplessità può invece sorgere quando si considerino altri documenti contemporanei o antecedenti gli inizi dell’anagrafe. In particolare, in un elenco dei crediti della chiesa di san Michele nei confronti dei villici si trovano un paio di casi con doppio “attributo/cognome”: si legge infatti di un “michiel di tamer della cuetta” (sic, 1595), nonché di un altro “michiel di sopra di tamer” (1601). Speriamo che almeno non si tratti sempre dello stesso Michiel, che a questo punto diventerebbe della cuetta di sopra di tamer; davvero un po' troppo!.

Non credo tuttavia che questi (rari) casi inficino in alcun modo i criteri di univocità che caratterizzano i 400 anni dell’anagrafe: nel caso citato di Michiel, siamo nel 1595-1600, ancora nel pieno del processo di formazione dell’onomastica anagrafica moderna, tant’è che i tre attributi/cognomi menzionati si identificano chiaramente come microtoponimi (di tamer e di sopra) o soprannomi (della cuetta). Insomma, il “libro mastro” dei crediti bada alla sostanza, a quantificare il debito e identificare il debitore, ad usum curati. Le regole, le distinzioni formali, i criteri di univocità necessari e richiesti dall’anagrafe, verranno poi.

Il tema dei cognomi, come pure quello successivo dei nomi delle case/casate (forse il secondo in misura ancora maggiore), è anche fonte di qualche imbarazzo, al limite del disagio. Non certo per gli aspetti numerici o statistici, ché su questo terreno (una volta definite le premesse, beninteso) mi sento di giocare quasi in casa. Tutt’altro.

Mi riferisco alla opportunità (necessità?) di fornire qui, se non una analisi esauriente ed esaustiva, almeno una traccia sulla possibile origine dei principali cognomi di Collina, compito cui non sono normalmente deputati i dilettanti quale chi scrive. Fare il mestiere d’altri è già cosa poco simpatica in generale, e qui più che altrove foriera di brutte figure e pessimi giudizi.

In realtà, su questo stesso soggetto non mancano i precedenti di “dilettanti allo sbaraglio”, ma questo, più che portare conforto, rappresenta semmai un’aggravante e un ulteriore motivo di preoccupazione, e allora…

E allora prometto di proporre come farina del mio sacco semivuoto solo il minimo indispensabile, ovvero gli endemismi autoctoni di cui nessuno si occupa nel dettaglio (i nomi di “Collina Collina”, insomma, che non è poi poca cosa…), lasciando il resto a chi più conosce e sa25.

Per parte mia, faccio sin d’ora ammenda di eventuali sventatezze e corbellerie, prima ai lettori “normali”, e poi agli “esperti” che avranno la bontà (o la cattiveria) di lanciare un’occhiata a queste righe…

Tiremm innanz!, come disse Amatore Sciesa in puro dialetto milanese (ma lo stavano conducendo al patibolo…).

I Cognomi

1. AGOSTINIS (1821-1998, 160, 2.9%, 23)

Di trasparente origine patronimica26, è cognome ubiquitario in Italia nelle varianti Agostini, De Agostini, D'Agostino etc.. AGOSTINIS ne rappresenta la variante tipica friulana (131 presenze in Friuli su un totale di Italia), abbastanza diffusa in tutta la regione e probabilmente proprio di origine carnica: a tutt'oggi, la sua frequenza nei comuni di Prato Carnico (21) e Zuglio (17) è particolarmente rilevante.

1911. Famiglia Agostinis Pirucèlo
1911. Famiglia Agostinis Pirucèlo

Il cognome è stabilmente presente a Collina da circa 180 anni, proveniente da Forni Avoltri e da Frassenetto: la tradizione di famiglia – peraltro in accordo con la statistica citata sopra – ne colloca tuttavia l'origine primaria in Cjanâl, con ciò a Collina intendendo la Pesarina o Canale di san Canciano (Prato Carnico).
La prima menzione in anagrafe risale al 180127 (Apollonia di Agostino, morta sedicenne), ma è assai dubbio che all'epoca la famiglia fosse residente a Collina: questa registrazione anagrafica è in effetti di vent'anni anteriore alla comparsa stabile. Nel 1821 e nel 1856 si insediano a Collina due diversi Agostinis, Giuseppe (1790-1849) e Pietro (1826-1903). Entrambi risultano figli di un Agostino da FA: tuttavia, la considerevole differenza di età e la diversa provenienza (Giuseppe proviene da Forni Avoltri, Pietro da Frassenetto) fa escludere la parentela stretta.
I due immigrati danno origine ai distinti rami degli Agostinis tuttora presenti nelle rispettive case FÂRI (120) e PIRUCÈLO (110), entrambe a CP. Giuseppe, che subentra nella casa già denominata Fâri, è fabbro a sua volta, accompagnato anche in anagrafe dalla nota “vulgo Ferro”. Altre case/casate legate alla famiglia sono VIDÀRIOS (101), ‘SECÀRT (111), FUSÉT (134, 242) e TÒCH (206).

2. ANGELI (1831-1956, 22, 0.4%, 4)

È cognome abbastanza comune (3978 presenze sul territorio nazionale), con un'area di diffusione prevalente nel centro-nord. La presenza in Friuli (234)28 non risulta statisticamente significativa, mentre nell'anagrafe di Collina è marginale.
Anagraficamente, la comparsa stabile a Collina risale al 1887 (Giovanni Battista di Niccolò, cg. Caterina Mazzocoli fu Daniele). Probabilmente la famiglia è già presente intorno al 1860, dopo il matrimonio di Niccolò di GioBatta da Cesclàns (padre del Giovanni Battista di cui sopra) con Caterina di Corona: tuttavia la presenza stabile a quel tempo non è documentata.
Scomparso il cognome da Collina nel 1956 dopo due sole generazioni, la famiglia ha dato nome alla casa/casata di ĞUANÀT (122).

3. BARBOLAN (1594-1999, 824, 14.9%, 104)

Tuttora largamente presente a Collina, è in assoluto il primo nome che si incontra in anagrafe (Antonio di Leonardo, n. 1594), nonché il più frequente. Si tratta di un endemismo, con tutta probabilità autoctono: su un totale di 16 presenze in Italia, 5 sono a Collina e i restanti 11 sono tutti emigrati o discendenti di emigrati.
L'esistenza in loco di più nuclei familiari alla fine del ‘500 lascia supporre una presenza già allora consolidata nel tempo e databile ad almeno tre generazioni addietro, ragion per cui la famiglia Barbolan può essere annoverata, al pari di altre sei o sette, fra le “fondatrici” (od almeno primordiali) di Collina, come già descritto nel capitolo relativo alle origini storiche della villa.
L'origine del nome è, manco a dirlo, incerta. L'antico, latineggiante BARBULA/BARBULE (per Barbulae?) dell'anagrafe seicentesca farebbe pensare, più che alla radice barba/e/o (zio) avanzata da alcuni (che in un latino di ritorno avrebbe se mai dato luogo a un Barbulus maschile peraltro mai rilevato), a un diminutivo/vezzeggiativo del femminile latino barba = barba, quindi il diminutivo barbula = barbetta da cui BARBULANUS, a sua volta evolutosi nel già frequente BARBOLANO, e quindi nel definitivo BARBOLAN. È curioso notare come la forma veneto-friulana Barbolan sia infine prevalsa (è la sola, stabile forma moderna) sulla versione volgare/italiana Barbolano, a essa contemporanea se non addirittura anteriore.
Si è già fatto cenno alla cospicua presenza dei Barbolan sin dalle origini dell'anagrafe collinotta: agli albori del 1600 si contano ben cinque distinti nuclei familiari. Di questi, due hanno propaggini che, variamente ramificate, giungono ai giorni nostri. TITÀI (106) e CAMINÒN (116) a CP, TÛŠ (232), BEPO DI CAMINÒN (218) e SPÉRI (248) a CM sono le casate tuttora presenti. I Barbolan sono presenti anche nell’ALBERGO COGLIÀNS (216).

4. BETTAN (1608-1719, 19, 0.3%, 5)

È presente a Collina dalle origini dell'anagrafe (Ursula, m. 1608) con una sola famiglia, e è anche fra i primi cognomi a scomparire dalla villa, già agli inizi del 1700 (p. filia Joannis Bapt.e, m. 1719; la morte del padre Joannis Baptista non è registrata a Collina).
La statistica nazionale non è d'aiuto, contando solo 3 BETTAN (nessuno in Friuli) e 35 BETTANELLO, probabile diminutivo di origine veneta, e infatti particolarmente concentrato nel padovano.
Probabilmente, il cognome ha avuto origine in loco, come derivato dell'omonima casata (nome a sua volta nato da un diminutivo/relativo di una irrintracciabile Elisabetta); a quasi 300 anni dalla scomparsa anagrafica, il cognome sopravvive ancora oggi a Collina nella casa/casata originaria di BETÀN (246), dal 1720 circa associata univocamente a un ramo della famiglia Tamussin, a CM.

5. CANEVA (1601-1996, 350, 6.3%, 42)

Quinto in ordine di frequenza, CANEVA (l’accento è sulla prima a!) fa anch'esso parte del nocciolo originario dell'anagrafe collinotta (Sabbata Di Caniva, m. 1601), dove è tuttora presente.
La definitiva forma odierna è preceduta da numerose varianti, peraltro tutte assai collimate: DI KANEVA, DE CANEVA, DE CANIPA etc. Al pari degli altri nomi di derivazione cinque/seicentesca (Barbolan, Toch, Tamussin etc.) è sì di origine locale ma, al contrario della maggioranza di questi, non è un endemismo di Collina. Cognome non frequentissimo sul territorio nazionale (695), è sì presente anche al di fuori dell’area carnico-friulana, ma in aree distinte e non contigue: nel basso Piemonte/Liguria, in provincia di Como e di Vicenza.
La presenza in Friuli non è particolarmente significativa sotto il profilo statistico (29), nonostante vi si trovino ben due località con questo nome (Caneva di Sacile e Caneva di Tolmezzo): al contrario, abbastanza curiosamente, il caso (?) vuole che in nessuna delle due località predette si trovino oggi abitanti con questo nome.
Per entrambe le località menzionate, l’origine del toponimo viene fatta risalire alla medesima radice (il lat. canaba = cantina29, Fr40, nell’accezione di deposito di viveri e merce). Sulla scorta del largo consenso intorno a questa interpretazione, appare dunque logico e legittimo estenderla dalla toponomastica all’onomastica, e in particolare al nostro caso collinotto.
Tuttavia, in un soprassalto di fantasia campanilistica, per l'origine del nome collinotto si può proporre un’alternativa perlomeno suggestiva: cannapa o cannabia = canapa (collinotto cjanàipo Sc43), pianta un tempo comune a Collina dove se ne praticava l'intero ciclo di lavorazione, dalla coltivazione alla gramolatura, alla tessitura30. A tale proposito, una delle forme più antiche e frequenti riscontrate in anagrafe (de Canipa) sembra proprio la consueta re-latinizzazione del più domestico de Cjanàipo.
Proprio la insistente presenza, nel processo di formazione dei cognomi di Collina, di un latino “di ritorno” dalla parlata locale mi fa propendere per la “canapa” piuttosto che per la “cantina”. Ovvero, fuori dai tecnicismi: se l’origine del latinorum “de Canipa” vergato dal curato è davvero nella parlata locale (e sarebbe strano che non lo fosse), mi sembra più verosimile individuarla in de cjanàipo che non in de cjàveno (cantina o collare che sia).
Analogamente, è possibile che anche in altre aree di diffusione il nome abbia avuto l’una (cantina) o l’altra (canapa) genesi ed evoluzione.
A tale proposito, mi sembra curioso e interessante l’accostamento a Genova, città portuale dove per evidenti ragioni la cannapa o cannabia era diffusa quanto le canabae: si pensi all'ampio uso della canapa in marineria, e all'altrettanto larga presenza di magazzini (e taverne). A Genova è ancora oggi largamente diffuso il cognome Canepa (accento sulla prima a!). In verità, lo stesso cognome Caneva è tutt'altro che infrequente a Genova, dove tuttavia viene pronunziato con l’accento sulla e, per di più chiusa (Canéva), inducendo il sospetto che l’etimologia genovese sia ancora diversa da quelle sin qui ipotizzate (cà nœuva, casa nuova).
A Collina, Caneva è storicamente associato alle case di CÔGHER (233 e 234) e (V)UÀJO (225), mentre in seguito entra in relazione anche con GLÈRIO (253). Solo in tempi relativamente recenti la casata ha esteso propaggini ad altri edifici: TITÀI (106), ÇUÉTO (119), e MICJÊL DI CÔGHER (204).

6. CARLEVARIS (1885-1975, 18, 0.3%, 3)

La comparsa è recente, del 1885, fra i matrimoni (Giovanni Luigi di Fedele da Frassenetto, cg. Marina Di Corona di Anna). A livello nazionale la pur significativa presenza in Friuli (23 presenze su un totale di 139) è paragonabile a quella del Piemonte, che ne conta oltre 80.
Trattandosi di nome importato, non mi inoltro in territorio “foresto”, potendo per di più contare su un contributo interessante e “pesante” come quello di E. De Stefani: “Quanto a Carlevaris, si trattava, in origine, di un nome dato al figlio nato nei giorni in cui si era soliti togliere la carne (levare la carne) dai pasti. Nel Trecento Carlevario è usato come nome di persona anche in Carnia …31.
Solo formalmente presente (ma non più residente) a Collina, è legato alle casate e alle case dette di CARÒNO (116, 251), CAŞNACJ (127), TINO (224), nonché FÀRIO/PÙBILE (251).

n.c. COMELEANI

Nonostante la irrilevanza statistica (n.c. = non compare fra i primi 30), una pur breve nota è doverosa in quanto cognome in anagrafe sin dalle origini (Ursula Comeleani n.1614, “filia Osualdi habitantis in Collina”).
Due sole le menzioni relative alla famiglia stanziale, che scompare immediatamente, più altre 4 inerenti a matrimoni di Comeleani “forestieri” che prendono moglie a Collina senza tuttavia prendervi residenza (sono tutti di Frassenetto, come probabilmente lo stesso stanziale). In ogni caso, l’origine del nome (quanto lontana nel tempo è impossibile a dirsi) è da ricercare nella provenienza geografica dei capostipiti (il Comelico, Cumèli in lingua), con la solita re-latinizzazione al genitivo del locale Comeleàn > Comeleanus > Comeleani.

7. DE BAIARZO (1607-1708, 51, 0.9%, 8)

Fra i primi in anagrafe (Catharinam o. Johannes, cg. Danielem Leonardini o. Sebastiani, 1607), è pure fra i primi a scomparirne (un'altra Catharina o. Johannis, m. 1708).
È questa, DE BAIARZO, la forma più frequente dei vari DE BEARZO, DI BAIARZO, DE BAIARZIS con i quali la famiglia è indifferentemente registrata in anagrafe. Si tratta dei precursori (naturalmente etimologici, e non certo anagrafici) degli attuali Bearzi e varianti (Bearzot, Bearzotti etc.), ben presenti in Carnia e Friuli32 come pure, probabilmente per migrazione dal Friuli stesso, a Trieste e nel Veneto orientale.
Come per tutte le famiglie “originali” di Collina, non è difficile ipotizzare una autonoma genesi locale del cognome. Anche De Baiarzo rappresenta infatti una voltura “colta” in latino/italiano del locale dal Bajarç, termine che in lingua indica l’“appezzamento di terra molto concimato per la coltura dei cavoli” (Sc15).
Comprensibilmente, a distanza di quasi tre secoli dalla scomparsa da Collina, non risulta possibile alcuna connessione con case/casate censite in questo lavoro.

8. DE PRATO (1900-1995, 32, 0.6%, 4)

Compare per la prima volta in anagrafe a Collina nel 1900 con Biagio di Giacomo (detto Blóuš, 1875-1955), proveniente da Cazzaso, cg. Camilla Toch di Mattia.
Il portatore del nuovo cognome (il penultimo fra i 30 considerati a giungere a Collina), è probabilmente già da qualche anno pastore/casaro di una delle malghe del territorio di Collina: con il matrimonio stabilisce definitivamente la residenza in loco.
Di origine manifesta, DE PRATO è la variante tipica carnico-friulana (oltre un centinaio le presenze in regione, su un totale nazionale di 136) del diffusissimo Prati. Il centro di irraggiamento sembrerebbe essere la val Tagliamento (Socchieve, Ampezzo, i Forni Savorgnani), con propaggini significative a Tolmezzo e a Ovaro, mentre la presenza in alto Gorto appare abbastanza episodica e non sistematica.
È tuttora presente a Collina, dove è o è stato legato alle case/casate FÂRI (120), PLÔNER (238) e CUMÌLE (250).

9. DEL FABBRO (1608-1907, 40, 0.7%, 4)

È cognome ubiquitario, diffusissimo anche a livello internazionale.
Naturalmente originato dall'omonima attività, ha equivalenti e varianti in moltissimi paesi, tutte largamente diffuse nelle rispettive lingue: dall'italiano più comune Fabbri, al francese Favre, al tedesco Schmidt, al quasi paradigmatico inglese Smith, e così via33. In Friuli sono particolarmente presenti Fabris, Fabbro e naturalmente DEL FABBRO: di quest'ultimo, su un totale nazionale di 601, ben 367 sono infatti in Friuli (di cui 37 nelle sole frazioni di Forni e Avoltri).
Sebbene dati dagli inizi dell'anagrafe (Sabbata di Giacomo, n. 1608), a differenza di altri suoi contemporanei la presenza a Collina di questo cognome non è con certezza originata in loco: al contrario, si tratta di presenza né stabile, né frequente. Infatti, la famiglia presente alle origini si estingue già nella seconda metà del '600; lo stesso cognome ricompare poi nel 1820 (naturalmente fra i matrimoni, e altrettanto naturalmente proveniente da Forni Avoltri), per scomparire definitivamente con la generazione immediatamente successiva (Maria di Giacomo, m. 1907).
L'autonoma origine locale del cognome – quantunque improbabile – non è tuttavia da escludere in linea di principio (prima del definitivo Del Fabbro si trovano A FABRIS e A FABRO, anch'esse palesi traduzioni del locale dal Fâri): tuttavia, non risulta possibile mettere documentalmente in relazione la locale famiglia Del Fabbro con l'omonima casa/casata FÂRI a CP.
Il cognome è invece certamente connesso alla casa/casata MOAR/MUÂRO (240), oggi scomparsa, edificio compreso.

10. DEL REGNO (1914-1980, 20, 0.4%, 4)

Compare per la prima volta nel 1914 fra i nati (Nicola di Antonio). Antonio Del Regno, padre del neonato, proviene da Fisciano (SA), ove il cognome è peraltro largamente diffuso (su Italia, oltre 330 sono concentrati in Campania). Se l'etimologia è trasparente, non ci è tuttavia nota l'origine diretta.
Tuttora presente a Collina, si identifica sin dalla comparsa con la casa/casata de PÀURO (207), con attuali ramificazioni nelle case di TÛŠ (232) e CÓGU (210), tutte a CM.

11. DI CORONA (1603-1926, 196, 3.5%, 23)

Sebbene largamente diffuso a livello nazionale nelle sue molteplici forme (sono oltre 4000 le presenze della sola versione “base” CORONA, ma le varianti sono numerosissime: curiosamente, oggi è del tutto assente proprio il nostro DI CORONA), il cognome a Collina è di inequivocabile origine autoctona.
Presente sin dai primordi dell'anagrafe (Leonardus cg. Luciam Danielis, 1603) Di Corona trova origine a CP, nella cosiddetta Caròno di Plaço (oggi nota come Caròno di Caminòn), luogo sul quale sorgeva la casa abitata dalla famiglia. Nella parlata locale, caròno indica i limiti orografici dell'impluvio dei corsi d'acqua, nella fattispecie del rio Cueštos o rio Collinetta; era detta di Plaço in quanto in prossimità della piazzetta della villa34.
Il cognome scompare dall'anagrafe nel 1926 (Marina, fra i morti di quell'anno), non senza aver lasciato di sé tracce significative: dalla casa originaria di CARÒNO (116) la famiglia ha infatti allargato la denominazione anche alla casa già di UNTO (114).

12. DI QUAL (1703-1974, 59, 1.1%, 7)

È il primo a comparire stabilmente in anagrafe dopo il nucleo dei cognomi originali. La prima menzione è del 1703 (Giovanni Battista fu Mattia da Valpicetto, cg. Sabbata Barbolani fu Benedetto) per una presenza che si estende, in due riprese, alla seconda metà del 1900.
Il cognome è molto probabilmente di origine carnica. Ancora oggi è concentrato nel comune di Rigolato (su Italia, Friuli e 17 fra Rigolato, Comeglians e Ovaro): anche il secondo Di Qual giunto a Collina dopo GioBatta da Valpicetto proviene da quest'area (da Stalis).
È legata alle casate/case de FUSÈTO (242) e da PIO (252), nonché – nel secondo dopoguerra – a quella AL LEONE (222), avendo la famiglia gestito per un certo periodo l’omonima locanda con annesso gioco di bocce.
È tuttora presente a Collina.

13. DI SOPRA (1603-1986, 396, 7.2%, 41)

Nome “pesante” a Collina, e non solo numericamente.
Fra i primi a comparire (Joannes Antonius De Sopra f. Baptistae, n. 1603, ma anche Margaretta Di Sora, m. 1603) contribuisce con larghezza a popolare i primi secoli dell’anagrafe locale. Sono infatti almeno 3 i nuclei familiari presenti già all’inizio del 1600, con una ampia gamma di varianti fra cui DE SUPRA (la più frequente), DE SORA e il bellissimo e non raro SUPERIORIS, grazie al solito curato. È da sottolineare la totale assenza a Collina dell’analogo e opposto DI SOTTO, che invece già si incontra a Sigilletto.
Di Sopra è ancora oggi presente a Collina, sebbene non più come diretta discendenza dei nuclei originali, qui estintisi nel 1935. L’attuale presenza deriva da un nuovo arrivo da Givigliana nel 1911 (in realtà quest’ultimo era stato a sua volta preceduto da un altro arrivo – da Vuezzis – nel 1755, poi rapidamente estintosi a sua volta).
La forma Di Sopra che conosciamo oggi, e che trattiamo qui, come tale è certamente di matrice regionale ( Friuli, su un totale nazionale di 40), con una discreta presenza nel capoluogo. Tuttavia, le varianti in senso più ampio (cioè quelle aventi un riferimento topografico) popolano le anagrafi di mezzo mondo, o perlomeno dell’arco alpino nord orientale: Soravia, Sopracase, Unterthaler, Innerhofer etc. Un Di Sopra emigrato a Lubiana diviene colà egli stesso, per maggiore comodità e convenienza, Oberhauser (è l’esecutore testamentario di Mattio Di Tamer che avvierà l’istituzione della Mansioneria di Collina nel 1729).
Comunque, nonostante tutte le parentele, analogie e similitudini vicine e lontane, questo cognome Di Sopra nasce qui, a Collina, e da origine chiara e trasparente… fino a un certo punto. Sopra, certo: ma sopra che?
In origine, tutti i Di Sopra sono residenti a CP, nelle attuali case Fâri, Cjanóuf/Chini e Adól, e forse anche nella zona di Miéç. Le case Fâri e Miéç si trovano nella parte alta dell’abitato, e già di per sé questo giustificherebbe l’origine del nome; le altre due case (dal 1700 i centri di irraggiamento del nome Di Sopra) si trovano invece nella parte bassa, ben al di sotto dell’attuale livello della strada principale. Ben altra era la posizione di queste due ultime case rispetto al precedente percorso della strada (l’attuale tracciato ha cent’anni), che passava a sud e più in basso, lasciando giustappunto anche questi due edifici “di sopra”. Si tratta naturalmente di un processo indiziario, ma è possibile che i Di Sopra fossero proprio “chëi di sôro (la strado)”, “quelli di sopra (la strada)”, poi anche elegantemente nobilitati a Superioris (si noti la finezza del genitivo latino del curato).
Oltre a CJANÓUF (103), FÂRI (120) e ADÓL (105), risultano legate a Di Sopra pure le case/casate di GLÈRIO (253) e CHECHÈ (104), quest’ultima riferita all’ultimo ramo giunto a Collina e tuttora presente.
Da notare, abbastanza curiosamente, come tutte le case del lungo elenco si trovino a CP. La stessa GLÈRIO appartiene solo formalmente a CM, in quanto si trova al di là del rio Cueštos: in realtà per essa il centro di gravità era CP e non CM.

14. FALESCHINI (1822-1907, 12, 0.2%, 2)

Nome d'importazione, FALESCHINI (in anagrafe anche FALESCHINO e FALASCHINO) rimane a Collina il tempo di due sole generazioni. Dopo l'ingresso nel 1822 (ovviamente fra i matrimoni: Pietro di Domenico da Giviana, cg. Maria Tamossin fu Michele), ne esce meno di un secolo più tardi (Joannes fs. Petri, m. 1907) totalizzando un numero di presenze necessariamente marginale (è 30° e ultimo fra quelli presi in considerazione).
Sebbene giunto a Collina da Givigliana, è di origine più “bassaiola”, come testimonia la diffusione odierna: su 193 presenti nel territorio nazionale, 123 sono in Friuli, con interessanti concentrazioni a Moggio (36) e a Pontebba (16)35.
A Collina ne rimane memoria nella case/casate di FANÌN (222, cui Faleschini stesso ha probabilmente dato origine) e MURÌT (242 e 255), a CM.

15. GAIER (1788-1999, 303, 5.5%, 38)

Comparso “solo” nel 1788 , ha rapidamente acquisito una posizione di tutto rilievo in anagrafe.
A proposito dell’ingresso a Collina, non tutto appare trasparente. Anzitutto il matrimonio, appunto nel 1788: nessuno dei due contraenti è di Collina, e già questa non è cosa di tutti i giorni. Lui è Giacomo, probabilmente fabbro, senza patronimico ma accompagnato dalla nota “sub plebe S. Stefani de Irpolesem” (Santo Stefano di Cadore) e più tardi aggettivato di “de Comelico” e “Tirolensis”; lei è Lucia Bettina fu Francesco, da Costalissoio. Compaesani dunque, o quasi, che vengono a sposarsi a Collina per poi "scomparire" nei tre anni successivi. Sì, perché la coppia stessa non risulta censita nel corso della visita pastorale del 1790 (risulterà invece in quella del 1820).

1941. Famiglia Giuseppe Gaier Adól et al.
1941. Famiglia Giuseppe Gaier Adól et al.

Non basta. Il primo figlio di Giacomo (non registrato a Collina, ma certamente figlio suo) risulta nato nel 1785, tre anni prima del matrimonio non si sa perché celebrato quassù. Un secondo matrimonio, quello con Lucia, per Giacomo vedovo con prole (un secondo figlio gli nasce un anno dopo il primo, ma sempre fuori Collina)? Una coppia “pendolare” dal Comelico? Oppure, ancora, una coppia inizialmente di fatto e solo successivamente regolarizzata e integrata a pieno titolo? Non sappiamo, ma il seguito dei Gaier, fino ai giorni nostri, è comunque chiaro e… abbondante.
L’aggettivo “Tirolensis” associato al capostipite, come pure lo stesso nome tedeschizzante Gaier, parrebbe indicare un’origine germanica: alcuni suggeriscono una sincope da Gai(l)er, ovvero “della valle del Gail” (la valle che, percorsa dall’omonimo torrente, corre parallela alla catena carnica principale, al di là dello spartiacque).
L’analisi allargata, come ben si può intendere, in questo caso non è di grande aiuto. Il cognome è certo molto diffuso in Friuli rispetto al resto del paese (44 presenze su 63 totali). Tuttavia, individuare in Collina (7 presenze) la sua unica, o anche solo la principale fonte di irraggiamento mi sembra comunque, sebbene non del tutto irragionevole, una forzatura.
Le case/casate legate a Gaier sono numerosissime: a CP CHINI (103, 133), ADÓL (105), PIRISCÌN (112), FLÈCH (113), FÂRI (120); a CM dal PUÌNT (201), ancora FLÈCH (202), BIANCHI/MÒDIE (203), PÀURO (207), CÓGU (210), FANÌN 222), TINO/TRINTÌNO (224), MEN DI TÒNI (241), BLAŞÙT (245).
Temo che me ne sfugga ancora qualcuna…

16. GERIN (1861-1992, 54, 1%, 4)

La prima comparsa risale al 1618 (Joannem Girini, cg. Mariam De Supra), sebbene non sia questa a dare l’avvio a una presenza stabile e continuativa.
Quello dei Gerin con l’anagrafe di Collina è un rapporto complesso e assai articolato, caratterizzato da ripetuti andirivieni da e per Sigilletto, appunto sede di una cospicua presenza di Gerin, di nuclei e rami familiari diversi. Una certa continuità si ha solo a partire dal 1861, con il matrimonio di Giovanni di Valentino con Lucia Gaier di Antonio.
La forma giuliano/friulana Gerin (oltre il 90% del totale di Italia è nelle province di Trieste, Gorizia e Udine; assente a Pordenone) è forse di origine autonoma rispetto all’apparentemente simile Gerini (ma anche Gerina/o), al contrario assai diffuso altrove. Curiosa comunque la distribuzione dei regione, con una fortissima concentrazione a Trieste (49) e soprattutto nell’Isontino (72), a cui si affianca l’isola carnica di Forni Avoltri (17, di cui Sigilletto e Frassenetto).
Ancor oggi presente in villa, ha o ha avuto relazione con le case di CODÂR (102) a CP, ÀNZULE (213), MARC (219) e BLŠ (235) a CM.

17. GEROMETTA (1834-1993, 83, 1.5%, 9)

Natale Gerometta da Asio giunge a Collina nella prima metà del 1800 per esercitare la professione di pastore dell’ormènt, il pascolo collettivo delle vacche rimaste in villa nel periodo della monticazione. L’ingresso ufficiale in anagrafe è del 1834 (Natale di Natale, appunto, cg. Maria Toch fu Mattia).
Il centro di irraggiamento dei 142 Gerometta nazionali è certamente proprio l’Arzino e il Pordenonese, da Vito d’Asio a Clauzetto, a Spilimbergo e Sesto al Reghena. Al di fuori di quest’area i nuclei di questo cognome, pur numerosi, sono di scarsa consistenza statistica.
Tuttora presente a Collina, è legato alle varie case NADALÌN (218, 247), GJÀRA (227) e GLÈRIO (253).

18. GORTANA (1875-1997, 77, 1.4%, 9)

Compare stabilmente in anagrafe in tempi recenti (Antonio di Giovanni da Givigliana, cg. Marianna Toch fu Filippo, 1875) dopo numerose presenze estemporanee risalenti ai primordi dell’anagrafe (nel 1626 c’è un matrimonio di Jacobum Guartan con Mariam De Supra).
A proposito del già citato Antonio di Giovanni da Givigliana, c’è da dire che nel 1875 non è alla sua prima esperienza matrimoniale a Collina, essendo già convolato a nozze nel 1863 con Maria Di Corona fu Pietro, morta nello stesso anno del secondo matrimonio (1875). La brevissima vedovanza maschile (pochi mesi) non fa meraviglia, trattandosi spesso di porre improrogabile rimedio a vere e proprie emergenze economiche e organizzative (si pensi solo ai bisogni di cura dei figli piccoli di primo letto e alle esigenze dei campi e della stalla): inoltre, molti uomini erano costretti ad assentarsi dal paese per mesi e mesi al seguito dei flussi migratori stagionali verso i paesi limitrofi, dalla Germania alla Croazia.
Solo con il matrimonio del 1875 Antonio Gortana si stabilisce a Collina (dove, nuovamente vedovo, si sposerà una terza volta nel 1890) per dare avvio alla discendenza locale tuttora presente.
L'etimologia e l'evoluzione sono trasparenti: anche a Collina in anagrafe si trovano il già citato GUARTAN (lett. Gortano, di Gorto) e GUARTONE. Evidentemente il nome ha avuto origine altrove, dove il titolare era per l'appunto individuato come quello "di Gorto". Evidentemente, i "Gortani" sono rientrati in patria (il canale di Gorto fino a Rigolato), prima di spingersi a Collina…
Connesse a Gortana sono le case di PÉÇ (121 e 122) e di LÉT (235).

19. LENARDINI (1604-1783, 106, 1.9%, 12)

Altro cognome doc, presente in anagrafe dalle origini (Sebastiano, m. 1604). Di evidente origine patronimica e, come sempre accade in questi casi, con varianti a discreta diffusione, sia regionale (Di Lenardo, Lenardon, Leonarduzzi) che non (da citare fra gli altri Leonardini, presente da Genova a Livorno). Curiosamente, fra le tante varianti risulta assente proprio la forma riportata a Collina, Lenardini. Nonostante l'origine del tutto normale – se non banale – la storia di questo nome assume nell'anagrafe di Collina aspetti perlomeno curiosi, e in certa misura rivelatori dei meccanismi che spesso hanno presieduto alla genesi dei cognomi stessi.
La famiglia Lenardini a Collina non nasce come tale, in nessuna delle varianti patronimiche citate, o anche immaginabili. Compare infatti come DELLA ZOTTA (il già citato Sebastiano, m. 1604), per tradursi quasi immediatamente nell'equivalente e letterale latino A CLAUDA (1607). Ovvero, il collinotto de Çueto (lett. “della Zoppa”) dell'uso quotidiano, già rimpannucciato nell'italiano DELLA ZOTTA, nel latino del curato o coadiutore successivo viene ulteriormente sollevato a A CLAUDA. Tutto normale, o quasi…, perché di lì a poco (anzi subito, ma curiosamente solo nei matrimoni) si incontra già la nota forma patronimica LEONARDINI.
In altre parole, le stesse persone (e non v'è alcun dubbio che si tratti degli stessi individui) sono registrate in parti diverse dell'anagrafe con cognomi diversi. Desiderio della famiglia di liberarsi del poco illustre de Çueto? Forse. Oppure un colpo di mano (davvero!) del curato, o entrambe le cose. Non sappiamo. Ciò che invece risulta certo è la notevole incidenza di Leonarde e Leonardi nella famiglia (c'era da dubitarne?) lungo tutto il suo tormentato percorso.
La famiglia scompare dall'anagrafe nel 1783 (Dominica ux. q. Josephi, m. 1783).
Case/casate originate da o appartenute alla famiglia sono ovviamente de ÇUÉTO (119) e LENÀRT/FÂRI (120).

20. MAZZOCOLI (1605-1998, 308, 5.6%, 38)

Importante cognome di origine locale, abbondantemente presente a Collina dagli inizi a oggi. La prima menzione risale agli inizi del 1600 (Agata De Mazocolo, m.1605) ma, come per altre famiglie “originali”, la contemporanea esistenza di almeno tre nuclei familiari distinti lascia supporre una presenza di lunga data sul territorio.
Da un confronto più ampio sul territorio nazionale, appare chiaro che la corretta forma locale attuale (Mazzocoli con una sola “c”: Mazzoccoli, con la doppia “c”, qui è solo il frutto di errori di trascrizione) è un endemismo di Collina. Altrove, dove viceversa abbonda la versione con doppia “c” (principalmente in Puglia e Basilicata), le rarissime presenze di Mazzocoli sono tutte derivate da trapianti da Collina o, nuovamente, da errori di trascrizione; tutto il mondo è paese!
La forma attuale (e forse definitiva, ma con quelle “c” che vanno e vengono…) si concretizza alla metà del 1700, e si stabilizza agli inizi del secolo successivo: in precedenza, in anagrafe si incontrano varianti grafiche in gran numero, da MAZZOCUL (forse la più usata) a MAZOCHULI, a MAZZOCHUL etc.
La denominazione ha origine certamente dalla parlata locale, dove ancor oggi la forma originaria sopravvive nella casa/casata di MAÇÓCOL a CP. Quanto poi al significato proprio del termine, c’è qualche spazio per la fantasia, visto che nel linguaggio odierno non è più vocabolo d’uso comune.
Secondo Pirona, mazócul è il “torsolo del granturco dopo levati i chicchi” (Pir188, s.v. coròndul), ottima coincidenza che però rimane soltanto tale. Il cognome, nella sua forma Mazochul, risale infatti almeno al 1500, quando cioè il granturco non aveva ancora raggiunto il Friuli, di fatto rendendo non plausibile questa interpretazione. A parte ciò, il più immediato (e anche probabile) collegamento è a un diminutivo/spregiativo di maçóul o maçûl = mazza di ferro (Sc167), come propone anche E. Costantini36.
Per i nostalgici amanti dell’antico, invece, si può proporre una derivazione, tanto poco probabile quanto affascinante (ma il bello è anche in questo…), dal latino maciuletum = maceratoio per la canapa (v. anche maciulentare, REW5214): a seguire, un bel matrimonio Mazzocoli/Caneva (v.) et voilà, arriviamo dritti dritti a… Jacopo Linussio!
Oltre naturalmente alle case propriamente MAÇÓCOL (117 e 217), sono legate al cognome Mazzocoli gli edifici RIÙ (125), ‘SÈF DA RIÙ (124), ŽILIO (119), ALBINO (123), a CP; inoltre, RIÈNZO (205), CARÒNO (208), LUÌNGJO (237), TÛŠ (232), ZUÂNO (217) e CASTRO (243) a CM.

21. MIGOTTI (1874-1945, 22, 0.4%, 3)

Il tempo di due sole generazioni, e poco più di settant’anni a Collina per questo cognome proveniente da Noiaretto (Giuseppe di Pietro Antonio, cg. Agata Maria Del Fabbro di Pasqua, 1874). Con la morte di Orsola di Giuseppe (1882-1945), il cognome Migotti scompare dall’anagrafe già nel 1945: in realtà, l’ultimo Migotti a scomparire è il fratello di Orsola, Giovanni Giuseppe (, 1877-1952), del quale tuttavia nei registri non è annotata la morte.
Sebbene di origine friulana, questo cognome non ha un centro di irraggiamento molto ben definito (forse fra Udine e Mereto di Tomba). Come già rilevato, giunge a Collina da Noiaretto, dove tuttora è ben presente con alcuni nuclei familiari.
MUÂR/MUÂRO (240) è l’unica casa con cui Migotti sia stato in relazione.

22. PASCOLIN (1863-1988, 62, 1.1%, 18)

Pascolin è cognome assai diffuso a Sigilletto e Frassenetto. Analogamente ad altri cognomi frequenti nei villaggi dell'immediato circondario di Collina (Gerin e Gortana per tutti), menzioni estemporanee di Pascolin fra i matrimoni si rilevano in anagrafe sin dalle origini (1638 e 1654 i primi). Come per gli altri casi citati, tuttavia, per la comparsa stabile si devono attendere più di due secoli (Leonardo Pasqualin [^sic] di GioBatta, cg. Anna De Tamer di Michele, 1863).
PASCOLIN è la forma largamente prevalente in anagrafe rispetto ad altre quali PASCULUM, PASCOLINUM e lo stesso, già citato PASQUALIN. Di origine probabilmente patronimica da Pasquale, se ne trova una interessante sottolineatura in anagrafe, nel 1654 (Pascolo Pascolinum, da F).
Case in relazione con questo cognome sono: a CP STÂLI NÓUF (107), CAŞNÀÇ (127), BALO (128), MIÉÇ (129), VALE (130); a CM GLÈRIO (253), TOCH vecchia (256).

23. PELLEGRINA (1601-1923, 33, 0.6%, 4)

Compare in anagrafe in due riprese, a distanza di due secoli l’una dall’altra. Statisticamente non molto rilevante, se non per la presenza di un nucleo familiare già alla fine del 1500 (Antonio Pelegrina, m. 1601. La presenza in anagrafe dura il tempo di due generazioni, e si chiudeintorno alla metà del 1600.
Non c’è una variante dominante fra le numerose che si incontrano fin dalle origini: PELEGRINUM, PELEGRINI, PELEGRINAM etc. si ritrovano infatti, se non in egual misura, tutte ben rappresentate, rendendo persino difficile l’attribuzione dell’aggettivo originale a persona di sesso femminile o maschile (anche se, per evidenti ragioni, è da privilegiare la seconda). Se l’origine è, infatti, abbastanza naturalmente da ricondurre a attributo di persona, altro è stabilire la natura del “pellegrinaggio”: largo alle fantasie, non ultima la possibilità di un attributo di un mendicante o questuante capitato a Collina e fermatosi colà (in anagrafe è documentato almeno un altro caso analogo).
La forma al femminile è comunque oggi abbastanza tipica del Friuli (34 presenze su 63 nazionali) e significativamente presente a Rigolato. Quest’ultima è certamente in relazione con la “ripresa” (peraltro assai breve) del cognome a Collina, intorno al 1920: sarebbe interessante verificare il percorso contrario, e cioè il ruolo di Collina come possibile centro (o, vista l’origine e la diffusione del cognome, uno dei centri) di irradiazione in Carnia.
Certamente localizzata a CP secondo quanto appare dall'anagrafe, non è stato tuttavia possibile mettere in relazione la famiglia Pellegrina con alcuna casa nota.

24. PUECHER (1734-1793, 13, 0.2%, 2)

Cognome di “bassa classifica” nell’anagrafica collinotta (29° sui 30 presi in considerazione), tuttavia non privo di caratteristiche interessanti e di una certa rilevanza nella storia della villa.
Giunto a Collina da Sappada nella prima metà del 1700 con Giovanni Battista Puecher di Giorgio (cg. Domenica Barbolan di Domenico, 1734) il cognome dura il tempo di due sole generazioni, scomparendo già 60 anni dopo. In anagrafe sono presenti solo le forme POCHER e PUECHER: tuttavia, a livello nazionale sono presenti anche alcuni POCHERO ( Rigolato) e soprattutto PUICHER (particolarmente a Sappada e in Friuli). A Collina, Giovanni Battista Puecher era conosciuto con il soprannome di Pàur (riportato anche in anagrafe), trasmesso poi alla casa e alla discendenza (da cui anche l’attuale Pàuro a CM).
Curiosamente, a Sappada, e precisamente nella borgata Puiche, c’è ancora memoria della casa del “Baur”. L’attributo certamente non è infrequente nelle aree germanofone (dal tedesco Bauer = contadino), e non v’è nesso certo fra casa Baur a Sappada e Giorgio Puecher da Sappada, detto Pàur a Collina: la curiosa serie di coincidenze(?) merita comunque una segnalazione.
PÀUR (230) è l’unica casa in relazione con questo cognome.

25. SAMASSA (1865-1982, 46, 0.8%, 3)

Compare a Collina nella seconda metà dell’800, proveniente da Forni Avoltri (Luigi fu Niccolò, cg. Marianna Sotto Corona di Giuseppe, 1865).
Sebbene la presenza in Friuli non sia trascurabile (20 su un totale di 78, ma non è significativa in Carnia), l’origine va probabilmente collocata altrove, forse nell’area contigua di Portogruaro/Concordia.
Tuttora presente, è connesso alle case TÒCH (206) e MÒDIE (203).

26. SOTTO CORONA (1609-1998, 309, 5.6%, 46)

Cognome fra i più significativi della villa, è in anagrafe senza soluzione di continuità, dalle origini (Ursula De Sub Corona, m. 1609) a oggi.
L’origine è certamente autoctona e di assoluta trasparenza, analogamente a quanto già riportato per i Di Corona (v.): rispetto a questi, la casa dei Sotto Corona si trovava e si trova ancora oggi a soli 30 metri, naturalmente più in basso. Oggi, come peraltro già in passato in anagrafe, coesistono e tendono a confondersi le due grafie SOTTO CORONA e SOTTOCORONA: quella originale è certamente la prima, che tende tuttavia a essere soppiantata dalla seconda, probabilmente per ragioni di comodità grafica.
Data la lunga presenza, le case relate a Sotto Corona sono numerose: CODÂR (102), JÓCHIL (112), FLURÌDO/BLÂŞO (113), MARTINO nuova (108), VALE (130), tutte a CP. Inoltre, a CM, ZUÂNO (217), SO(T)TÙTO (244), BIÈLO (244), TÒCH vecchia (256), PLÔNER (238), CODÂR (234), SERGJO (238).

27. TAMER (1601-1997, 270, 4.9%, 36)

Abbastanza curiosamente, i pochi Tamer presenti in Italia sono nettamente divisi in due gruppi: l’uno certamente di origine collinotta, l’altro – quasi altrettanto numeroso – di … extracomunitari, probabilmente di origine maghrebina.
Il significato del termine arabo ci è naturalmente sconosciuto: non così, fortunatamente, per quello di Collina, la cui origine è certamente da ricondurre all’omonimo termine locale tàmer = spazio recintato a stanghe nelle malghe (Sc323). Tamer compare in anagrafe già agli inizi del 1600 (Sabbata Di Tamer, m. 1601), quando peraltro già sembrano essere presenti da 5 nuclei familiari con questo nome.
I Tamer (o Di Tamer), recentemente estinti a Collina, sono stati per lungo tempo la famiglia preminente e una fra le più facoltose del paese, proprietaria di terreni e malghe (da cui forse il nome stesso) e fra le poche i cui membri – fra loro vi sono notai e meriga – sono fregiati in anagrafe dell’appellativo Dominus. Documentalmente, il più noto della famiglia è Michele, notaio e possidente, figlio del Leonardo costruttore e proprietario di casa Lenàrt a CP.
Un duro colpo ai Tamer fu inferto dalla terribile epidemia del 1800 (morbus dicti dissenteria), che decimò la villa di Collina e di cui si parla diffusamente in altra parte di questo lavoro. Proprio la famiglia di Michele Di Tamer, già vedovo di Maddalena Barbolan e risposatosi con Teresa Gerin, ne fu letteralmente falcidiata: morirono in quell’anno sette dei suoi figli (due avuti dalla prima moglie, cinque dalla seconda), oltre a lui stesso. Considerando anche quelli morti precedentemente, degli undici figli avuti fra il 1788 e il 1800 (praticamente uno all’anno!) dalla seconda moglie, a Michele non sopravvisse che la figlia postuma Caterina Regina, nata in quello stesso anno 1800 e anch’essa destinata a una morte prematura tre anni più tardi, probabilmente durante un altro evento epidemico.
L’ultimo Tamer residente a Collina è scomparso nel 1997.
FÂRI (120)
, GLÈRIO
(253), JACOMÈTO (220) – e naturalmente TÀMER (222) –, sono le case in relazione con questo cognome.

28. TAMUSSIN (1602-1999, 726, 13.1%, 87)

Secondo per numero solo a Barbolan, Tamussin appartiene naturalmente al gruppo degli autoctoni “fondatori”: anzi, la tradizione di casa Tamussin vuole che Collina stessa sia stata fondata proprio da due antenati della famiglia. Presente in anagrafe dal 1602 (un filius Leonardi De Tamosis nasce in quest’anno), è ancora oggi assai comune a Collina.

1888. Famiglia Giuseppe Tamussin (Betàn)
1888. Famiglia Giuseppe Tamussin (Betàn)

Oltre alla forma odierna e definitiva, TAMUSSIN, in anagrafe si incontra una numerosa serie di varianti: il già citato DE TAMOSIS (frequentemente DE TAMOSSIS), TAMUSINUS, TAMOSSINO, TAMOSSIN etc. Si tratta comunque, al pari del già citato Barbolan, di un endemismo schietto: tutti i Tamussin nazionali (e probabilmente anche non) sono riconducibili a Collina.
Esclusa l’origine patronimica, da altri ipotizzata, in Tommaso (nome peraltro quasi irreperibile nella genealogia familiare), nella stesura precedente avevo ipotizzato un’origine nel latino tamisium=setaccio (REW8551), da cui il collinotto temìoš (manca in Sc) e il friulano tamês (Pir1169), nel contempo lasciando sullo sfondo una possibile relazione con i toponimi locali Temós e Devóur Tamòšo. E quest’ultima mi appare oggi come la più convincente, giacché una delle case più antiche abitate dai Tamussin è proprio Muâro (v. qui di seguito), in tutta prossimità di Tamòšo37. In origine si avrebbe dunque Tamošin (la famiglia che viveva in prossimità di Tamòšo) e quindi i citati Tamossin e Tamosino precursori della forma attuale. A sua volta tamòšo sta con il friul. ciamòsse o tamòsse=argine (NP127 s.v. ciamòz), a sua volta da una base preromana *tem- *tim (da cui anche il citato Temós).
Le case con cui Tamussin è in relazione sono numerosissime: MAÇÓCOL (117), ŽILIO (119) ĞUÀN DI JÉFO (111) a CP; BETÀN (246), BRÀIDO/MEN DI JÀCOM (231), RIÇÒT/JÉFO (236), BIÈLO/SO(T)TÙTO (244), ŽIRCO (239), MUÂRO (240), MURÌT (255), CÓGU 210), MARC (219), BÒRTUL (226), PÀUR (230) a CM.

29. TOCH (1600-1997, 645, 11.7%, 85)

La grafia odierna TOCH farebbe propendere per un’origine germanica di questo cognome: in realtà, la grafia primitiva è priva della “h” finale, che viene aggiunta solo dopo il 1650.
Pur sottolineando l’incertezza riguardo all’origine del cognome, avevo in precedenza ipotizzato un toc=pezzo (Pir1194; curiosamente, manca in Sc), o lo stesso toc onomatopeico, oppure ancora l’importazione da Sappada del cognome Tach (endemismo assoluto sappadino). Pure in assenza di certezze oggi mi sembra da privilegiarsi una radice nella voce germanica tuch=stoffa o tessuto, forse soprannome di qualche cremâr emigrato di Tadésc e come tale riportato a Collina.
Una volta di più, si tratta di un endemismo, al pari di molti altri dei cognomi presenti in loco già alla fine del 1500 (il primo in anagrafe è Jacobum Toc, cg. Catarinam Barbule, 1600), come conferma anche la distribuzione odierna della popolazione nazionale (quasi il 50% a Collina, il resto comunque di derivazione locale).
MADA/TINO (126) a CP, TÒCH (206), NUŽI (229) e MATÌO (249) a CM sono le case legate al cognome.

30. TOLAZZI (1789-1997, 70, 1.3%, 8)

Giunge a Collina nel tardo ‘700 (Niccolò Tolazzo fu Domenico da Moggio, cg. Maria Pocher di GioBatta, 1789).
Cognome di probabile origine friulana (versione locale di Bortolazzi e sim.?), è ancor oggi concentrato in regione (119 su un totale di 172), e particolarmente frequente proprio a Moggio. È tuttora presente a Collina.
A Tolazzi sono legate le due case/casate PÀUR(O)/PÀUR (239) e ŠULÌN (223), entrambe a CM.

LE PIETRE: CASE E CASATE

Era questo, originariamente, l’obiettivo principale dell’intero lavoro: la “rimappatura” storica della villa, ovvero la ricostruzione urbanistico-onomastica di Collina (quali e dove le case, chi gli abitanti) al tempo delle origini dell’anagrafe (fine 1500/inizio 1600), avendo come punto di partenza le scarne indicazioni che si rilevano dal resoconto della visita del luogotenente patriarcale Agostino Bruno, effettuata il 2 novembre 1602:

…Villa che è chiamata di Collina, la quale conta 30 famiglie, e è divisa in due parti: Collina di Sopra con 18 e Collina di Sotto con 12* *famiglie…

Con il passare del tempo, e con il progredire del lavoro di ricerca, l’obiettivo si è dimostrato sempre meno compatibile con le fonti documentali disponibili e con le risorse (prima fra tutte, la disponibilità di tempo) dei malcapitati investigatori. Obiettivo non irraggiungibile in sé, tuttavia forse eccessivamente ambizioso per la solita gente “normale”. La base documentale, sebbene quantitativamente e anche qualitativamente rilevante, allo scopo si è rivelata assai dispersiva e scarsamente collimata. Un autentico filone aurifero, insomma, dove il prezioso metallo – pur presente – viene però estratto setacciando e scartando enormi quantità di altro materiale.

I tempi recenti sono certamente ben documentati: le memorie del maestro Eugenio Caneva (1842-1918) fino al 1915 circa, e le fonti orali dal primo dopoguerra in poi garantiscono una copertura capillare. In particolare, le note del maestro – dal 1857 pungente chiosatore di sessant'anni di vita, fatti e persone del paese – documentano accuratamente il periodo di vero e proprio boom edilizio vissuto da Collina fra il 1890 e il 1910. Inoltre, al di là del contributo “tecnico”, le memorie di Caneva aggiungono anche un tocco di colore (e di sapore…) a una altrimenti lunga e noiosa teoria di cifre e nomi. Ne attingerò ampiamente.

A ritroso nel tempo, le cose si fanno naturalmente più complicate e difficili.

Una fonte precisa e attendibile, e soprattutto esauriente, è il catasto Lombardo-Veneto del 1849 conservato presso l'Archivio di Stato di Udine, il giustamente famoso Imperial Regio Catasto di Maria Teresa d’Austria, completo di mappe ed elenco dei proprietari nonché del destino d’uso degli immobili censiti. Oltre a una puntuale verifica degli assetti proprietari, e a una migliore localizzazione degli edifici scomparsi, questo documento ha consentito il “recupero” di quattro o cinque edifici di cui si era persa ogni memoria. Una fonte preziosa, insomma, che tuttavia lascia dietro di sé 250 anni di buio pressoché assoluto, sul quale le fonti orali – i “sentito dire”, già di per sé quasi inesistenti – non aiutano a far luce.

In conclusione, l’intreccio onomastico/anagrafico/edilizio di quattro secoli di storia si è dimostrato, a un tempo, troppo fitto e troppo lacunoso per consentire la proposta di soluzioni affidabili e significative: il numero di edifici di cui è risultato possibile ricostruire interamente, e con margini di approssimazione accettabili, 400 anni di vicende e vicissitudini è risultato molto modesto (in verità quasi nullo) in relazione ai criteri, pur sempre ispirati a un certo rigore, con cui il lavoro d’insieme è nato e si è sviluppato.

Niente mappe di Collina al 1600, dunque. In attesa di tempi migliori (quelli che non arrivano mai...) è nato il solito topolino, un risultato di ripiego ma tuttavia non disprezzabile: ecco dunque la mappa al... 2000, con alcuni cenni storico-anagrafici ed etimologici (scienza e coscienza permettendo) relativi alle famiglie che hanno abitato i circa 100 edifici a uso residenziale della villa. ed ecco quindi l'onomastica legata a case e casate rappresentare il vero filo conduttore, attraverso il tempo e lo spazio, della nostra villa in Cargna.

Nei secoli e fino a oggi, più che la casa all'abitante è l'abitante ad appartenere alla casa, sia essa quella dei suoi padri o acquisita per matrimonio od altro: prima ancora che dall'anagrafe, l'individuo è identificato dal nome proprio associato a quello della casa o casata, vero e proprio equivalente della gens latina.

Caratteristiche degli edifici e delle casate

Sono stati identificati circa 130 nomi di case/casate38, fra loro diversi per origine, età, evoluzione. Si è quindi proceduto all’associazione dei nomi agli edifici esistenti o di cui è nota l’esistenza in passato.

Pur considerevolmente più cospicuo del numero delle case fisiche, il numero delle denominazioni (distribuito, si ricordi, su 400 anni e 13 generazioni) risulta relativamente contenuto, a indicare un elevato grado di continuità e di durata del legame fra la casa e i suoi abitanti.

Denominazione

Al pari dei cognomi delle famiglie, di cui si parla in altra parte di questo lavoro, anche i nomi delle case/casate devono fare i conti con una etimologia spesso oscura o incerta, e non agevolata dalle note latineggianti e spesso incerte di curati e mansionari, la cui scienza e conoscenza non sempre è all’altezza del formale rigore e della stessa buona volontà. Le (poche) note a margine riguardanti nomi e attributi, se si dimostrano da un lato utilissime nella datazione di alcune case/casate, dall’altro risultano spesso redatte in un latino di ritorno dalla parlata locale, impreciso e talvolta – se preso in senso letterale – fuorviante.

Naturalmente le origini delle denominazioni, quando non del tutto oscure, sono di volta in volta riconducibili a di tutto un po’: alla toponomastica (Riù, Glèrio, Caròno), all'antroponomastica (i nomi propri di persona: Men di Tòni, Bòrtul, Šulìn), alla posizione (Miéç, Sotùta), all'attività professionale (Fâri, Fusèto), ancora all’antroponomastica (i soprannomi: Péç, Riçòt, Pàur) e altro ancora.

Comprensibilmente, il rapporto associativo fra onomastica e edilizia abitativa è strettissimo, di quasi identità: la casa identifica gli abitanti, gli abitanti identificano la casa39. È, questa, una regola quasi assoluta le cui eccezioni – paradossalmente ma non troppo – sono figlie della regola stessa, come nel caso di nuclei familiari che si spostano in blocco, portando con sé nella nuova casa il nome di quella appena abbandonata.

D’altra parte, volendo ricercare nell’origine della denominazione una gerarchia o una sequenza temporale – ovvero quale nome venga primo fra la casa e l’abitante, chi lo fornisca e chi lo assuma – l’abitante (uomo o donna che sia) è largamente prevalente. Su oltre 100 nomi “storici” di casa/casata, il numero di quelli di origine onomastica (nel senso di nome, soprannome o attività di persona, per lo più relativo al costruttore o abitante dell’edificio) è dominante: i restanti non superano la quindicina.

Fra questi ultimi, è prevalente l’origine toponomastica (Caróno, Riù, Glèrio...), con qualche rara concessione al destino o all’uso di parte dell’edificio (Fàrio = fucina). Anche in questo caso, naturalmente, secondo le regole non scritte che regolano i rapporti fra casa e abitante, quest’ultimo acquisisce il nome dell’edificio, ormai casata, divenendo a sua volta Vigj da Riù, Neno di Caróno, Mimì di Glèrio etc.

Età

L’età delle denominazioni spazia dai secoli (i 400 anni e forse più di Nuži) a pochi mesi. Le case d'abitazione più recenti sono quasi tutte identificate (quando lo sono!) con il nome del costruttore/proprietario, metodo forse non proprio originale, ma tutto sommato non dissimile da quello tradizionale, o almeno dal più diffuso fra quelli tradizionali.

Per questi nuovi edifici, privi di nomenclatura consolidata o di indicazioni significative, nella nostra mappatura della Villa di Culina vengono proposte anche alcune denominazioni (con un poco di presunzione ma crediamo anche di coerenza) sulla falsariga di quelle esistenti ab antiquo. A questo scopo si è cercato di recuperare, talvolta con il contributo degli stessi abitanti, alcuni toponimi, più o meno in obsolescenza ma comunque atti allo scopo.

Si può certamente obiettare che una procedura di rinomina contemporanea e d’ufficio rappresenta – anche se filologicamente corretta – pur sempre un’interferenza, una forzatura nel processo di genesi e di evoluzione del nome. Ci sarebbe di che discuterne, e non per poco. Tuttavia… obiezione accolta, tant’è che le (poche) proposte avanzate non sono che l’ennesimo divertissement nel contesto di questo lavoro.

Ciò non esclude, naturalmente, che anche i divertissement possano essere non altro che la parte dilettevole di questioni assai più serie…

Evoluzione

Il percorso delle denominazioni, nel tempo e nello spazio, è certamente uno dei soggetti più affascinanti e coinvolgenti dell'intero lavoro.

Si è già fatto cenno alla solidità del legame, anche formale, fra la casa e i suoi abitanti. Questo vincolo, stabile e persistente ma tutt'altro che statico, si esprime attraverso una ragnatela di percorsi non lineari nel tempo e rispetto agli abitanti; al contrario, si sviluppa lungo itinerari per lo più tortuosi, accidentati, e spesso intrecciati e confondentisi. Infatti, se già i casi di edifici “storici” (almeno centenari) la cui denominazione non sia cambiata nel tempo sono poco frequenti, quelli in cui anche la proprietà è rimasta strettamente costante (lo stesso cognome per l’intero arco d’esistenza dell’edificio) sono decisamente rari.

In un tentativo di approccio sistematico, sono state identificate quattro tipologie evolutive (più una quinta variante) del rapporto casa/abitanti, quest’ultimo inteso come correlazione fra denominazione dell’edificio e cognome della famiglia attualmente residente, come descritto qui di seguito.

  • a) corrisponde alla continuità di nome e proprietà (nome della casa + cognome degli abitanti) nell’intero periodo d’esistenza conosciuto dell’edificio. Caso raro per gli edifici più antichi, è ovviamente la norma per quelli di nuova costruzione o comunque recenti.
  • b) relativo a edifici che mantengono il proprio nome invariato, ma di cui cambia una o più volte la proprietà, o comunque il cognome degli abitanti, i quali viceversa acquisiscono il nome della casa/casata stessa. Causa prevalente del mutamento, la trasmissione della proprietà per via ereditaria in linea femminile, e conseguente matrimonio dell’erede con il portatore del cognome sopravvenente (in cuc). Altre cause riscontrate, la particolare rappresentatività del nome originale della casa, che pertanto si impone esso stesso ai nuovi abitanti. È il caso soprattutto degli edifici legati a attività consolidate (a es. Fâri) o di origine toponomasticaca (a es. Glèrio), i cui nomi sono evidentemente ritenuti prevalenti nei confronti di quelli portati dai nuovi venuti.
  • c) dove all’invarianza del cognome degli abitanti si accompagnano uno o più mutamenti nella designazione della casa/casata. È quasi esclusivamente legato ai numerosi casi di subentro e sostituzione fra nomi o soprannomi di persona: l’esistente viene “usurpato” da parte di altro nome di familiari (per lo più figli o discendenti) o affini. Una cosetta in famiglia, insomma...
  • d) è la combinazione (si può immaginare quanto articolata e complessa) dei casi b e c. In pratica, del nome originale dell’edificio e dei suoi primitivi abitanti non resta che il ricordo, e spesso neppure quello...
  • e) variante costituita dal trasferimento contemporaneo e in blocco del nome della casa/casata e del cognome degli abitanti da un edificio a un altro, mediante lo spostamento in toto del nucleo familiare: armi, bagagli e... nomi. Un autentico trasloco, insomma, che talvolta lascia dietro di sé tracce visibili proprio nel nome della casa abbandonata, la quale seguita nel mantenere, almeno per qualche tempo, il nome “sottratto” dai transfughi. Da qui ha origine l’apparente contraddizione di più case omonime, anche più di due e assai distanti fra loro. Come ben si può intuire, non rappresenta in sé una specifica tipologia evolutiva, tuttavia assume una certa importanza nella ricostruzione logica del quadro urbanistico-residenziale e degli spostamenti delle famiglie all’interno di questo, in particolare fra CP e CM.

Si è già brevemente accennato ad alcune regole non scritte che presiedono alla formazione del nome della casa. A questo proposito, è interessante notare come anche l’uso della preposizione che normalmente precede il nome della casa/casata segua regole molto rigide, quasi ferree, in funzione sia della natura del nome stesso, che del suo ciclo di vita o durata nel tempo.

Nei pochi casi di origine toponomastica, è d’obbligo la preposizione in, a sottolineare anche fisicamente il luogo in cui si trova l’edificio: in Glèrio, in Cjanóuf etc.

Quando la derivazione è da nome proprio di persona, in ogni forma, sia esso accrescitivo, diminutivo, o spregiativo (Mattión, Nadalìn, Ğuanàt), oppure da soprannome di persona, di qualsiasi origine e natura (Chechè, Caminòn, Flèch), viene invece usata la preposizione semplice da, con il significato di “presso”, “a casa di”: da Ğuanàt, da Caminòn etc.. Con il tempo, quasi a lasciare sedimentare e consolidare il nome acquisito, la preposizione da tende a volgere a in (in* Caminòn*, in Flèch) come per l’origine toponomastica, quasi a prendere atto della spersonalizzazione dell’edificio e del nome, e a sottolinearne invece il radicamento oggettuale, una sorta di integrazione nel territorio e quindi nella stessa toponomastica.

Quando invece l’origine del nome è pure onomastica, ma deriva da soprannome “attributo” (aggettivo, attività etc.) del titolare, viene pure usata la preposizione da, ma in questo caso articolata nel femminile de e nel maschile dal. Ancora una volta la regola non è scritta ma pur sempre rigorosa: dal Fâri, de Bielo, dal Puištìn, dal Pàur, de Pàuro etc. La differenza è facilmente spiegabile: nel primo caso, il titolare è semplicemente Caminòn, o Flèch; nel secondo è lu Puištìn, o la Bièlo. La preposizione si articola (o non si articola) di conseguenza. A differenziare ulteriormente i due casi, la preposizione articolata non muta mai in in, ma rimane quella originale.

Nota

Ancora in tema di evoluzione onomastica, si nota un'elevata incidenza del caso b, in cui al cambio di cognome, per lo più conseguente a matrimoni di eredi femmine, non corrisponde un mutamento dell’econimo (!?) e quindi della casa/casata. All'atto pratico, mentre nei documenti ufficiali la moglie acquisisce il cognome del marito, nella vita quotidiana il marito (e i discendenti) acquisiscono il nome della casa della moglie, assicurando la continuità del nome della casata. È da sottolineare anche l'elevata incidenza (circa il 50%) dei matronimici nelle case/casate stesse, ancora una volta a sottolineare la figura centrale della donna nella società collinotta. A titolo di curiosità e di invito alla riflessione, sottolineo come nelle case nuove, o comunque costruite negli ultimi 40 anni, i nomi di donna siano pressoché assenti (ce n’è uno solo)!

Un duro colpo a questa sorta di araldica minore – ma tuttavia fondamentale per la comprensione non solo dell'assetto urbano, ma anche della cultura e del costume – è portato oggi dalla sempre più cospicua alienazione del patrimonio immobiliare al di fuori della comunità locale.

Non si tratta né può trattarsi, come ben si può intendere, di sostituzioni o di subentri a fini residenziali: trattandosi nella quasi totalità di seconde o terze case, solo saltuariamente abitate, viene automaticamente a cadere l'associazione, l'identificazione fra la casa e i suoi abitanti, e anzi il legame di appartenenza casa-abitante viene prima rescisso e quindi capovolto. L'alienazione dell'immobile associa lo svuotamento fisico (la gente che se ne va) allo svuotamento per così dire ideale o simbolico (il nome che scompare): non c'è subentro, non c'è sostituzione. Resta l'edificio vuoto, espropriato della sua essenza di casa/famiglia e ridotto, appunto, a mero edificio.

Al di là dei crudi dati demografici e statistici, il vero impatto, l'autentica misura dello spopolamento si evidenzia qui, nella scomparsa non compensata, non riequilibrata, di cognomi e casate.

Il rinnovamento è parte integrante della vita che costantemente si rigenera, si riforma, si perpetua. Come si è visto nel capitolo relativo ai cognomi, nel passato da Collina sono scomparsi Comeleani e della Zotta, Pelegrin e Di Corona, ma altri sono giunti a sostituirsi a essi, a formare parte integrante della comunità, da Gaier e Tolazzi a De Prato e Pascolin, e a tanti altri. Oggi il ricambio si è arrestato, e si va a esaurimento. Abbiamo già accennato a come, mentre scriviamo, la stessa casata di Tamer – certamente vecchia di oltre 400 anni, ma forse antica quanto la villa stessa – scompaia per sempre da Collina.

Naturalmente, non c'è in queste considerazioni alcun intento morale o moralistico. Lo spazio che gli elementi oggettivi (statistica, date, gli stessi eventi) concedono qui alle considerazioni soggettive e personali è assai esiguo. Come raramente accade, stavolta è proprio un luogo comune a rappresentare la situazione in maniera assolutamente corretta: ***i numeri parlano da sé. ***

Non c'è neppure amarezza o rimpianto. Mestizia... concedetecene un poco.

QUADRO ANALITICO DEGLI EDIFICI

Gli edifici sono stati censiti a partire da Collinetta (Culina Parva, nel testo indicata come CP), cui corrispondono gli edifici numerati a base 100 (101, 102 etc., fino a 134); a Collina (Culina Magna, nel testo CM) corrispondono gli edifici a base 200 (201, 202 etc., fino a 264).

Nella determinazione della sequenza o numerazione degli edifici è stato privilegiato il criterio della contiguità fisica. Come si può ben comprendere, si tratta di un criterio con scarse caratteristiche di univocità e di rigore, anzi in buona misura arbitrario. D’altra parte, le stesse rilevazioni censuarie ufficiali – tanto le civili quanto le ecclesiastiche – seguono criteri del tutto analoghi al nostro e anch’esse, quanto a percorso, con largo spazio al giudizio e alla fantasia del censore.

Gli edifici genericamente pubblici o a destinazione “sociale” (scuola, chiesa, case di soggiorno etc.), oppure, come i nuovi condomìni, non associabili a famiglie ben identificate sono numerati a base 300 (da 306). A quest’ultima categoria non appartengono tuttavia i due alberghi, entrambi in possesso di storia pregressa e identità propria, e pertanto considerati alla stregua di normali case d’abitazione. Questa breve serie di edifici è ordinata secondo l’epoca o l’anno di costruzione.

Il numero di identificazione dell’edificio è immediatamente seguito, fra parentesi, dal tipo di evoluzione della nomenclatura, secondo lo schema già descritto e illustrato sopra (da “a” a “e”).

Nella riga successiva, segue il nome (od i nomi) con cui l’edificio è o è stato denominato e conosciuto, seguito a sua volta fra parentesi dal cognome della famiglia (una o più) associata al nome stesso dell’edificio. In caso di più nomi della casa, il primo riportato e sottolineato è quello con cui l’edificio è attualmente e/o prevalentemente denominato.

Coerentemente con il capitolo relativo ai cognomi, di questi ultimi vengono riportati quelli già analizzati nel capitolo a loro dedicato (i primi 30 significativi), e inoltre alcuni cognomi particolarmente rilevanti in riferimento all’edificio (solo se estinti).

Il segno + indica la presenza nell’edificio di cognomi privi dei requisiti appena menzionati. Si tratta per lo più di cognomi contemporanei di non residenti, che poco o nulla hanno a che fare con lo spirito di questo lavoro e la cui menzione non aggiungerebbe alcunché alla nostra descrizione.

Per una migliore comprensione delle chiavi di lettura si veda, ad esempio, l’edificio
114 (d) — (in) UNTO (TOCH, BARBOLAN), (in) CARÒNO (DI CORONA, CARLEVARIS), ? (SOTTO CORONA)

  • corrisponde al numero 114 della mappa, e si trova a CP, in quanto il suo codice (114) ha come primo numero 1.
  • ha seguito una evoluzione di tipo (d), ovvero nel tempo sono mutati sia il nome della casa che la famiglia proprietaria/abitante
  • il nome attualmente prevalente è (in) UNTO, il cui nome è o è stato associato alle famiglie TOCH e BARBOLAN
  • è o era conosciuto anche come (in) CARÒNO, il cui nome a sua volta è o è stato associato alle famiglie DI CORONA e CARLEVARIS.
  • è probabile (ma non certo) che in passato avesse un'altra denominazione sconosciuta (?), associata alla famiglia SOTTO CORONA

Inoltre, quando citati nell’orientamento degli edifici, i punti cardinali sono abbreviati con la semplice iniziale maiuscola (N, E, S, O).

Come ultimo dettaglio, è opportuno sottolineare che pesanti interventi di ristrutturazione degli edifici – quando non di autentico rifacimento – in alcuni casi ne hanno alterato profondamente struttura e morfologia, al punto da rendere oggi assai difficile o del tutto impossibile la ricostruzione dell’aspetto degli stabili nelle diverse fasi della loro esistenza.

La stessa mappa utilizzata evidenzia più di una imprecisione nei dettagli: tuttavia raggiunge lo scopo, che è poi quello di consentire l’individuazione sul territorio degli edifici censiti e descritti40.

E poi... questo è ciò che passa il convento!

Collinetta

Mappa di Collinetta (CP)
Mappa di Collinetta (CP)
101 (a) — VIDÀRIOS (AGOSTINIS), (da) NANO (AGOSTINIS)

Edificio in due parti simmetriche E-O, costruito nel 1930 dai fratelli Luciano, Giuseppe e Luigi Agostinis (Luziàn, Bepo e Vigj dal Fâri). La costruzione fu elevata probabilmente sulle fondamenta, o comunque in luogo, di una preesistente fucina demolita nel 1877, e già proprietà della famiglia Gaier cui gli Agostinis subentrarono nell’attività di fabbri intorno al 1865 (v. 120).
Dopo la costruzione, le famiglie di Bèpo (parte E) e Vigj (parte O) si stabilirono l’edificio, mentre Luziàn rimase nella casa paterna del Fâri.
VIDÀRIOS prende nome dal luogo ove sorge l'edificio, Vidàrios appunto. Il toponimo è d'origine trasparente: vi d'arios = là dove è ventilato; trovandosi al margine della conca di CP, si tratta in effetti di luogo esposto alle brezze e ai venti di valle, che vi spirano con frequenza e non di rado con forte intensità. In anni non lontani, un colpo di vento asportò il tetto della casa e rase al suolo un boschetto di abeti nelle immediate vicinanze.
NANO, diminutivo di Anna (Anna Samassa, 1901-1982, moglie di Luigi Agostinis) e usato in vita della titolare, è oggi termine del tutto desueto.
L’edificio è tuttora abitato dai discendenti dei costruttori.

1925 circa. Così si presentava Collinetta a chi vi giungeva da Forni Avoltri
1925 circa. Così si presentava Collinetta a chi vi giungeva da Forni Avoltri. Il primo fenile, a d. della strada, è in luogo dell’attuale Chini nuova (133): dietro al fenile è anche visibile buona parte di Chini. In fondo alla strada, Žilio.
102 (b) — in) CODÂR (SOTTO CORONA, MAZZOCOLI, GERIN, +)

Il nome proviene dall'originale casa Codâr (234, v.), al seguito di Gaetano Giuseppe Sotto Corona, (Gaetàn di Gjùlio, 1884-1977), costruttore dell'attuale edificio in luogo di una preesistente stalla (parte inferiore) con fienile (parte superiore), già proprietà della famiglia della madre del costruttore stesso, Giulia Di Sopra di Cjanóuf (v. 103). Non è tuttavia da escludere che in epoca ancora precedente, prima della conversione in stalla, i locali di quest’ultima avessero svolto la funzione di abitazione.
I Gerin, tuttora presenti, subentrano con il matrimonio (1936) di Giacomo Gerin da Sigilletto con Giacomina Sotto Corona (Mino di Codâr) di Gaetano41.

103 (d) — (in) CHINI (DI SOPRA, GAIER), (in) CJANÓUF (DI SOPRA)

CJANÓUF (da cjamp nóuf = campo nuovo) è nome storico nell'onomastica collinotta, risalendo la prima menzione già al 1600 (Osualdo Di Sopra di Antonio di Kianof, n.1634). Non è azzardato supporre che, seppure attraverso successive modifiche e ampliamenti, si tratti di una delle case più antiche di Collina.
CHINI è attributo di Michele Di Sopra (1834-1915), coniugato nel 1880 con Maria Gaier di GioBatta. Attraverso questo matrimonio entrano i Gaier, mentre i Di Sopra escono definitivamente dalla casa con la morte del figlio di Michele e Maria, Pietro Antonio Di Sopra (Peco), nel 1935. I Gaier stessi abitano quindi la casa fino al 1998, quando si trasferiscono nella nuova casa edificata in luogo del preesistente fienile di famiglia (v. 133).
L'edificio è oggi disabitato.

104 (b) — (in) CHECHÈ (DI SOPRA, TAMUSSIN, GORTANA, +)

La casa è così denominata in virtù del soprannome Chechè di Antonio Di Sopra da Givigliana42, nel 1896 costruttore dell'edificio. Non è noto il significato del soprannome, forse riconducibile a un particolare modo di esprimersi, o a un difetto di parola (da cjècol = balbuziente: anche la prima e del soprannome è aperta).
In linea ereditaria femminile, la proprietà si trasferisce da Di Sopra ai Tamussin di Jèfo, Gortana di Péç e altri.

105 (c) — (in) ADÓL (GAIER), ? (DI SOPRA), CANONICA

Il nome attuale è la diretta friulanizzazione di Adolfo = Adól(f) (Adolfo Leone Gaier, 1867-1926: nella parlata di Collina cade anche la f finale).
Fino al 1750 circa, la casa fu abitata da un ramo della famiglia Di Sopra. come si evince dal testamento di Daniele Di Sopra (1679-1736) che lascia, dopo la morte della moglie, la propria abitazione al comune di Collina a uso di canonica43.
L’edificio, di proprietà comunale dal 1746, funse effettivamente da abitazione del mansionario fino alla costruzione della nuova canonica (303) nel 1878.
Nel 1890, l’edificio fu acquistato da Adolfo Gaier, che lo rialzò di un piano, aggiungendo inoltre la stalla a SE oggi parte integrante dell’immobile. Ulteriormente ampliato verso E da Carlo Gaier di Adolfo (Carlo di Adól) nel 1940, l’edificio è tuttora abitato dai discendenti di Adól stesso.

106 (b) — (in) TITÀI (BARBOLAN, CANEVA, +), (in) GJARÈTO (BARBOLAN), ? (DI SOPRA?)

Nell’insieme, l’edificio è di proporzioni ragguardevoli, comprendendo anche parti un tempo destinate a uso non abitativo. La parte superiore, verso la piazza, era quella originariamente adibita a fienile.
Anteriore alla presenza degli attuali Barbolan, è probabile – ma non asseribile con certezza – una presenza qui dei Di Sopra: infatti, i Barbolan si sarebbero stabiliti qui solo nel 1810, attraverso il matrimonio di Antonio Osvaldo di Valentino (1776-1850) con Domenica Di Sopra di Tommaso. Da qui, due possibilità per l’origine della denominazione TITÀI, entrambe assai ardue, attraverso la forma intermedia Tita: la prima come evoluzione di Battista, nel qual caso si tratterebbe probabilmente di Giovanni Battista Di Sopra (1729-1796), padre del Tommaso citato sopra; la seconda possibilità si configura come evoluzione di Valentino (uno dei numerosi presenti nella famiglia Barbolan)44. Fra le due, la prima mi sembra più convincente.
Dopo la ricostruzione seguita all'incendio di rappresaglia nazifascista del 3 dicembre 1944, l’edificio risulta oggi suddiviso in tre parti: 1) l'abitazione originale, con ingresso verso Adól, già Caneva e oggi +; 2) l'ex fienile a N, con ingresso a livello della strada, ancora oggi in linea diretta Barbolan di Titài come pure la parte 3) a E, quest'ultima detta anche (in) GJARÈTO.
Gjarèto è portato qui da Marina Agostinis di Giuseppe Giovanni (Marìno di Gjaréto, 1888-1965), moglie di Umberto Barbolan di Valentino (Umberto di Titài). Delle due interpretazioni avanzate circa l’origine di Gjarèto, una toponimica (Gjàra = ghiaia, v.209), l’altra matronimica (Margherita = (Mar)GarìtoGjarèto) quella corretta è la seconda. Nella fattispecie, si tratta in realtà della nonna materna di Marina, Margherita Tamussin di Giuseppe (1830-1898), che allevò la nipote rimasta orfana alla nascita.
La casa di Titài fu anche sede della scuola fino al 1878, quando questa attività fu trasferita nella nuova canonica a CM (303).

107 (a) — (in) STÂLI NÓUF (proposto) (PASCOLIN, +)

STÂLI NÓUF = fienile nuovo, con riferimento allo stato del luogo fino agli anni ’40: sul luogo sorgevano fienili di costruzione più recente, in contrapposizione a un fienile di epoca precedente (vecchio, Stâli Vècju, v. 115) nelle vicinanze.
La struttura dello stabile attuale fu eretta nel luogo dei fienili che bruciarono, insieme alla vicina casa di Titài (106), nell'incendio del 3 dicembre 1944. L’edificio fu quindi acquisito dalle famiglie Pascolin et al., che ne portarono a termine la costruzione e tuttora lo abitano.

108 (c) — (de) MARTÌNO nuova (SOTTO CORONA, +), (da) NICO (SOTTO CORONA)

NICO deriva da Giuseppe Antonio Sotto Corona (detto Nico, 1859-1930), secondo alcune fonti costruttore della casa probabilmente intorno al 1890. Parrebbe logico ricondurre Nico a Nicolò: effettivamente il nome è frequente nella genealogia familiare Sotto Corona, sebbene non risulti fra i diretti ascendenti di Giuseppe Antonio.
MARTÌNO è il nome della casata della moglie di Nico stesso, Maria Maddalena Sotto Corona (Nèno de Martìno, 1869-1927). Qui definita nuova, per distinguerla da Martìno vecchia dove il nome ha avuto origine (v. 131).
Distrutta dall’incendio del dicembre 1944 e successivamente ricostruita, è stata oggetto di un recente frazionamento e passaggio di proprietà. Non è attualmente abitata.

109 (a) — (de) VILO (DAMIANI, TOCH)

Vilo = villa nella parlata di Collina, così detta per le grandi dimensioni e il preteso aspetto signorile dell’edificio al tempo della costruzione (1944-1948).
Costruita da Giovanni Battista Damiani da Tolmezzo (1893-1963), cg. Teresa Maddalena Toch di Michele (1903-1980), è oggi di proprietà dei discendenti Toch.

110 (a) — (in) PIRUCÈLO (AGOSTINIS)

Il nome è di origine non chiara. Si tratta probabilmente di un diminutivo/vezzeggiativo di Pìori (Pietro, nome peraltro frequente nella genealogia Agostinis di questo ramo) per assonanza con pìor (pera), volto al femminile e quindi trasmesso alla discendenza: Pìori Piruç Pirucel Pirucelo. Lo stesso E. Caneva in una sua nota adotta esplicitamente la forma femminile italianizzata, Pirucella.
L'immobile preesistente (stalla/fienile di proprietà della famiglia Tamussin/BETAN) viene acquisito da Pietro Agostinis nel 1874 e quindi convertito in abitazione (in PIRUCÈLO, per l'appunto).
Nel 1893, lo stesso edificio verrà ampliato a nord da un altro ramo della stessa famiglia, denominato 'Secàrt (111): questa parte dell'immobile sarà in seguito alienata e non appartiene oggi alla casa Pirucèlo propriamente detta.
Nel 1903 venne aggiunta la parte a ponente, dove fu collocato il focolare della casa.
L’edificio è tuttora abitata dall'omonimo ramo della famiglia Agostinis.

111 (d) — (da) ĞUÀN DI JÈFO (TAMUSSIN, +), (in) 'SECÀRT (AGOSTINIS)

'SECÀRT, Giuseppe Agostinis (1862-1927), così detto, costruttore dell'edificio nel 1893. Non è noto il significato del soprannome, forse una derivazione di ‘Sèf (Giuseppe).
L'edificio costituisce un ampliamento a N della casa di Pirucelo (110), con ingresso indipendente. Con l'acquisizione da parte di Giovanni Tamussin di Giuseppe (Ğuàn di Jèfo) la casa ne assume il nome, appunto ĞUÀN DI JÈFO45.

112 (d) — (da) PIRISCÌN (GAIER), (de) BLÂŞO (SOTTO CORONA), (da) JÓCHIL (SOTTO CORONA)

Al tempo della costruzione (intorno al 1885) l'edificio mutua il nome dalla casa/casata dirimpetto, BLÂŞO (113), da cui proviene il costruttore Giacomo Sotto Corona (Jàcom de Blâşo, 1858-1940, detto Jóchil, diminutivo tedesco di Giacomo). JÓCHIL è appunto il nome che la casa acquisisce e mantiene in vita del titolare, spesso in congiunzione con il precedente (Blâşo-Jóchil) per distinguerla dalle omonime (v. 113). Con il figlio di Jóchil, Basilio Augusto (1888-1965), senza discendenti, si conclude la genealogia Sotto Corona e subentrano i Gaier.
Sebbene con l’antica denominazione Blâşo incombente, la denominazione corrente è forse PIRISCÌN (diminutivo del proprietario Pietro Gaier, 1906-1999), dai cui discendenti la casa è tuttora abitata.

113 (a) — (de) BLÂŞO (SOTTO CORONA), (in) FLURÌDO (TOCH, SOTTO CORONA), (da) FLÈCH (DURIGON), (da) SANTINÈ (SOTTO CORONA), (in) SOT CARÒNO (SOTTO CORONA)

Sebbene data e costruttore non siano noti (ma pochi dubbi sussistono sul fatto che si tratti di uno o più Sotto Corona), diversi elementi concorrono a datare questo edificio – od almeno la sua struttura originale – assai indietro nel tempo. Anzitutto l’elemento architettonico, con i soffitti a volta del piano terreno, fino al 1700 tipici delle costruzioni “solide”. In secondo luogo l’associazione fra onomastica e toponomastica, similmente a quanto verrà poi descritto più diffusamente per l’edificio di CARÒNO (116), con cui le analogie sono stringenti.
L’edificio, di dimensioni ragguardevoli ma originariamente con unico ingresso a S, è sempre stato costituito internamente da due distinte unità abitative (N e S), e conseguentemente abitato da almeno due famiglie (forse anche fino a quattro nuclei familiari, il che pone notevoli problemi di ricostruzione onomastica, soprattutto per la parte S). L’accesso autonomo alla parte N dell’edificio (piano terreno), che di fatto rende totalmente indipendenti le due unità abitative, è certamente un’aggiunta posteriore. L’ultima modifica al fabbricato risale alla prima metà del 1900, quando Giuseppe Sotto Corona di Giacomo (1890-1963) aggiunge l’ingresso diretto al primo piano a N, oggi accesso principale a questa parte dell'edificio.
Il nome SOT CARÒNO non è attestato, né è presente nella tradizione orale degli abitanti di Collina. Tuttavia, lo stretto parallelismo fra questa casa e Càrono (116) rendono naturale ipotizzare questa denominazione come quella originale di una costruzione in questo luogo.
Quanto a BLÂŞO e FLURÌDO, è possibile che si tratti della stessa persona, ovvero Anna Florida di Biagio da Sigilletto (1807-1865), coniugata nel 1839 con Filippo Toch di Giovanni Giacomo, allora abitante/proprietario della parte S della casa46. L’origine di entrambi i nomi è trasparente, trattandosi della versione nella parlata di Collina (femminile in –o) del cognome Florida e del patronimico Biagio.
Circa il solo nome BLÂŞO, un’ipotesi alternativa alla precedente propone invece la derivazione – analoga e pressoché contemporanea – da Maddalena Barbolan di Biagio (1783-1863), in moglie nel GioBatta Sotto Corona, proprietario della parte N dell’edificio.
FLÈCH (v. 202) è invece soprannome di Valentino Durigon da Vuezzis (1818-1878): di etimologia sconosciuta, pare acquisito da Valentino durante un periodo di emigrazione in Germania. L'ingresso di Flèch in questa casa avviene attraverso il suo matrimonio con la nipote del già menzionato Filippo Toch, Lucia Toch di Tommaso, nel 1861.
A sua volta, l’ingresso dei Gaier e il passaggio a questi del nome FLÈCH risale al 1898, attraverso il matrimonio di una nipote di Lucia Toch, Maria Maddalena Toch di Caterina, con Michele Amedeo Gaier (Mìchil, 1873-1944). Il nome FLÈCH si trasferisce a CM, insieme ai titolari Gaier, nel 1902 (v. 202).
La denominazione SANTINÈ (Santina Sotto Corona, 1855-1935) ha identificato per un breve periodo la parte a pianterreno dell'edificio stesso, a NE.
Attualmente, l’intero edificio è conosciuto esclusivamente come BLÂŞO (Sotto Corona).

114 (d) — (in) UNTO (TOCH, BARBOLAN), (in) CARÒNO (DI CORONA, CARLEVARIS), ? (SOTTO CORONA)

L’attuale denominazione, UNTO, era appellativo di Tommaso Toch (1790-1854) coniugato nel 1819 con Pasqua Sotto Corona di GioBatta.
Se il significato del soprannome – apparentemente italiano – sembra palese, l'origine è tuttavia ignota: va peraltro ricordato che frequentemente i soprannomi (e quelli italianeggianti in particolare) si riferivano a fatti accaduti o ad attività svolte dall’interessato altrove. Dell’edificio non è nota la denominazione antecedente a UNTO, al tempo della proprietà Sotto Corona (ramo Flurìdo/sot Caròno, 113).
Nel 1886 l’edificio passa dai Toch ai Barbolan, attraverso il matrimonio di Cristina Toch di Pasqua Santa (Santina) con Giovanni Barbolan (
Caminòn
) di Giuseppe.
Nel 1890 la casa viene ceduta dai Barbolan ai Di Corona, in parziale contropartita della casa di CARÒNO, con conseguente scambio di abitanti e di nomi (anche i Carlevaris, già in cuc in Caróno, si spostano al seguito, v. 116). L'edificio quindi assume per un breve periodo anche il nome di CARÒNO.
Quando la famiglia di Corona scompare definitivamente da Collina nei primi decenni del ‘900, emigrando in Tirolo, l'edificio ritorna definitivamente ai Barbolan (il già citato Caminòn), riacquistando così il precedente nome di UNTO.

Lo Stajàt. Pitture su legni di Giovanni Pellis (particolare)
Lo Stajàt. Pitture su legni di Giovanni Pellis (particolare)

Il piano superiore dell’adiacente stalla-fienile (Stajàt di Caminòn) ha funto, negli anni 1930 e fino al secondo dopoguerra, da ambiente di ritrovo per la gioventù della villa, con musica live (fisarmonica, violino e contrabbasso) e relative danze: di quel tempo, le pareti del fienile portano ancora oggi le tracce ormai polverose delle colorate e pittoresche decorazioni su legno, opera di Giovanni Pellis.

115 (a) — (in) STÂLI VÈCJU (AGOSTINIS, +)

Costruita nel 1958 da Alberto Agostinis di Pirucèlo sulle fondamenta del vecchio fienile (stâli vècju) di Pirucèlo, anch’esso bruciato nell'incendio del 3 dicembre 1944. Il fienile preesistente era peraltro abbastanza antico, forse risalente al ‘700.
Proprietà dei discendenti e recentemente ristrutturata, non è abitata permanentemente.

116 (d) — (in) CAMINÒN (BARBOLAN), (in) CARÒNO (DI CORONA, CARLEVARIS)

Il termine CARÒNO è quello originale dell’edificio, e è anche probabilmente il più abusato di Collina nella definizione di case e casate. Sebbene di origine strettamente legata a luoghi fisici precisi, nel tempo è passato a identificare non meno di cinque distinti edifici (a CP come a CM) al seguito degli originari titolari. CARÒNO rappresenta anche uno dei più evidenti esempi dell'intreccio fra toponomastica e onomastica all'origine di numerosi fra i cognomi che popolano le anagrafi di tutto il mondo.
CARÒNO (lett. “corona”; nella parlata locale il termine definisce il costone limite orografico delle valli d'impluvio, in particolare in associazione alle strade o ai sentieri che vi transitano), è originariamente riferito alla Caròno di Plaço (lett. Corona di Piazza)47. Questo microtoponimo, oggi del tutto obsoleto, definiva un tempo il costone che delimita a SO l'impluvio del rio Cueštos o rio Collinetta, nei cui pressi si trova anche la modesta piazzetta del paese sulla quale si affaccia l'edificio. Il toponimo non solo si è trasmesso all'edificio ma è anche passato ufficialmente all'anagrafe civile, sia degli abitanti della casa stessa (di Corona, per l'appunto, presenti già nel 1620), che dei vicini sottostanti (Sotto Corona), abitanti della casa oggi de BLÂŞO (113). Anche nell'anagrafe parrocchiale fino alla metà dell'800 la famiglia di Corona è accompagnata dalla nota vulgo Coroner.
La denominazione CARÒNO stava a indicare l'intero edificio affacciato sulla Caròno di Plaço, inclusa la parte a NE oggi denominata in PÉÇ (121). Le più recenti vicissitudini onomastiche dell'edificio – che fino agli anni '60 svolse anche funzione di locanda, naturalmente “alla Corona” – sono legate alla casa di UNTO (114). Al proposito, scrive E. Caneva: “1890 – Barbolan Giovanni Caminòn acquistò la casa di Corona, e diede per una parte in cambio quella di Unto. Dopo fece tanti lavori da ridurla allo stato attuale. I lavori li fece tutti da solo”. Al momento dello scambio degli abitanti (di Corona-Barbolan) fra i due edifici, questo assume il nome di CAMINÒN (soprannome di Giovanni Giuseppe Barbolan fu Giuseppe Valentino di Lùzio, 1856-1939) con il quale è oggi conosciuta, e dai cui discendenti è tutt'oggi abitata.
Come spesso accade, il significato del soprannome Caminòn trova origine in un singolo evento – per di più del tutto casuale – relativo al malcapitato titolare. Nella fattispecie, Giovanni Barbolan fu sorpreso in Comelico a pronunziare, in un tanto presuntuoso quanto approssimativo dialetto locale, appunto la parola caminòn, con ciò volendo intendere l’accrescitivo di cammino, strada, via, e invece suscitando l’ilarità dei presenti. Un infortunio che, evidentemente, accompagna il presunto e sfortunato poliglotta Caminòn da oltre cent’anni…
Per breve tempo (1885-1890), l’edificio ha visto anche la presenza della famiglia Carlevaris, in cuc attraverso il matrimonio di Giovanni Luigi di Fedele da Frassenetto (1850-1934) con Marina Di Corona di Anna (1857-1926). Seppure di breve durata, il passaggio è importante, in quanto segna in pratica il trasferimento della titolarità della casata di Caròno dai di Corona ai Carlevaris, al seguito dei quali si trasferirà anche a CM (251).

Formella soprastante l'ingresso di casa Mačócol
Formella soprastante l'ingresso di casa Mačócol
117 (c) — (in) MAÇÓCOL (MAZZOCOLI, TAMUSSIN)

Altro esempio dello stretto intreccio fra casata e cognome anagrafico, con il secondo di evidente e stretta derivazione dal primo (v. MAZZOCOLI nella parte “cognomi”).
Oltre ad alcuni elementi architettonici, la stessa relazione fra casa/casata e cognome dei primitivi abitanti fa propendere per una datazione molto antica di questo edificio (o comunque di un suo precursore), analogamente ad altre famiglie/casate (Tamer, Bettan, Toch etc.).
Anticamente, la casa consisteva della sola parte bassa e della parte estrema a ponente dell'attuale, avendo entrata a S rivolta verso Adól e verso la strada allora sottostante quest’ultima casa: la data GM 1773 (probabilmente per Giacomo Mazzocoli, di Giuseppe) scolpita sullo stipite destro del portale di questo ingresso, oggi semplice accesso alla cantina, sembra comunque già riferirsi a un successivo ampliamento o rifacimento della casa.
Nella mappa del 1850 gli edifici sembrano addirittura essere due, distinti e separati da un’area non edificata. Probabilmente ricostruito in corpo unico in epoca successiva, nel 1914 l’edificio fu quindi elevato di un piano; di poco posteriore (1920) è l’apertura dell'ingresso attuale, oggi il principale, a livello della strada: a quest'ultima modifica si riferiscono le iniziali P.T. (Pietro Tamussin) inserite nel portone che per l’appunto si apre sulla strada attuale.
Sopra questa porta si trova anche la formella con l’effigie dei supposti fondatori di Collina che ispirò il commento già citato in questo volume fra i cenni storici. Si tratta in realtà di un rifacimento dell’originale, di cui a sua volta si sa ben poco, se non della sua esistenza già nell’800: si trattava quasi certamente di un’opera celebrativa, eseguita su commissione in tempi non remoti. La collocazione qui è di tempi recenti.
Naturalmente, in origine l’edificio è abitato dall’omonima famiglia Mazzocoli, i cui ultimi discendenti del ramo qui residente sono Leonardo (1804-1888) e Giuseppe Antonio (Şif, 1846-1909) figli di Giacomo Leonardo.
L'ingresso dei Tamussin – tuttora presenti – risale al 1880, attraverso il matrimonio di Giuseppe Antonio di Giorgio (‘Sèf Sarturùt, 1847-1930) con la nipote degli ultimi Mazzocoli, Lucia di Daniele.

118 (a) — (da) CARLO DE BRÀIDO (TAMUSSIN)

L’edificio costituisce a tutti gli effetti un prolungamento a E, verso Titài (106), della casa precedente, a cui è addossato pur essendone del tutto indipendente.
È stato costruito nel 1954 da Carlo Tamussin di Angelo (Carlo de Bràido), di cui porta il nome e dalla cui famiglia è tuttora abitato.

119 (d) — ((da) ŽÌLIO (SOTTO CORONA/MAZZOCOLI), (in) MAÇÓCOL* (TAMUSSIN, SOTTO CORONA, MAZZOCOLI), (de) ÇUÉTO (LENARDINI, CANEVA, TAMUSSIN, +)

ŽILIO è friulanizzazione di Cecilia (Cecilia Maria Mazzocoli, 1891-1960), abitante della casa per oltre quarant’anni.
Secondo fonti locali, ÇUÉTO (dall’aggettivo Çuéto = zoppa, çuét Sc56, zuèt Pir1323), sarebbe invece appellativo di Maddalena Mazzocoli di Giacomo (detta anche Nàile, 1792-1852) moglie di Giovanni Caneva, all’epoca comproprietario/abitante della casa. È possibile che si tratti anche di attributo personale di Nàile, derivante da una menomazione fisica dell’interessata: certamente il nome della casa/casata è preesistente, e assai antico. La denominazione familiare de Çueto risale infatti con certezza già alla fine del 1500, quale attributo della famiglia Lenardini (v. cognomi) che in origine abita questo edificio.
Nella casa, agli originari Lenardini subentrano quindi i Caneva, probabilmente nel 1772 con il matrimonio di Anna Lenardin con Pietro Caneva. In seguito, la famiglia Caneva emigra in America (1912?), cedendo l'edificio a Giovanni Tamussin di Maçócol, per cui la casa è per qualche tempo anche conosciuta con quest’ultima denominazione, MAÇÓCOL, al pari dell’omonima 117. Defunti o trasferitisi altrove i Mazzocoli, l'edificio non è abitato.

120 (d) — (dal) FÂRI (GAIER, AGOSTINIS, DE PRATO), (in) LENÀRT (DI SOPRA?, TAMER, GAIER)

La denominazione originaria è LENÀRT (Leonardo), nome un tempo assai frequente a Collina. La titolarità della casa, sebbene contesa fra numerosi pretendenti, è quasi certamente da attribuirsi a Leonardo di Antonio Di Tamer (1718-1788)48.
Forse rifacimento o ampliamento di una costruzione preesistente, nella sua forma attuale l’edificio data dal 1740, probabilmente in concomitanza con il matrimonio di Leonardo stesso (1739) con Maria Di Tamer. Così suggerisce la scritta scolpita nell'architrave della doppia finestrella sovrastante il portale: la scritta, invisibile dal basso in quanto celata dalla grata in ferro battuto, riporta infatti Ano 1 7 Fce Ldo Aio Di Ter Fre 4 0 Dni (Anno Domini 1740 Fece Fare Leonardo Antonio Di Tamer).

1922. Casa Fâri
1922. Casa Fâri

La terribile moria del 1800, di cui si parlerà diffusamente più avanti, colpì duramente questa casa, causando almeno otto vittime nella famiglia di Michele Di Tamer, figlio di Leonardo, e inducendo quasi tutti i superstiti della famiglia – già allora proprietaria anche della casa di Glèrio (253) – all’abbandono di Lenàrt.
Gli ultimi discendenti cederanno definitivamente la proprietà dopo il 1850.
Il nome attuale FÂRI deriva dall'attività (
fâri
= fabbro Sc72, Pir296) esercitata da Giuseppe Gaier (1785-1869), che si stabilisce nella casa49 a seguito del matrimonio (1815) con Maddalena Di Tamer, una delle figlie di primo letto di Michele sopravvissute al padre.
Nel volgere di una sola generazione, ai Gaier subentrano gli Agostinis, attraverso il matrimonio (1865) di Luigi con Maddalena Gaier, figlia del già citato Giuseppe. È probabile che la fucina sia stata galeotta, o almeno abbia giocato un ruolo non secondario in quest'ultimo matrimonio: Luigi Agostinis era infatti fabbro a sua volta (v. FUSÉT a CM, 242).
La diretta discendenza di Luigi Agostinis – Fâri, appunto – abita tutt'oggi una parte dell'edificio (un altro ramo della medesima famiglia Fâri abita la casa di VIDÀRIOS, v. 101); l’altra parte è abitata un ramo della famiglia De Prato, qui sopravvenuta in cuc a seguito del matrimonio di Edoardo Giovanni (Duarde) di Biagio con Marina Marianna Agostinis di Giuseppe (1944).
Ampliato verso N negli anni ’80, nella struttura originale l’edificio è uno dei più antichi di CP, con cieli a volte e stanze con soffitti in legno a cassettoni, un tempo anche dipinti: anche il pregevole portale con arco in pietra che ne adorna l'ingresso è sicuro indice di agiatezza dei primi proprietari, al pari della coeva casa di BÒRTUL a CM (226, v.). Si tratta dei due soli esemplari di portali di questa fatta esistenti oggi (ma probabilmente anche in passato) a Collina.

121 (d) — (in) PÉÇ (GORTANA)

Il fabbricato forma corpo unico con la casa già di CARÒNO, oggi CAMINÒN (116), della quale costituisce la parte a NE, un tempo probabilmente non abitabile e adibita a fienile.
L’immobile venne convertito in abitazione intorno al coincidenza con il matrimonio di Antonio Gortana (1837-1921) da Givigliana, detto appunto Péç (voce friulana per l’abete rosso), con Maria di Corona di Caròno.
Tuttora proprietà di un ramo della famiglia Gortana, l’edificio è oggi disabitato.

122 (d) — (in) PÉÇ (GORTANA), (da) ĞUANÀT (ANGELI), ? (DI CORONA)

Come molti altri, il fabbricato era in origine costituito da abitazione (parte S) con annesso fienile (parte N). L'insieme era proprietà Di Corona, analogamente all’edificio immediatamente adiacente e sottostante (CARÒNO, v. 116).
Non è dato sapere con quale nome questa casa fosse conosciuta in epoca remota: forse lo stesso Caròno che identificava la famiglia Di Corona residente nel gruppo di edifici. All'origine del cambiamento di nome/proprietà, intorno al 1858, è ancora un matrimonio, quello di Nicolò Angeli (1831-1911) di GioBatta, da Cavazzo, con Caterina Di Corona di Pietro.
Contrariamente all’apparenza, la denominazione ĞUANÀT (spregiativo di Ğuan, letteralmente “Giovannaccio”) non è attributo del figlio di Nicolò Angeli, Giovanni (1859-1930, detto invece Ğuan di Ğuanàt), anch'egli abitante dell’edificio. È invece dell'avo di quest'ultimo e padre di Nicolò, Giovanni Battista Angeli da Cavazzo, che non risulta essere mai vissuto a Collina ma a cui risale il poco simpatico attributo familiare (ma forse era usato in senso affettuoso…).
La casa è oggi conosciuta con il nome di PÉÇ, analogamente a quella sottostante (121) da cui ha preso nome, sebbene lo stesso Péç (il già citato Antonio Gortana), pur possedendovi una stanza, non vi abbia mai abitato: i suoi figli, separando la parte superiore dell'edificio e rendendola interamente abitabile, estendono la denominazione anche a questa costruzione, tuttora abitata dalla famiglia Gortana.

123 (b) — (da) ALBINO, (da) VIGJ da RIÙ, (dal) PUIŠTÌN (tutti MAZZOCOLI)

VIGJ DA RIÙ (Luigi Mazzocoli da Riù, 1874-1965, detto anche PUIŠTIN – postino – in quanto per decenni portalettere del comune di Forni Avoltri), è il costruttore della casa nel 1901, sull’area di un preesistente edificio diroccato, quale risulta dal catasto del 184950. Per l'origine del nome di famiglia da Riù, v. 125.
A proposito della costruzione, il commento del nostro cronista è di quelli d.o.c., sebbene accompagnato da un piccolo enigma: “
1901 - e seguenti fabbricò la casa Mazzocoli Luigi fu Daniele. Tanti procurarono di dissuaderlo di farla in quel posto, ma nessuno riuscì a convincerlo, né per l’igiene, né per la spesa51”.
Alla moglie dello stesso costruttore Vigj da Riù, Albina Erminia Gerin (
Albìno
, 1878-1956), si deve la denominazione con cui oggi è comunemente nota la casa, per l’appunto ALBINO.
I discendenti della coppia abitano tuttora l’edificio.

124 (c) — (de) PÈTO, (da) 'SÈF DA RIÙ , (de) PLÙSSERO, (da) ŠÒE (tutti MAZZOCOLI)

La casa viene costruita, al pari della precedente, nel 1901. La edifica 'SÈF DA RIÙ (Tommaso Giuseppe Mazzocoli, 1864-1923, fratello di Luigi), come ben procura di farci sapere il cronista: “Anche Mazzocoli Giuseppe si mise a fabbricare la casa, per capriccio di non volere andare d'accordo con i fratelli, e restare nella vecchia casa da Riù”.
L’appellativo PLÙSSERO (Anna Gortana da Givigliana, ?-1902, prima moglie di Sèf da Riù) è di origine ignota, come pure PÈTO (Maria Maddalena Carlevaris da F.A., 1859-1930, seconda moglie di Sèf da Riù). Per la precisione, nel friulano di Collina pèto designava la pastiglia medicinale (il cosiddetto cachet): sebbene di indubbia fondatezza semantica, la citazione ha puro valore accademico. PÈTO è oggi la denominazione più in uso.
Un divertente (e autentico) aneddoto è invece all'origine del nome (da) ŠÒE. A questo proposito, è necessario premettere che il figlio di Sèf da Riù, Giovanni (
Ğuàn da Riù
), succedutogli nella proprietà della casa, era cresciuto in Friuli e parlava quindi più il friulano che non il collinotto stretto; il tutto, per di più, con un difetto di pronuncia che portava a sonorizzare la “s” anche quando non necessario, così facendone una “š” (come nell’italiano sc di scena).
Ğuan chiese dunque un giorno in prestito a un vicino una fune per legare i fasci di fieno (in collinotto sòjo, che nel lessico “friulanizzato” e nella curiosa pronuncia di Ğuàn diveniva un curioso šòe). Ottenuta in prestito una sòjo nuova di zecca, la restituì di lì a qualche giorno in condizioni penose, accompagnandola con il commento (naturalmente sottolineato dalla sua particolare pronuncia) “'Uš torni la šòe šane e alêre” (Vi restituisco la sojo sana e allegra).
Da quel giorno, Ğuàn da Riù divenne così Ğuàn de šòe, soprannome in verità tanto popolare quanto assai poco apprezzato dal titolare…
La casa è oggi disabitata e in stato di evidente abbandono.

125 (a) — (in) RIÙ (MAZZOCOLI)

Già abitazione, e dal 1946 adibito a fienile della famiglia Mazzocoli (ramo Albino), l’edificio deve il suo nome al corrispondente microtoponimo (appunto in Riù) che identifica il luogo ove sorge, a sua volta legato alla vicinanza del rio Cueštos o rio Collinetta.
Alcuni riferimenti anagrafici (una Orsola da Riù ripetutamente menzionata già verso la metà del 1600) e la posizione riparata, poco discosto dal corso d’acqua, fanno supporre una datazione assai remota del sito abitativo, certamente uno dei più antichi di CP e forse di primitivo insediamento della villa.
L’ultimo abitante effettivo dovrebbe essere Daniele Mazzocoli di Daniele (1868-1936) fratello dei costruttori delle case 123 e 124 (v.).

126 (d) — (da, in) MADA (GAIER, TOCH), (de) TINO (TOCH, GAIER)

Il nome originale, (de) TINO, si deve forse a Valentino Toch (Tin, 1743-1793) di Pietro, morto in Stiria, probabilmente senza lasciare eredi residenti a Collina. Come e quando il nome venga poi volto al femminile (Tino) non è noto, come pure non è noto come la casa passi a un ramo laterale della famiglia Toch, fino a Domenica di Giovanni Giuseppe (1784-1825).
Nel 1832, con il matrimonio della figlia di Domenica, Maria Maddalena (1806-1865)52, con GioBatta Gaier di Giacomo, ai Toch subentrano i Gaier, mentre per il cambio di nome della casa, da TINO a MADA bisogna attendere una seconda Maddalena (di cui Mada è l’evidente contrazione).
Attraverso il matrimonio di Maria Maddalena Gaier di Pietro (Mada, appunto) con Michele Leonardo Toch (1895), quest’ultima famiglia (tuttavia ramo diverso dal precedente, uscito da qui già nel 1832) rientra nella casa, oggi usata non continuativamente.
L’edificio, ristrutturato da Michele Leonardo Toch nel 1903, è stato in parte anche sede del distaccamento di Collina della Guardia di Finanza.

127 (d) — (lu) CAŞNÀCJ (TAMER, PASCOLIN, TOCH, CARLEVARIS, +), (da) MÌLIO DI MARTO (TOCH)

Questa casa è legata alle tre che seguono (128, 129, 130) in un intreccio edilizio/familiare/anagrafico assai complicato: alla più o meno contemporanea presenza, al tempo della costruzione, di tre fratelli e una sorella (più il padre di questi), si aggiungono successivi cambi di proprietà “volanti” e difficilmente ricostruibili nei fatti e nelle date.
Convertita in abitazione da un preesistente fienile da Giacomo de Tamer (Jacomèto, 1863-1941), l’edificio si guadagnò il nomignolo di CAŞNÀCJ per l’aspetto in verità poco attraente (metà casa, metà fienile, in verticale). Il termine potrebbe essere infatti spregiativo di cjaso = casa, oppure derivare direttamente dal friulano caşnaç = prigione (Pir107). In seguito, verosimilmente intorno al 1920, il costruttore Jacomèto la cedette al fratello Michele Pascolin (Vale, v. 130).
Il passaggio seguente a Toch avviene con l’acquisto dell’edificio da parte di Giovanni Toch di Michele di Mada (v. 126) mediante il quale la casa acquisisce per qualche tempo anche il nome di (da) MÌLIO DI MARTO (lett. “Emilia di Marta”, ovvero Emilia Brunasso da S, moglie di Giovanni Toch).
Per breve tempo, dopo la definitiva uscita da Ùnto/Caròno (intorno al 1930, v.114), l'edificio diviene residenza anche della famiglia Carlevaris.
Dopo la cessione della proprietà da parte dei Toch negli anni ’90, e la successiva ristrutturazione, la casa – oggi non abitata permanentemente – ha riacquistato il nome originale di Caşnac’.

128 (c) — (de) BALO (PASCOLIN, +), (da) ĞUNÙT (PASCOLIN)

Costruita dopo il 1850, la casa ha subito un primo rifacimento e ampliamento nel 1900 da parte di Giovanni Battista Pascolin (1865-1912) di Leonardo, fratello sia di Giacomo de Tamer (Jacomèto, v. 127) che di Michele Pascolin (Vale, v. 129). Giovanni Battista Pascolin è detto Ğunùt (diminutivo di Giovanni = Ğuàn = Ğu(a)nùt), da cui il nome all’epoca attribuito alla casa stessa, ĞUNÙT appunto.
Non è altrattanto chiara l’origine dell’altra denominazione, BALO, forse addirittura antecedente alla stessa ĞUNÙT, appellativo – come si è visto – assai posteriore alla costruzione.
Una fonte locale, raccolta intorno al 1990, farebbe risalire il nome Balo a una palla multicolore (fr. balo = palla, Sc16, Pir33) lasciata a una finestra della casa, in mezzo ai fiori, dalla moglie di Ğunùt, Giovanna Maria Barbolan. La datazione sarebbe quindi dei primi anni del 1900. Un’altra versione vorrebbe la medesima origine, ma ulteriormente retrodatata. Per quanto semplice ed esaustiva, l’ipotesi mi lascia abbastanza perplesso.
D’altra parte, volendo indulgere alle suggestioni, mi sembra accattivante una relazione con l’antico cognome Di Casabalata (lett. “della casa con palla”), antico endemismo di Frassenetto peraltro presente fino ai giorni nostri nella forma moderna Casabellata, riportato in anagrafe anche a Collina sin dal assenza di alcun nesso (causale e non) fra il nome della casa e il cognome menzionato, non sono in grado di proporre soluzioni valide. Tuttavia (e al di là del fascino della suggestione…) l’assonanza è indubbiamente degna di nota. Dulcis in fundo (e opinioni in libertà…), non è da escludere un più diretto e immediato riferimento a una abitante della casa piuttosto rotondetta…
Intorno al 1970 l’edificio viene abbandonato dalla famiglia Pascolin, e successivamente alienato. Interamente ricostruito nel 1998 nella sua forma presente dagli attuali proprietari, non è oggi utilizzato come abitazione permanente.

129 (b) — (in) MIÉÇ (TAMER, PASCOLIN, GAIER, COLLAVIZZA)

Limite purtroppo frequente in questo lavoro, a una etimologia palese si accompagna un’origine oscura. Tanto MIÉÇ è chiaro (in miéç = in mezzo, Sc162, Pir599) quanto è oscuro a che cosa si riferisca: in mezzo sì, ma a che?
La prima menzione esplicita della casa/casata è del 1841, nell’anagrafe dei morti, riferita a Maria Di Sopra di Mattia “vulgo di Miez”, cg. 1804 Giacomo Filippo Di Tamer fu Michele. Nel 1805, la nascita del primogenito della coppia, Antonio, è accompagnata dalla nota “in hereditate Mattia di Sopra dicti Miba“ (sic). Se questo Miba abbia qualche relazione con Miéç (o ne sia addirittura un “precursore”, retrodatando il nome e attribuendolo così ai Di Sopra) non è dato sapere. Tuttavia, il citato Mattia Di Sopra non è residente a Collina, ma è bensì originario di Vuezzis.
Al di là della apparente contraddizione in termini (in mezzo/Di Sopra), la soluzione Di Sopra appare una forzatura difficilmente sostenibile, e solo attraverso poco lineari successioni ereditarie: pertanto, sia pure con tutte le riserve del caso, l’edificio viene originariamente attribuito ai Tamer.
Resta il mistero sul Miéç. L’ipotesi “in mezzo ad altre case” parrebbe logica e naturale, trovandosi la casa esattamente in mezzo agli edifici 128 (Balo) e 130 (Vale): purtroppo, entrambe le costruzioni – almeno nella loro configurazione moderna, e in qualità di abitazioni – sono posteriori alla casa di Miéç, perciò stesso azzerando l’ipotesi, a meno di ricorrere a arditi equilibrismi.
Trovandosi l’edificio al margine superiore della villa, personalmente propendo (anche per disperazione: una dissertazione tanto vasta e approfondita, e la casa oggi non c’è più…) per un “transfer”: il nome è nato altrove e si è trasferito lassù al seguito della famiglia titolare.
Di ritorno ai titolari Tamer, questi lasciano il campo con il matrimonio di Anna con Leonardo Pascolin di Giobatta (1863), padre dei vari Ğunùt etc., edificatori delle due case adiacenti.
La casa è stata per un breve periodo abitazione in cuc anche di Giuseppe Gaier (1869-?) cg. Maria Maddalena Pascolin, figlia di Leonardo: tuttavia, la presenza dei Pascolin si può considerare ininterrotta dal 1863 al 1939. Nello stesso anno, il matrimonio di Ida Pascolin con Ferdinando Collavizza da Trasaghis vede l’ingresso di questi ultimi, fino agli anni ’60.
In tempi recenti (1990) l’edificio, già fatiscente, viene definitivamente demolito.

130 (b) — (da) VALE (PASCOLIN, SOTTO CORONA, +)

Anche questa casa è legata alle tre precedenti da stretti vincoli di parentela di costruttori e abitanti dell’una e delle altre: fu infatti costruita fra il 1898 e il 1901 da Michele Pascolin di Leonardo (Vale, 1867-?, v.127 e segg.) da cui prese il nome.
Circa l’origine del soprannome stesso, VALE, il buio è assoluto: personalmente, escluderei il nome proprio Valentino, con il quale non si intravvede nesso alcuno, e propenderei per un soprannome italianofono – di significato ambiguo53 – guadagnato da emigrante.
Abitato in origine da Vale stesso, l’edificio fu in seguito ceduto (probabilmente intorno al 1930) a Felice Sotto Corona (ramo Blâşo), la cui famiglia lo abitò per oltre mezzo secolo. Un ulteriore passaggio di proprietà negli anni ’80 coincide con una profonda ristrutturazione dell’edificio, che assume definitivamente l’attuale aspetto e destinazione (abitato non permanentemente).

131 (b) — (de) MARTÌNO vecchia (DI SOPRA, SOTTO CORONA, GAIER, +)

La prima menzione di MARTÌNO in anagrafe si incontra nel 1845 nel registro dei morti (vulgo della Martina), associata a Maria de Sopra fu Valentino (1763-1845) cg. Antonio Sotto Corona fu GioBatta. Valentino è a sua volta figlio di Martino Di Sopra (?-1743), cui parrebbe naturale fare risalire l’origine del nome Martìn, poi volto al femminile MARTÌNO probabilmente con riferimento alla moglie (oppure, sebbene meno probabile, riferito alla stessa figlia Maria).
Sull’appartenenza originale della casa, se a Di Sopra o a Sotto Corona, non è dato sapere nulla: sulla base di elementi abbastanza complessi (e precari), e non meritevoli di specifica trattazione, personalmente sono incline alla prima soluzione (Di Sopra). Nel 1827 ai Sotto Corona si affiancano i Gaier, in seguito al matrimonio di Maria Maddalena di Antonio (1802-1836) con Biagio Gaier di Giacomo.
La denominazione si trasferisce alla casa Martìno nuova (v. 108) in coincidenza con la costruzione di questa, seguita al matrimonio di Maria Maddalena Sotto Corona di Felice (1869-1927) con Giuseppe Antonio Sotto Corona (detto Nico, 1859-1930).
La vecchia casa viene demolita nel 1903: sullo stesso luogo sorgerà più tardi un fienile di proprietà Toch, a sua volta distrutto da un incendio nell’inverno 1944/45 e quindi ricostruito.
Dopo un ulteriore cambio di proprietà, l’edificio viene completamente ristrutturato negli anni ’90 e nuovamente convertito in abitazione, sebbene non permanente.

132 (a) — STÂLI DE BIÈLO (MAZZOCOLI)

Fienile di proprietà Mazzocoli nel 1850, quindi di Giuseppe Tamussin di Giuseppe de Biélo (1886-1965) da cui il nome trae origine (Stâli de Biélo = fienile de Biélo). Ristrutturato e trasformato in abitazione negli anni ’90 da discendenti Mazzocoli di Giuseppe Tamussin. Per l’origine de Biélo v. 244.
Non è abitata permanentemente.

133 (a) — STÂLI DI CHINI (GAIER)

Di recentissima costruzione (1998), sorge sul luogo di un preesistente fienile (stâli) già pertinenza della casa di CHINI (103), e è abitata dalla famiglia Gaier trasferitasi dal vicino edificio, cui deve naturalmente la denominazione.

Collinetta
Collinetta
134(da) FUSÉT (AGOSTINIS)

È una casa di cui si era persa memoria, recuperata (localizzazione e proprietà) solo in base al catasto austroungarico del 1849. Demolita in epoca ignota (forse intorno al 1870), oggi, conoscendone la localizzazione, si può forse rintracciarne sul terreno qualche resto, identificabile nel muro di sostegno di un orto.
Nel 1849, l’edificio è iscritto in catasto come casa di proprietà di Giuseppe Agostinis di Agostino (1790-1849), probabilmente trasferitosi qui dalla casa di FUSÉT a CM (242). Da qui la denominazione attribuita a questo edificio, altrimenti innominato. Il figlio di Giuseppe, Luigi, anch’egli fabbro, si trasferirà in cuc nella casa FÂRI (120) nel 1865.

Collina

Mappa di Collina (CM)
Mappa di Collina (CM)
201 (a) — (dal) PUÌNT (GAIER)

Costruita fra il 1955 e il 1960 da Giuseppe Gaier (Bepo di Adól) e inizialmente utilizzata come fienile e stalla, alla fine degli anni ’60 è stata modificata e destinata ad abitazione dai figli, che la abitano tuttora.
Il nome si riferisce al vicino ponte (puìnt = ponte, Sc242, Pir822) sul rio Cueštos, o rio Collinetta.

202 (b) — (in) FLÈCH (DURIGON, GAIER, +)

Costruita nel 1902 da Michele Amedeo Gaier (Mìchil, 1873-1944) di Pietro Antonio. I Gaier si trasferiscono in questo edificio provenendo dall’omonima casa in CP (v.113), a cui si rimanda per maggiori dettagli su origine ed evoluzione del nome FLÈCH (ricordiamo che Flèch è Valentino Durigon di Valentino da Vuezzis).
All’epoca della sua costruzione, la casa venne anche ironicamente definita il castello, forse a causa delle pretese dimensioni o, più probabilmente, della posizione esposta e dominante il sottostante abitato di CP. Di ciò è testimone il solito Caneva, che non si astiene dal consueto, salace commento. “1902 – Anche Gaier Michele fu Antonio, per capriccio, non per bisogno, si mise a fabbricare la casa, detta il castello, perché la moglie e la suocera non andavano d’accordo col padre.
L’edificio, disposto lungo l’asse SO-NE, consta in realtà di due parti distinte: la prima, a SO, costituì l’abitazione vera e propria della famiglia Gaier fino agli anni ’70, quando venne abbandonata; la seconda, a NE, fu completata nella parte esterna negli anni ’20. Sebbene esteticamente più pregevole, con massicci archi di pietra a porte e finestre, questa seconda parte non è venne mai resa abitabile.
A seguito di cambiamenti e frazionamenti di proprietà negli anni ’90, la parte a SO è già stata ristrutturata e nuovamente abitata (sebbene in via non continuativa), mentre la parte a NE, tuttora disabitata, mantiene per ora la forma originale in previsione di una probabile ristrutturazione.

203 (b) — (da) MÒDIE/BIANCHI (GAIER, SAMASSA)

Edificio in due parti simmetriche NE/SO, costruito fra il 1906 e il 1911 da due fratelli Gaier della casa de Tino (v. 126): Amodio (detto Mòdie, 1875- SO) e Valentino Ilario (detto Bianchi, o Bianchétti, 1877- NE).
MÒDIE è una friulanizzazione del nome proprio Amodio, mentre del soprannome BIANCHI, con cui era noto Valentino Gaier, non è dato conoscere l’origine. La parte Bianchi dell’edificio è tuttora Gaier, mentre dalla parte Mòdie i Gaier sono sostituiti dai Samassa con il matrimonio di Amelia di Amodio con Arturo Samassa di Pietro (1948).
Entrambe le parti sono oggi abitate in forma non permanente.

204 (a) — (da) MICJËL DI CÔGHER (CANEVA), (dal) CONT (CANEVA)

La data di costruzione originale risale al 1939, quindi l’edificio fu ampliato una prima volta dopo il 1945 e ulteriormente ristrutturato intorno al 1980. L’edificio prende nome da Michele Alberto Caneva fu Umberto (Micjël di Côgher 1906-1970, costruttore e proprietario; per il significato di Côgher, v. 233).
Quanto a CONT ("conte"), si tratta del soprannome dello stesso Michele Caneva, così detto al ritorno dall'emigrazione in Piemonte, a Sestrière. Visto il luogo, che pure non sembra estraneo alle origini del Cont, forse l'appellativo "senatore" sarebbe stato filologicamente più corretto, ma il corrispondente collinotto senatùor sa di neologismo e non ha la stessa immediatezza del titolo nobiliare. Vada dunque per Cont.
Tuttora proprietà della famiglia Caneva, la casa non è abitata in permanenza.

205 (a) — (da) RIÈNZO (MAZZOCOLI)

La costruzione è così denominata dal nome del costruttore, Lorenzo Mazzocoli di Luigi detto Riènzo (1906-1982).
L’edificio fu costruito in più fasi: nella prima (1941) fu costruita la parte a SE; nella seconda fase, negli anni ’50, l'edificio prese la forma attuale, espandendo verso NE il nucleo preesistente. Composto di numerose stanze o appartamenti un tempo anche locati stagionalmente, ospitava anche un emporio al piano terreno, gestito dalla famiglia Mazzocoli.
Non è oggi abitato in forma permanente.

206 (b) — (in) TÒCH (TOCH, SOTTO CORONA, SAMASSA, AGOSTINIS)

È un altro dei casi di relazione diretta fra il nome della casa/casata e il cognome anagrafico.
Luigi Samassa, costruttore dell’edificio nel evidentemente portato qui il nome di famiglia acquisito nel 1865 dalla famiglia Sotto Corona, a quel tempo titolare del nome “di TÒCH”, attraverso il suo matrimonio con Marianna Sotto Corona di Giuseppe. La prima menzione in anagrafe “vulgo di Tòch” è nel registro dei morti, riferita a GioBatta Sotto Corona di Giuseppe (1773-1840). Costui è coniugato (1797) con Maria Maddalena Toch di Niccolò (1770-1849, anch’essa “vulgo di Tòch” nel registro dei morti). Già nel 1803, tuttavia, nel registro dei nati il figlio della coppia, Tommaso Antonio Sotto Corona, è accompagnato dalla nota “in hereditate Niccolò fu Tommaso Toch”, con riferimento all’avo materno.
In questo modo, il nesso fra la famiglia Toch e la casa/casata di Tòch viene stabilito in maniera sufficientemente precisa: altro è, invece, ricostruire il percorso del nome attraverso gli edifici precedenti l’attuale. Ripercorrendo a ritroso l’anagrafe familiare dei Toch, l’analisi – sebbene documentalmente abbastanza circostanziata – si fa assai complessa a causa dei numerosi incroci matrimoniali. Il percorso più probabile porta alla casa di Marc (219) e a una casa adiacente di cui oggi non v’è più traccia, e alla cui descrizione si rimanda (Tòch vecchia, 256).
Gli Agostinis entrano per matrimonio (1933) di Callisto Giacomo di Gaetano con Letizia Rina Samassa, come pure rientra un altro ramo dei Sotto Corona (1957).
L'edificio non è abitato permanentemente.

207 (b) — (de) PÀURO (GAIER, DEL REGNO)

La casa fu costruita nel primo decennio del 1900 da Giovanni Vittorio Gaier di Valentino (1863-1936) in località (in) Vidrìnos, come ci tramanda, insieme alle sue personalissime opinioni, E. Caneva.
1902 – Giovanni Gaier di Valentino si mise a costruire la casa di Vidrìnos, siamo nel 1907 e ancora non è abitabile una parte. Non aveva casa abbastanza per due, là dal Pàur
(v. 230)? E ancora potevano fare delle camere nel fienile e aprire una porta verso Nuzzi” (cosa che, a onor del vero, altri in seguito realizzarono).
Il nome PÀURO si deve a Marianna Tolazzi di Giovanni (detta Pàuro, 1840-1900), moglie di Valentino Gaier e madre del costruttore della casa. A sua volta, Pàuro è la voltura al femminile di Pàur, che trova origine nell’edificio 230 (v.) per poi trasferirsi qui.
Nel 1915, il matrimonio di Marina Caterina Gaier di Giovanni (1896-1958) con Antonio Del Regno di Antonio (1887-1963) da Fisciano (SA) segna il passaggio della casa a quest’ultima famiglia, che la abita tuttora.
Per qualche tempo (probabilmente intorno al 1920) l’eificio ha anche funto da alberghetto, con il nome di Albergo Cogliàns.

208 (a) — (in) CARÒNO (MAZZOCOLI)

L’omonimia di questa con altre case sia a CP che a CM con identica denominazione (per tutte, l’edificio 116) è un fatto puramente accidentale, ovuto al toponimo generico Caròno che caratterizza anche il luogo ove questa casa sorge.
In realtà, coerentemente e in simmetria con quanto descritto in precedenza (v. 116), la caròno vera e propria si trova circa duecento metri più a valle lungo la strada, in corrispondenza delle case di Flech (202, 259). Sembra tuttavia che con l’accezione comune prâts di Caròno (prati di Caròno) si intendessero un tempo tutti i terreni dalla caròno vera e propria sin quassù54.
Costruita nel 1954 dai figli di Ernesto Mazzocoli, Ettore, Pietro e Lino, la casa è abitata dalle famiglie dei costruttori.

1935 circa. Collina da O.
1935 circa. Collina da O. La grande casa in basso a d. è Gjara, mentre al centro è ben distinguibile anche la casa di Tàvio di Nuži (211). Fra le due, in primo piano, la minuscola Cjasuto di Gjara (260).
209 (b) — (da) GJÀRA (GEROMETTA, BOCCALI, +)

Costruttore di questa casa, negli anni 1896-1898, è Pietro Antonio Gerometta di Natale (1836-1926), detto Gjàra (v. 227).
Manco a dirlo, l’origine di GJÀRA è da ricercarsi in una dizione imperfetta (il solito una tantum che dura una vita) da parte del malcapitato titolare.
È il caso del costruttore Pietro Gerometta che, più o meno coerentemente con le proprie origini (suo padre proviene dall’Arzino), osa definire gjara ciò che a Collina si direbbe invece gravo (ghiaia, Sc101, gjare Pir380). Ahilui, come molti altri prima e dopo: Gjara in vita e in morte, e ancora oltre!
Il matrimonio di Geltrude Emma Gerometta (1901-1926) con Ottorino Boccali di Telemaco da Todi (1896-?) nel 1921 segna l’ingresso nella casa anche della famiglia Boccali.
Nella sua parte NE, fino alla seconda metà degli anni ’60 l’edificio è stato anche sede del distaccamento della Guardia di Finanza. Ristrutturato negli anni ’80 e frazionato come condominio, si configura oggi come tale, con un indeterminato numero di comproprietari.

210 (b) — (in) CÓGU (TOCH, GAIER, TAMUSSIN, DEL REGNO, +)

L’edificio fu costruito fra il 1907 e il 1911 dai figli di Giuseppe Pasquale Toch. Il nome CÓGU giunse qui al seguito degli stessi costruttori, provenienti dall’originale, omonima casa (v. 257). Originariamente, la casa constava di due parti simmetriche a NE e SO – oggi indistinguibili dopo una profonda ristrutturazione – entrambe con accesso diretto dalla strada.
Nel secondo dopoguerra, l’edificio fu abitato a NE da Biagio Gaier di Ottaviano di Chini (1913-1970), e a SO da Giulio Tamussin di Giuseppe di Betàn (1913-1983), prima della citata ristrutturazione effettuata intorno al 1980 dagli attuali proprietari.

211 (a) — (da) TÀVIO DI NUŽI (TOCH), (de) COPERATIVO (TOCH)

Il primo nome si deve a Ottavio Toch (1897-1980) di Giovanni Giuseppe, costruttore della casa intorno al 1930. L’edificio è stato anche per lungo tempo, e fino agli anni ’70, sede della Coooperativa Carnica, da cui la seconda denominazione ampiamente in uso durante l’esercizio dell’attività commerciale con annessa mescita.
L’immobile, che ha subito qualche rimaneggiamento nella parte SO (la parte NE è ancora sostanzialmente qual era in origine), è abitato dai Toch discendenti del costruttore.

212 (a) — (da) NÈLIO DI NUŽI (TOCH), (te) BASSO DI SÓ(T)PÓÇ‘ (TOCH) [proposto]

Come per gran parte delle case costruite in tempi recenti (1966), il nome è quello del costruttore/abitante, in questo caso Nelio Toch di Nuži.
Alla denominazione con cui la casa è comunemente nota associo anche il microtoponimo ove sorge l’edificio – la BASSO DI SÓ(T)PÓÇ, certamente poco noto e cortesemente suggeritomi dal proprietario della casa –, a titolo beneaugurale e (perché no?) come suggerimento per una ormai matura e opportuna rivisitazione, anche formale, della toponomastica urbana.

213 (a) — (da) ÀNZULE, (GAIER/BOEZIO, GERIN/GAIER), (in) SÓ(T)PÓÇ [proposto]

I costruttori/proprietari (1972) sono Angelina Gaier di Valentino ved. Boezio (Ànzule di Bianchi), 1912-1999) e il figlio Rodolfo, famiglia tuttora presente nella parte inferiore dell’edificio e dalla quale evidentemente trae origine il nome della casa stessa. La parte superiore, acquisita da Eduilio Gerin da Sigilletto cg. Alida Gaier (anch’essa di Bianchi) è abitata da quest’ultima famiglia.
Anche in questo caso, sarebbe possibile e auspicabile una identificazione dell’edificio con il microtoponimo – peraltro ancor oggi d’uso assai comune – ove si trova la casa stessa, (in) Só(t)Póç = sotto i pozzi, per le soprastanti prese d’acqua.

214 (a) — (da) GIANNI DI NUŽI (TOCH)

Come già per le due precedenti (e con poca fatica per chi scrive), porta il nome del costruttore Gianni Toch (1938-1980) di Nuži.
Anch’essa costruita nei primi anni’70 (1971), la casa è tuttora abitata dalla famiglia del costruttore stesso.

215 (a) — (da) PRIMO DI PÉÇ (GORTANA), (in) BALBÌN (proposto)

La denominazione con cui l’edificio è noto è quella convenzionale del nome proprio del costruttore (negli anni ’70) e ancora oggi abitante della casa.
Tuttavia, la precisa localizzazione dell’edificio consentirebbe una diversa e più “personale” denominazione (più personale del nome proprio può apparire un po’ pretenzioso, ma ci capiamo lo stesso…), suggerendo il nome di BALBÌN. Sebbene forse poco noto e con etimologia oscura, Balbìn è infatti il preciso microtoponimo ove si trova l’edificio.

216 (a) — ALBERGO COGLIÀNS (BARBOLAN)

L’immobile fu edificato negli anni dal 1954 al 1965 da Severino Michele Barbolan di Michele (1931-1972), in luogo di un preesistente fienile, quest’ultimo nel 1849 già proprietà di Giovanni Tolazzi Pàur.
L’albergo è abitato e gestito dalla famiglia del costruttore.

Inizio 900. Il fenile in luogo dell’attuale Albergo Cogliàns. In secondo piano, seminascosta, è visibile la casa de Zuâno (217)
Inizio '900. Il fenile in luogo dell’attuale Albergo Cogliàns. In secondo piano, seminascosta, è visibile la casa de Zuâno (217).
217 (d) — (de) ZUÂNO (SOTTO CORONA/ MAZZOCOLI/CASANOVA), ? (TOCH), (in) MAÇÓCOL (MAZZOCOLI)

Non è nota l’epoca di costruzione della casa, la cui struttura testimoniava una certa vetustà: certamente era anteriore al 1850.
L’edificio è originariamente abitato da una famiglia Toch, cui subentrano nella prima metà del 1800 i Mazzocoli di MAÇÓCOL, trasferitisi qui da CP (v.117) con Giovanni di Giacomo (1806-1885), ad personam titolare anche del grazioso appellativo di Boia (di origine fortunatamente non nota…).
ZUÂNO è invece appellativo di Giovanni Michele Sotto Corona (1872-1947), detto per l'appunto la Zuâno (sic!, lett. la Giovanna), figlio di GioBatta e di Anna Pasqua Mazzocoli di Giovanni.
Con la Zuâno, nell’edificio fa il suo ingresso la famiglia Sotto Corona, che ne rimarrà proprietaria fino alla demolizione, avvenuta negli anni ’60 a casa ormai da tempo disabitata.
Il perimetro della casa demolita è ancora ben visibile in corrispondenza dell'attuale parcheggio dell’Albergo Cogliàns (216).

218 (d) — (da) BÈPO DI CAMINÒN (BARBOLAN), (?) GJUTA (TOCH?), (in) NADALÌN (GEROMETTA)

Natale di Natale Gerometta da Asio (?-1878), che già da tempo esercita l’attività di pastore a Collina, nel 1834 vi si stabilisce definitivamente, sposando Maria Toch di Mattia (1798-1854) ed entrando in cuc in questo edificio. È lui il Nadalìn (diminutivo di Natale, come d’uso per distinguerlo dall’omonimo padre) da cui prende nome la casa e avvio la casata. Tutti i discendenti Gerometta lasceranno poi, in un lungo percorso, questa abitazione per trasferirsi altrove (209, 227, 247, 253).
Con tutta probabilità, è questa la prima sede della LATTERIA SOCIALE (v. 302), dall’anno di fondazione 1881 alla costruzione del nuovo edificio nel 1885, ovvero la cosiddetta casa di GJUTA ripetutamente citata da E. Caneva nelle sue memorie. A sua volta, GJUTA parrebbe inequivocabile aferesi di (Vi)giuta, diminutivo di Luisa (Vigja, con la finale in a tipica del medio Gorto): purtroppo, in anagrafe non sono reperibili Luise o Vigje utili allo scopo.
Nella casa ai Gerometta subentrano quindi i Barbolan, del ramo Lùzio/Caminòn, di ritorno da CP. Il nome attuale dell’edificio si deve infatti a Giuseppe Barbolan di Giovanni Giuseppe (1891-1968), conosciuto appunto come Bèpo di Caminòn (Caminòn è il soprannome del padre dello stesso Bèpo, Giovanni, v. 116), il quale ricostruisce interamente l’edificio negli anni 1930-1934. La casa è tuttora abitata dai suoi discendenti.

219 (b) — (in) MARC (TOCH, CANEVA, TOCH, GERIN, TAMUSSIN)
Inizio '900. L'Albergo di Tamer, precursore dell'attuale Albergo Volaia. A d. è parzialmente visibile anche casa Nuži
Inizio '900. L'Albergo di Tamer, precursore dell'attuale Albergo Volaia. A d. è parzialmente visibile anche casa Nuži.

Sebbene ricostruibile con sufficiente precisione, il percorso delle proprietà (o almeno degli abitanti) dalle origini a oggi è quanto mai tortuoso e accidentato: tuttavia, se le supposizioni avanzate sono esatte, il nome della casa è rimasto inalterato per oltre tre secoli, fino ai giorni nostri.
Il Marco in questione (ché di questo evidentemente si tratta) il cui nome è giunto sino a noi è probabilmente Marco Toch di Pietro (1673-1729)55.
Il successivo e stabile ingresso dei Caneva nella casa coincide invece con il matrimonio di Niccolò Caneva di Antonio (1743-1787) con la nipote di Marco Toch, Caterina Toch di Mattia (1749-1814), avvenuto nel 1774. Tuttavia, i Toch non scompaiono immediatamente, ma solo qualche decennio più tardi. La discendenza Caneva si ritrova in seguito – sola – sia nel catasto del 1849 che nel censimento del 1901.
Alla morte di Anna Caneva (1847-1904) si interrompono le successioni ereditarie dirette, e interviene una complessa serie di passaggi di proprietà che si concludono negli anni intorno al 1980 con il subentro di un ramo della famiglia Tamussin (Bràido) che, dopo una rilevante ristrutturazione dell’edificio, lo abita tuttora.

220 (d) — ALBERGO VOLAIA (ROMANIN, +, MAZZOCOLI), (in) NINO (GAIER, GERIN), (da) JACOMÈTO (TAMER), ALBERGO DI TAMER (TAMER)

Il nucleo originario di questo edificio, originariamente composto di abitazione con annesso fienile e ripetutamente ristrutturato, è piuttosto antico, risalendo almeno alla metà del 170056.
Le prime notizie anagrafiche risalgono al 1849, quando proprietario/abitante della casa risulta essere Antonio Gaier di Giacomo (1789-1859). Il nome NINO è probabilmente da mettere in relazione con la moglie dello stesso Antonio, Anna Maria (Marianna) Di Tamer di Giovanni Giacomo (1802-1871), come diminutivo di Marianna (MarianinoNino)57.
Si susseguono quindi due passaggi in linea femminile. Nel 1861 Lucia Caterina di Antonio Gaier sposa Giovanni Gerin di Valentino. Nel 1886 la figlia di questa coppia, Maria, va in moglie a Giacomo Di Tamer di Anna (1863-1941, ramo Di Tamer diverso dal precedente). Quest’ultimo è per l’appunto lo JACOMÈTO della denominazione che sostituisce NINO anche se, in verità, il nome ufficiale del tempo è ALBERGO DI TAMER, in quanto l’edificio già allora svolge la funzione di pubblico esercizio.
La funzione di albergo verrà in seguito ininterrottamente mantenuta nonostante il cambio di proprietà nel 1921, una prima profonda ristrutturazione intorno al 1930, e una seconda nel 1978.
In questi anni si succedono (tutte ormai mantenendo l’attuale denominazione di ALBERGO VOLAIA), numerose conduzioni della attività alberghiera da parte di gestori (non proprietari) succedutisi nel tempo: fra questi, la famiglia di Giuseppe Romanin (Podestà) da Forni Avoltri fino agli anni ‘60, e infine la famiglia Mazzocoli, che gestisce l'albergo dal oggi.

221 (a) — (dal) ROMÀN (+)

La denominazione si identifica con le origini e la provenienza del costruttore/proprietario che costruì l’edificio negli anni ’70.
Non è abitata permanentemente.

222 (d) — (da) FANÌN (FALESCHINI), AL LEONE (GAIER, COIANIZ, DI QUAL, GERIN), (in?) SERGJO (?) (SOTTO CORONA), (in?) TÀMER (TÀMER?)

I nomi sono abbondanti, almeno quanto fitta è l’oscurità su tempi e modi dei numerosissimi passaggi in questo autentico porto di mare.
L’attuale denominazione oscilla fra FANÌN e AL LEONE, usate in egual misura: la prima più vecchia (non però antica), la seconda più recente. Gli altri nomi, certamente anteriori, sono oggi del tutto in disuso.
Da un documento del 1858, la denominazione più antica parrebbe essere TÀMER, ma quasi certamente l’omonima famiglia non vi abita più già dall’inizio del 1800 secolo. D’altra parte, i Tamer sono certamente originari di CM, dove abbondano già nel 1600 e dove le tracce documentate delle loro abitazioni risalgono alla metà del 1700 (v. 220): questo edificio, che ne porta ancora il nome ben dopo la dipartita della famiglia, potrebbe essere il centro (o uno dei centri) di irradiazione dei Tamer verso altre case della villa (120, 220, 253).
L’oscurità regna anche sul sopravvento dei Sotto Corona, probabilmente avvenuto attraverso un altro passaggio intermedio rimasto ignoto. Nel 1849, la casa è abitata da Antonio Sotto Corona di Antonio (probabilmente solo in via temporanea), mentre il proprietario è Giacomo Sotto Corona di Giacomo (di Sergjo in anagrafe, v. 238): quali che ne siano gli assetti proprietari, i Sotto Corona sembrano stabilirsi qui sino dalla fine del 1700.
Nuovamente, non è chiaro neppure come e in quale anno (comunque fra il 1849 e il 1901) ai Sotto Corona subentrino i Faleschini. Nel censimento del 1901 è Giovanni Faleschini di Pietro (1836-1907) detto Fanìn (contrazione dello stesso cognome Faleschini?, oppure da un diminutivo di Giovanni → Gjovanìn → Vanìn → Fanìn?), ad abitare la casa, che da lui prende appunto il nome.
In seguito, in virtù dell’attività di osteria con annesso gioco di bocce che vi viene svolta sotto l’insegna Al Leone58, si succedono qui numerosi nuclei familiari di volta in volta proprietari/abitanti/gestori: Giovanni Gerometta, detto Menelik (sic), Giuseppe Biagio Gaier (Chìcchidi), Giuseppe Coianiz da Tarcento (cg. Maria De Prato, Marìo di Camìlo), Pietro Di Qual (Piëri de Fusèto), Eduilio Gerin da Sigilletto (cg. Alida Gaier di Bianchi).
Il vortice ha termine negli anni ’70 quando, chiuso l’esercizio, l’edificio rimane disabitato e il gioco delle bocce ospita una rigogliosa e ampia varietà di piante spontanee59.

223 (b) — (in) ŠULÌN (TOCH, TOLAZZI, +), (dal) MAEŠTRI (TOLAZZI)

Il nome storico e oggi prevalente, ŠULÌN, deriva quasi certamente da Orsola de Medicis di Francesco (?-1716), moglie di Mattia Toch di Nicolò (1645-1730), attraverso il diminutivo Uršulo-Uršulìno (Orsola-Orsolina), poi volto al maschile (caduta della o finale) e quindi, per aferesi, nell’attuale Šulìn (o viceversa: prima l’aferesi e poi la voltura al maschile).
Il passaggio da Toch a Tolazzi si ha con Michele Toch di Giovanni Giuseppe (1789-1844) il quale, privo di discendenti, nomina propri eredi i figli della sorella Margherita, maritata con Giovanni Tolazzi di Niccolò (1791-1874), i cui discendenti sono tuttora proprietari della casa.
L’edificio, ricostruito nel 1939, è anche noto con il nome (dal) MAEŠTRI, con riferimento a Edoardo Tolazzi di Michele (lu Maeštri, 1898-1967), per molti anni insegnante nella scuola di Collina.

224 (d) — (de) TINO (GAIER, GOLLINO, CARLEVARIS, +), (de) TRINTÌNO (TAMUSSIN, TOCH, BARBOLAN)

Prima dell’acquisizione dell’attuale denominazione (de) TINO, successiva al 1868, la casa era conosciuta come (de) TRINTÌNO o TRENTÌNO (v. anche 227), nome che compare già nel 1761 come attributo di Leonardo Tamussin (Trentìn, ?-?) di Giovanni.
L’origine probabilmente è da ricercarsi in un attributo di emigrante in Trentino o in Tirolo, forse lo stesso Leonardo. La stessa denominazione si incontra poi nel 1797 come nota al matrimonio di Maria Tamussin di Leonardo (“vulgo Trentìn”) con Giovanni Barbolani fu Biagio, matrimonio che segna anche l’ingresso dei Barbolan nella casa e l’acquisizione del nome da parte di quest’ultima famiglia. È evidente il passaggio TRENTÌN-TRENTÌNO/TRINTÌNO da padre a figlia, come pure sembra probabile (sebbene non documentalmente certa) la preesistente presenza dei Tamussin, titolari della casata, nella casa stessa.
Nel 1868, Marina Santina Barbolan va in moglie a Giovanni Giuseppe Gaier di GioBatta (1836-?), il quale – naturalmente in cuc – porta qui da CP il nome della casa (de) TINO (v. 126).
A sua volta, verso la fine del 1800, il matrimonio della figlia di Giovanni Giuseppe Gaier, Luigia, con Angelo Gollino di Antonio da Pioverno porta all’ingresso di quest’ultima famiglia, il cui figlio Alberto (Berte) vi rimarrà fino alla morte, nel 1973. Nel frattempo, usciti i Gaier, la proprietà passa ai Carlevaris di Caròno, che tuttavia non vi lasciano traccia onomastica.
Per la cronaca, aggiungo anche il grazioso appellativo di Bavùos (lett. "Bavoso"), affibbiato intorno al 1910 dall’ineffabile E. Caneva (auspicabilmente a titolo suo personale) a qualche abitante della casa, e quindi alla casa stessa (dal Bavùos).
Fantasie e maliziosità del maestro a parte, questa denominazione non risulta altrimenti nota, e men che meno in uso. Anche il titolare del simpatico epiteto non è altrettanto evidente del significato: rimarrà anonimo.
L’edificio, successivamente oggetto di un ulteriore, ennesimo passaggio di proprietà, è oggi disabitato e in stato di evidente abbandono.

225 (d) — (in) CÉCH (BARBOLAN, TOCH, BUZZI), (da?) ŽÒN (TOCH), (de?) (V)UÀJO (CANEVA)

È una delle scoperte tardive e più recenti nel corso del lavoro. Il nome (V)UÀJO, frequente in anagrafe ma oggi del tutto obsoleto, e per lungo tempo di collocazione ignota, è invece attribuibile con certezza a questa casa.
Nel catasto del 1849 l’edificio risulta di proprietà di Giovanni Caneva di Mattia (1791-1884), cg. nel 1827 con Maddalena Toch (1785-1874) di Giovanni Giacomo. La famiglia di Giovanni Caneva è detta in anagrafe della Uàja, ma quasi certamente la grafia è frutto della solita trasposizione in latino del collinotto (femminile!) Uàjo o Vuàjo: la nota accompagna già il padre di Giovanni Caneva, Matteo (1745-1825) e i suoi familiari, e la denominazione è ancora in uso nel 1858.
Le origini del nome non sono note. Pare tuttavia che il termine vuajât (oggi totalmente in disuso, manca anche in Sc) un tempo designasse persona di fisico prestante e di bell’aspetto. Da menzionare, puro titolo di curiosità linguistica, anche vuàino (fagiolo, Sc353, friul. uaìne Pir.1228, da vagina REW9122), ma si tratta evidentemente di un falso diminutivo di vuajo o vuaìo, non utile allo scopo.
Giovanni Caneva non lascia eredi: gli subentrano i parenti della moglie Maddalena, fra i quali il pronipote Giuseppe Lorenzo Toch (1865-1948), detto CÉCH (forse con riferimento a Francesco Giuseppe?). Allo stesso tempo, la moglie di Céch, Beatrice Mazzocoli di Giovanni è curiosamente detta ŽÒN, forse da un accrescitivo di Beatrice = BeatrižònŽòn. La figlia di Žòn/Céch, Carolina (Carulìno di Zòn, 1891-1948), va in moglie nel Guglielmo Buzzi da Pontebba (1888-?), i cui discendenti sono tuttora proprietari della casa, interamente riedificata nel 1971-72.

1932. Famiglia Tamussin Bòrtul et al. sull'uscio della casa omonima, di cui è visibile il portale in primo piano. Sullo sfondo, la casa di Céch (225)
1932. Famiglia Tamussin Bòrtul et al. sull'uscio della casa omonima, di cui è visibile il portale in primo piano. Sullo sfondo, la casa di Céch (225)
226 (b) — (in) BÒRTUL (LONGO, TAMUSSIN, TOCH)

L’iniziatore della casata è Bartolomeo Longo di Natale (1717-1785) da Auronzo, cg. nel 1753 con Maria Maddalena Barbolan di Odorico (1722-1787, morta alla rovisa di CP).
Bartolomeo (Bòrtul) è uno dei primi forestieri a inserirsi a pieno titolo nella comunità di Collina. Sembra trattarsi di persona facoltosa, proprietario terriero e di questa casa che – restaurata nel 1986 – ancora oggi mostra i segni di un certo prestigio, come il portale in pietra e il rosone in ferro battuto, elementi che a Collina trovano analogie solo in casa FÂRI a CP (120, non casualmente magione degli stessi Di Tamer acquirenti di Morareto nel 1771)60.
Bòrtul non ha eredi maschi, e la genealogia Longo si esaurisce: l’unica figlia sopravvissuta, Caterina, va in moglie nel Giovanni Giacomo Tamussin (1756-1813), iniziatore della casata Tamussin Bòrtul le cui propaggini giungono ai giorni nostri.
I Toch subentrano nel 1958, con il matrimonio di Margherita Tamussin di Michele con Ciro Toch di Ottavio.

227 (d) — (da) NARDO (BARBOLAN/DURIGON, GEROMETTA, TOCH, +), (de) TRINTÌNO (BARBOLAN, TOCH, GAIER), (da) GJÀRA (GEROMETTA), (da) VENANZIO (TOCH)

Si tratta di uno dei casi più complicati di intreccio edilizio/onomastico, sia per il numero di famiglie succedutesi, sia per le diverse ristrutturazioni che hanno profondamente alterato forma e destinazione dell’edificio, fisicamente corpo unico con il E e con il O.
L’epoca di costruzione dell’edificio non è nota, tuttavia si deve fare risalire intorno ai primi decenni del 1800. Nel 1849 la casa risulta già divisa nelle due parti che ne caratterizzeranno l’onomastica successiva, abitate da due fratelli, figli di Giovanni Barbolan de Trintìno: la parte superiore con ingresso a N, (da) NARDO, è abitata da Leonardo (1812-1875; il nome volto al femminile Nardo è probabilmente riferito alla moglie); la parte inferiore, detta (de) TRINTÌNO, con ingresso dalla piazza e oggi trasformata in rimessa, è abitata da Giuseppe (1809-1878). TRINTÌNO è anche il nome della casa 224, dalla quale probabilmente proviene (tuttavia, la primogenitura della denominazione non è certa: il percorso potrebbe anche essere al contrario).
I successivi assetti proprietari (mutati per via ereditaria e per compravendita) sono piuttosto complicati, e il loro dettaglio poco aggiunge alla essenza del lavoro. Per quanto concerne invece le altre denominazioni della parte inferiore, peraltro tutte oggi in disuso, GJÀRA si rifà a Pietro Antonio Gerometta di Natale (1836-1926, v. 209), proprietario della casa fino al 1903, quando viene ceduta a Paolo Venanzio Toch di Mattia (1871-1940), da cui l’edificio pure prende il nome di VENANZIO.
La parte superiore, ristrutturata intorno al 1985, è ancora oggi identificata con la denominazione (da) NARDO; la parte inferiore, come già detto destinata a autorimessa, risulta praticamente anonima.

228 (a) — (da) STÂLI DI BÒRTUL (TOCH)

Nella struttura odierna, l’edificio si deve a Michele Tamussin (Micjël di Bòrtul, 1897-1957), che nel 1948 lo costruisce in luogo del preesistente fienile di proprietà della stessa casa Bòrtul (da cui STÂLI DI BÒRTUL).
Corpo unico con i due edifici precedenti (è la parte più occidentale del blocco, con entrata a N), la costruzione negli anni ’60 e ’70 fu anche adibita a laboratorio di falegnameria. La parte superiore fu poi resa abitabile dagli eredi di Micjël, che tuttora la abitano; la parte inferiore, con ingresso a S verso la piazza, è adibita – al pari della contigua casa 227 – a autorimessa.

229 (b) — (in) NUŽI (BARBOLAN, TOCH)

L’edificio – di età indefinibile61 – era un tempo abitato da una famiglia Barbolan, cui fecero quindi seguito i Toch, probabilmente verso la fine del 1700 e dopo la morte di Giovanni Giacomo Barbolan di Osvaldo (1740-1790). È costui, morto in Stiria e probabilmente senza eredi, l’ultimo dei Barbolan documentato in questa casa. Subentrati probabilmente attraverso un matrimonio (forse Giovanni di Giacomo cg.1778 con Maria Barbolan di Osvaldo), da allora i Toch si susseguono nella casa senza interruzione fino a oggi.
NUŽI è di derivazione latina, con radice probabilmente in nucula = nocciola (REW5984) e attraverso il nome proprio Nucius.

230 (b) — (dal) PÀUR (PUECHER, TOLAZZI, ROMANIN)

Storia e percorso lunghi e travagliati ma anche, per una volta, chiari.
Il nome dell’edificio recentemente demolito (1998) si rifà a Giovanni Battista Puecher di Giorgio da Sappada (1709-1792, v. cognomi), detto Pàur dal tedesco bauer = contadino. Il Pàur si stabilisce a Collina nel 1734, sposando Domenica Barbolan di Domenico (1707-1772). Casa e denominazione passano ai Tolazzi nel 1789, attraverso il matrimonio di Maria Puecher di Giovanni Battista (1747-1818) con Niccolò Tolazzo di Domenico da Moggio (1745-1808), per rimanervi fino agli inizi del 1900.
Nella prima metà del 1900 l’edificio vede alternarsi proprietari e abitanti. Acquistato da don Pietro della Pietra da Calgaretto (pre Piëri, cappellano a Collina), viene successivamente e per breve tempo abitato dai Tamussin (Betàn) dopo l’epidemia di tifo del 1928, e quindi dai Barbolàn (Titài) dopo l’incendio dell’omonima casa di CP (106) nel 1944.
Nel secondo dopoguerra la costruzione viene acquistata dalla famiglia Romanin di FA (
Podestà
), e quindi definitivamente abbandonata negli anni ’60.

231 (b) — (de) BRÀIDO (TAMUSSIN), (da) MÈN DI JÀCOM(O) (TAMUSSIN)

Sotto il profilo edilizio non si hanno informazioni degne di nota. Nella sua sostanza e posizione, l’edificio ha oltre 150 anni, in quanto già censito nel 1849; nella forma, è probabile che la parte NE sia stata aggiunta in un secondo tempo al corpo principale, più antico.
Anna Marcuzzi di Giovanni Battista da Vuezzis (detta la Bràido, 1837-1912), cg. Giorgio Tamussin di Giorgio (1837-1899) è all’origine del nome attuale della casa/casata. A sua volta, il soprannome si identifica con bràido, corrispondente nella parlata di Collina al friulano bràide (podere chiuso, Pir71)62.
Assai più complessa si presenta la ricostruzione di MÈN DI JÀCOM(O), e non solo per la compresenza (confusione?) delle due denominazioni di Jàcom/di Jàcomo.
D’acchito, parrebbe trattarsi di semplice e trasparente traduzione di Domenica di Giacomo/Giacoma. Al maschile come al femminile, di Jacom(o) v’è ampia traccia in anagrafe, mente per Mèn il riferimento al femminile Domenica è invece quasi d’obbligo, in quanto a Collina il maschile Domenico è del tutto inesistente. Quindi, Domenica di Giacomo/a.
Naturalmente, le cose non sono così semplici.
Per rintracciare in anagrafe una corrispondenza soddisfacente, bisogna risalire agli inizi del 1700, dove effettivamente si trova una Mèn di Jàcom (Domenica Barbolan di Giacomo, cg. nel 1715 con Giacomo fu Odorico Toch). Esiste anche un rapporto di parentela (ma dove non c’è, a Collina?) fra questa coppia Toch e la famiglia Tamussin che in seguito occuperà la casa: tuttavia, la lunghezza e la tortuosità del percorso mi lasciano un poco perplesso sulla attendibilità di questa soluzione.
Va pure rilevato che in anagrafe Tamussin si ritrovano ben tre Giacoma in tre generazioni successive. Volendo cercare fra esse una “colpevole”, la prima delle tre, Giacoma Di Corona di GioBatta da S (1767-1837) cg. nel 1791 con Michele Tamussin di Giorgio (1758-1803), è la maggiore indiziata (sebbene l’ultima delle tre Jàcomo sia a sua volta cognata della citata Bràido). Per tutte manca tuttavia un distinguibile riferimento a Mèn, sia come derivato di nome proprio (non v’è alcuna Domenica nei dintorni), sia di altra natura. Nel buio, una nota di colore (di luce?): una omonima casata Mèn di Jàcomo si trova anche a Forni Avoltri.
L’edificio è oggi abitato dai discendenti Tamussin de Bràido.

232 (b) — (in) TÛŠ (CANEVA, TOCH, BARBOLAN, DEL REGNO, +)

La casa consta di due parti (N e S) accomunate nell’edificio e nel nome, sebbene con ingressi distinti e storie separate.
Il nome TÛŠ risale almeno al 1600: Nicolò di Leonardo de Kaniva (1635-1715; de Kaniva è una delle prime forme per l’attuale Caneva) è il primo a cui l’appellativo viene associato.
L’origine del nome sembra essere nel collinotto tûš = presa in giro (Sc337)63, di etimologia peraltro ignota (forse onomatopeica). Sebbene in anagrafe non compaia mai associato alla famiglia Toch, è tuttavia possibile che, prima di giungere agli attuali Barbolan (titolari da circa 150 anni), il nome Tûš sia stato per l’appunto attributo di una famiglia Toch abitante la parte N dell’edificio fino alla metà del 180064. La parte S resterà anch’essa Barbolan fino alla seconda metà del ventesimo secolo, quando cambierà proprietà.
L’edificio, oggi frazionato in più unità abitative con ingressi separati, è stato ampiamente ristrutturato negli anni ’80.

233 (d) — (in) CÔGHER vecchia (CANEVA)

È questa la casa natale e d’abitazione del nostro Virgilio nei gironi danteschi di Collina, il quale – una volta di più – si mostra non certo di mano leggera, anche scrivendo di casa propria!
1904-1905 – Furono eseguiti lavori di costruzione, restauri e coperto dei fratelli Caneva fu Leonardo. Lavori male eseguiti tanto dai muratori quanto dai falegnami, ma si dovette pagare lo stesso. Così avviene quando si ha molta buona fede e da fare con i disonesti, come quelli di (omissis) e (omissis). Unici che lavorarono da galantuomini i tagliapietre di Ludaria.
A questi lavori – dei quali palesemente il nostro Eugenio Caneva non fu soddisfatto – si riferisce la data (1904) ancora oggi ben visibile sopra la porta d’ingresso. Nella sua struttura originale, con soffitti a volta e anguste scale di pietra, l’edificio è probabilmente assai più antico (presumibilmente del ’700).
Per quanto concerne la denominazione CÔGHER, la prima nota in anagrafe risale già al 1840, quando muore, infante, una figlia di Leonardo Caneva “vulgo di Cogher”; la seconda menzione, di cinque anni posteriore, risulta tuttavia più interessante e rivelatrice della precedente. Nel 1845 viene infatti registrata la morte della madre del citato Leonardo Caneva, Maria Tamussin (1772-1845), vedova di Leonardo Caneva (anche lui!) e anch’essa “vulgo di Cogher”. Dato quanto meno per improbabile che il côgher sia la stessa Maria, l’attributo a questo punto andrebbe retrodatato perlomeno al coniuge di Maria, Leonardo Caneva di Tommaso (1768-1832), avvicinandosi così all’epoca presunta di costruzione dell’edificio.
Quanto al significato, si tratta chiaramente di côgher = asino (Sc132, friul. cógar, Pir167), non necessariamente epiteto oltraggioso di persona: potrebbe anche riferirsi, ad es., al possesso, o direttamente alla presenza in loco dell’animale in questione65.
L’edificio è da molti anni disabitato.

234 (c) — (in) CÔGHER (CANEVA), (in) BARBOLÀN (BARBOLAN, SOTTO CORONA), (in?) TUTO, (in) CODÂR (SOTTO CORONA), (da) GJÙLIO (SOTTO CORONA)

Oggi l’edificio è prevalentemente conosciuto con il nome della casata di CÔGHER, mutuato dalla casa adiacente (233) al tempo dell’acquisizione da parte della famiglia Caneva, che tuttora la abita. Si tratta in realtà di una casa/casata assai complessa, almeno nelle sue origini e fino all’inizio del 1900.
Il nome originale (almeno fra quelli noti), e tuttora in uso fra gli anziani del paese, è (da) BARBOLÀN, e già questo sembrerebbe fugare dubbi e incertezze sull’origine della denominazione stessa della casa (v. cognomi).
Naturalmente, così non è. La ricerca dell’anello di congiunzione fra il nome della casa e l’omonimo cognome è operazione che – sebbene certamente non impossibile – lascia molte ombre sull’attendibilità del percorso. Inoltre, la preposizione (da) che viene premessa al nome lascia supporre quest’ultimo (almeno in origine) quale prerogativa personale di un individuo non identificabile, quasi certamente di sesso maschile.
A ritroso nel tempo, s’incontra per prima la denominazione GJÙLIO, relativamente recente. Si tratta di Giulia Di Sopra di Antonio (1839-?), seconda moglie di GioBatta Niccolò Sotto Corona di Giobatta (1812-1897). Quest’ultimo è detto codâr (contenitore per la cote Sc131, Pir165, dal latino cotariu REW2281): a sua volta, CODÂR stesso è una delle denominazioni di questa casa, poi trasferita a CP dall’ultimo figlio di Codâr stesso, Gaetano Giuseppe (v. 122).
Le cose tuttavia si complicano quando si consideri che un altro figlio di Codâr, Giuseppe Lodovico è detto ‘Sèf di Barbolàn, portando così a 3 le denominazioni contemporaneamente presenti nella seconda metà dell’80066.
Il nesso con i Barbolan “veri” (ovvero con il cognome Barbolan) sfugge a una verifica diretta: alcuni indizi (al limite della pura supposizione) fanno propendere per un passaggio intermedio attraverso altro cognome (probabilmente Toch).
Per completezza, e anche in relazione a un edificio adiacente (v. 244), va detto che alcune fonti di fine ‘800 menzionano anche la denominazione (in) TUTO, senza ulteriori spiegazioni. Si tratterebbe in questo caso certamente di un diminutivo femminile (-uto), forse anche di nome proprio (sempre che non si tratti del generico frutùto = bimba), tuttavia non riconducibile all’onomastica più frequente. Purtroppo, l’anagrafe di famiglia non è qui di alcun aiuto: fra gli ascendenti registrati non è reperibile alcun nome femminile con cui mettere in relazione il diminutivo.
Come già accennato, l’edificio è tuttora abitato dalla famiglia Caneva, storicamente titolare della casata Côgher.

235 (d) — (osteria) AL SAN MICHELE (GORTANA, +), (in) BLŠ (BARBOLAN), (da) TAMÂT (GERIN), (in) MAŞÈL (GERIN), (in) LÉT (GORTANA)

Nel 1849 l’edificio risulta accostato a un fienile, poi demolito, un muro del quale ancora oggi delimita il terreno antistante.
L’edificio si presenta oggi in una veste totalmente rinnovata, a seguito dell’ultimo passaggio di proprietà e della ristrutturazione del 1999 la quale, se da un lato ha lasciato inalterata la struttura della casa, ne ha tuttavia modificato l’aspetto esteriore, in particolare dal lato S.
Per quanto concerne la denominazione, è oggi difficile determinare la prevalente fra le numerose susseguitesi nel tempo (ben 5).
Nel 1849, e fino agli inizi del 1900, la denominazione della casa è BLŠ, corrispondente a Biagio Barbolan di Giovanni (1731-1793, del ramo Trintìno, v. 224/227), il cui figlio Mattia risulta per l’appunto il proprietario dell’edificio nel catasto di quell’anno. Mattia muore nel 1855 (e dieci anni dopo muore anche la moglie Lucia Tamussin di Pietro), senza eredi. Nel 1901 la casa è ancora detta Blâš, ma risulta abitata da Antonio Gerin di Giuseppe. L’unico, debole legame di quest’ultimo con i precedenti abitanti Barbolan/Tamussin è rappresentato dalla moglie del citato Blâš iniziatore della casata, Catharina Gerin (1748-1815): troppo poco e troppo lontano nel tempo per costituire un legame significativo.
I Gerin lasciano alla casa due nomi, MAŞÈL e TAMÂT, diverse friulanizzazioni dello stesso nome, Tommaso: il primo un diminutivo, il secondo una deformazione. Il soggetto in questione è certamente Tommaso Gerin di Antonio (1878-1932). L’attribuzione certa di entrambi i nomi a Tommaso esclude l’azzardata alternativa avanzata per Maşèl, da maşério = maceria, Sc178, a sua volta dal lat. maceria REW5204, con riferimento al luogo delle macerie del preesistente edificio.
La famiglia Gerin emigra quindi in America, lasciando definitivamente la casa. Ad essa subentra per breve tempo una famiglia Sotto Corona (affittuari?) mentre la proprietà passa ai Gortana, forse grazie anche alla parentela con la moglie del citato Maşèl/Tamât, Maddalena Gortana di Luigi da Givigliana.
A loro volta i Gortana, che portano seco da Givigliana il nome della casata di LÉT, fino agli anni ’80 gestiranno nell’edificio l’osteria AL SAN MICHELE (sempre e solo in italiano, sia nella grafia che nel parlato corrente).
Del tutto disabitata per alcuni lustri, dopo la recente ristrutturazione è oggi destinata ad abitazione residenziale non permanente.

236 (d) — (in) JÈFO (TAMUSSIN, (in) RIÇÒT (TAMUSSIN)

L’edificio è – nella sua forma e struttura originale – anteriore al 1849, anno in cui risulta abitato da due famiglie Tamussin Riçòt. A sua volta, il nome si è trasferito qui al seguito della famiglia Tamussin proveniente dalla vecchia casa RIÇÒT, a cui si rimanda per l’origine del nome stesso (v. 258).
JÈFO rappresenta una delle numerose versioni friulane del nome proprio Giuseppe, al pari di ‘Sèf, Bèpo etc. Si tratta, nella fattispecie, di Giuseppe Giovanni Tamussin di Antonio (1858-1933, sempre del ramo Riçòt), il cui figlio Giovanni (Ğuan di Jèfo) porterà temporaneamente il nome della casa a CP (v.111) mentre l’edificio non è agibile.
Ristrutturata e resa nuovamente abitabile alla fine degli anni ’70 da uno dei figli di Giovanni Tamussin, dalla cui famiglia tuttora è abitata, la costruzione è oggi comunemente conosciuta come Jèfo.

237 (b) — (de) LUÌNGJO (TAMUSSIN, MAZZOCOLI)

È unita alla casa un unico corpo di cui costituisce la parte S. Insieme a una stanza della unita casa 238, nel 1849 l’edificio è proprietà di Lucia Tamussin qm. Tommaso67 (1805-1865), maritata Barbolan. Sebbene oggi in disuso, nella parlata di Collina (così come di Givigliana, dove invece sembra ancora in uso) LUÌNGJO è deformazione di lungjo = lunga, qui con probabile riferimento a una abitante dell’edificio. Se poi la signora in questione fosse “lunga” di statura, di lingua o di chiacchiera, non ci è proprio dato sapere...
I Mazzocoli sopravvengono con Pietro Antonio di Daniele (1858-1913), probabilmente intorno al 1885 (ma non si sa a quale titolo: Pietro Mazzocoli sposa sì una Tamussin, ma di ramo diverso da quello della sopracitata Lucia). Il nome Luìngjo si trasferisce così alla famiglia Mazzocoli cui tuttora appartiene, sebbene la casa risulti oggi non abitata.

238 (b) — (in) PLÔNER (MAZZOCOLI, DE PRATO, SAMASSA, GAIER), (in?) SERGJO (SOTTO CORONA, TAMUSSIN)

L’epoca di costruzione dell’edificio è ignota: nel 1849 il proprietario è Giacomo Sotto Corona di Giacomo (1780-1868) di Sergjo, ma la famiglia è presente qui almeno dal 1790, come si deduce dall’elenco dei cresimandi di quell’anno.
Circa l’origine del nome SERGJO, apparentemente onomastica/patronimica, essa non trova a Collina alcun punto di riferimento: Sergio è pochissimo presente in anagrafe come nome proprio, e è inoltre di introduzione assai recente (1936). Anagraficamente scomparsa da Collina, la casata di Sergjo è emigrata a Forni Avoltri, dove è tuttora presente.
I Mazzocoli e la denominazione PLÔNER fanno il loro ingresso nella casa (parte S) con il matrimonio di Giovanni Giuseppe (1843-1918) con Teresa Sotto Corona di Giacomo (di Sergjo, appunto).
Al pari di Sergjo, neppure dell’origine di Plôner è dato sapere con certezza: certamente di derivazione austro-tedesca, era attributo (ad personam o già familiare?) del citato Giovanni Mazzocoli, ultimo cremâr di Collina. Date le circostanze, senza peccare di eccessivo acume e originalità, propendo per il solito soprannome di persona. Va comunque rilevata l’assonanza con il cognome Ploner, molto diffuso in provincia di Bolzano e in particolare nella valle Isarco, in val Gardena e in Pusteria.
Sempre per matrimonio, nella parte S ai Mazzocoli subentrano nel 1944 i De Prato (Lino di Biagio, cg. Angelina Mazzocoli di Giacomo). Nella parte N, ai proprietari Sotto Corona succedono nel tempo diverse famiglie affittuarie (Samassa, Gaier).
Oggi la denominazione Plôner identifica l’intero edificio.

239 (b) — (in) ŽIRCO (TOCH, TAMUSSIN), ? (BARBOLAN)

Una volta di più, è la pignoleria di Eugenio Caneva a consentire una migliore ricostruzione della sequenza degli abitanti di questa casa, suggerendoci il cognome Barbolan come il più antico fra quelli noti, seguito da Toch.
Non è del tutto chiaro di quale famiglia Barbolan si tratti: il maggiore indiziato è Zuanne Barbolan di Lorenzo (1666-1746). L’anno chiave è il 1759, quando due nipoti di Zuanne Barbolan (Anna di Lorenzo e Caterina di Filippo)68 sposano contemporaneamente i due fratelli Niccolò e Tommaso Toch, della famiglia che poi ritroveremo in questa stessa casa. Il 1759 segna quindi, con buona probabilità, l’ingresso in cuc dei Toch qui.
Non è però chiaro se il nome Žirco giunga con i Toch o se già appartenesse all’edificio: la prima menzione in anagrafe è del 1790, relativa proprio a Tommaso Toch (un latineggiante vulgo de Circo, nel registro dei defunti). A questo punto, comunque, Žirco è ormai sinonimo di Toch, e seguirà per qualche tempo la famiglia anche in altre abitazioni (257). L’origine di questa denominazione è sconosciuta, né sono in grado (a meno di evoluzioni interpretative oltre misura fantasiose …) di proporre per questo nome percorsi etimologici ragionevoli.
Nel 1875, l’ultima discendente dei Toch rimasti in questa casa, Caterina di Filippo (1843-1924), va in moglie Antonio Tamussin di Antonio (1845-1922). Il matrimonio segna l’ingresso in Žirco dei Tamussin, che tuttora vi abitano.

240 (a) — (de) MUÂRO (BARBOLAN, TAMUSSIN, DI SOPRA, DEL FABBRO, MIGOTTI)

Oggi non rimane traccia alcuna di questa casa. Tuttavia, l’osservatore attento non mancherà di notare la curiosa assenza di finestre nei piani bassi del muro S della casa di Žirco (241). Questa parte di muro a solatio era in effetti coperta dalla casa MUÂRO, letteralmente addossata proprio a Žirco.
I passaggi di mano fino alla demolizione, seguita al crollo del 1951 sotto il peso della neve accumulata nello storico inverno, sono stati numerosi. La storia conosciuta ha inizio con Zuane Tamussin di Giovanni Battista (1669-?) i cui figli sono annotati come “vulgo Moar” o più esplicitamente “dicta del Moar”. È possibile che Muâr sia lo stesso Zuane Tamussin: è tuttavia più probabile che la forma apparentemente al maschile Moar sia opera del curato, in luogo della forma femminile Muâro, già riferita alla moglie di Zuane stesso, Pasqua Barbolan, e quindi alla casa stessa in cui Zuane va in cuc. Questa ipotesi, apparentemente più complicata, trova valido supporto in una nota di E. Caneva il quale, come già nella contigua Žirco (239), colloca qui una famiglia Barbolan.
L’origine della denominazione è forse da ricondurre alla voce tedesca Mohr = moro, attributo che potrebbe essere stato guadagnato in Germania da qualche membro della famiglia esercitante l’attività di cremâr. È da notare la persistenza della denominazione nel tempo (oltre due secoli), nonostante i numerosi cambi di cognome, tutti in cuc.
La serie dei cambi di famiglia documentati (tutti per matrimonio) ha inizio nel 1784 con Giovanni Di Sopra di GioBatta (1756-1826), cg. Pasqua Tamussin; prosegue nel 1820 con Giacomo Del Fabbro di Lorenzo, da FA (1796-1865), cg. Maddalena de Supra; si conclude nel 1874 con Giuseppe Migotti di Pietro Antonio, da Naiaretto (1845-1928), cg. Agata Maria Del Fabbro.
Con i Migotti (l’ultimo è Giovanni Giuseppe di Giuseppe, detto , 1877-1952) si chiude definitivamente il ciclo di vita dell’edificio.

241 (b) — (da) MÈN DI TÒNI (TAMUSSIN, BELLINA, GAIER)

Insieme ai due successivi, questo fabbricato rappresenta un caso emblematico (fortunatamente non frequente) della frammentazione della proprietà edilizia: tre case in una, su più livelli e con ingressi forse solo parzialmente separati. Questa parte dell’edificio aveva ingresso a NE, sulla destra di chi guarda dalla strada sottostante.
Il nome data circa dalla metà del 1700, riferendosi a Domenica Di Sopra di Osvaldo (1700-1761) cg. Antonio Tamussin di Giobatta (1702-1779), oppure alla figlia dei due, Domenica anch’essa. Quale che sia la Domenica giusta (probabilmente la madre), la denominazione altro non è che la friulanizzazione del nome della titolare e della sua “appartenenza” (padre o marito che sia): Domenica (Mèn) di Antonio (Toni), che si legge quasi Menditòni e con cui, evidentemente, si identificava anche l’abitazione.
La Domenica figlia sposa nel 1768 Francesco Bettina (o, più probabilmente, Bellina) di GioBatta da Costalissoio, la cui figlia Lucia va a sua volta in moglie nel Giacomo Gaier (1746-1823), primo Gaier immigrato a Collina e capostipite di una numerosa discendenza69.
I Gaier mantengono la proprietà anche dopo la demolizione dell’intero edificio e la sua trasformazione in autorimessa, intorno al 1970,

242 (a) — (da) FUSÉT, (de) FUSÈTO (AGOSTINIS, DI QUAL), (in) MURÌT (FALESCHINI)

Edificio in corpo unico con 241 e 243 (in origine tutti di proprietà Tamussin), con entrata a SE, a sinistra di chi guarda dalla strada sottostante.
Giuseppe Agostinis di Agostino (1790-1849), fabbro proveniente da FA, si stabilisce qui nel 1821, attraverso il matrimonio con Domenica Tamussin di Antonio (1784-1833). In seguito, gli Agostinis si trasferiranno a CP (e con essi presumibilmente anche la denominazione della casa/casata, v. 134): in questo edificio rimane la nipote di Giuseppe, Marianna (1853-1916), moglie di Pietro Di Qual da Stalis. Nel 1896 quest’ultima famiglia a sua volta lascerà questa casa per trasferirsi nell’edificio 252, che a sua volta prenderà la denominazione di Fusèto.
Nel 1901 troviamo in questa casa Giorgio e Michele Faleschini, entrambi ultrasettantenni e celibi, probabilmente affittuari, nati nella casa di Murìt vecchia (255); quest’ultimo appellativo si trasferisce per breve tempo in questa casa, prima di estinguersi definitivamente con la morte dell’ultimo discendente dei Faleschini, Giorgio, nel 1906.
Circa Fusét e Fusèto, il primo è appellativo dell’abitante/proprietario della casa, Giuseppe Agostinis; il secondo è la versione al femminile relativa alla figlia Marianna, v. 252) Quanto all’origine, si danno due possibilità. La prima, e meno probabile, come diminutivo di fûs = fuso (Sc88), forse riferita all’aspetto fisico del portatore del soprannome (alto e magro: morfologia peraltro non infrequente in questa famiglia). La seconda – meno immediata, ma che ritengo più fondata – riconducibile all’attività dell’abitante/proprietario (fabbro: la radice sarebbe in questo caso da ricercarsi in fuşìno = fucina Sc88, fusine Pir361).
L’intero edificio è stato ricostruito negli anni ’60 e convertito in autorimessa, ovviamente anonima. L’ultima denominazione consueta era comunque Fusèto, al femminile.

243 (d) — (da) CASTRO (AGOSTINIS, GAIER, MAZZOCOLI), (in) LENARDÙT(O) (TAMUSSIN)

Terza porzione dell’unico immobile costituito insieme alle case 241 e 242, con ingresso nella parte superiore, verso N e la corte della casa de Luìngjo (297). L’unità abitativa deriva da una suddivisione della casa di Men di Tòni (241) fra i figli di Giacomo Gaier, se non addirittura (e più probabilmente) da un precedente frazionamento interno alla preesistente famiglia Tamussin.
Questa casa è l’ultima a essere identificata con l’appellativo che un tempo forse identificava l’intero edificio, (in) LENARDÙT(O), ancora in uso fin verso la metà del 1800. Posto che chiaramente si tratta del diminutivo di Leonardo, LenàrtLenardùt(o), volto al femminile, l’origine è da ricercarsi in uno dei numerosi Tamussin con questo nome che si incontrano nella dinastia che popola questo edificio (prima in tutto e poi solo in parte), probabilmente già a partire dal ‘600. Non è poi da escludere che si tratti di un matronimico, già nato al femminile. Le combinazioni non mancano in anagrafe, a partire già dal primo Tamussin che vi si incontra, appunto Leonardo (?-1621), che ha per moglie una Leonarda, tre nipoti e un numero indefinibile di discendenti con lo stesso nome. Né è da trascurare la relazione di questa stessa famiglia con i Lenardini (v. cognomi) con i quali, sebbene non numerosi, vi sono alcuni matrimoni a partire dal 1643.
Circa invece l’origine della denominazione prevalente, l’italianeggiante (?) CASTRO, non si hanno notizie al di là dell’identità del titolare dello strano soprannome, Antonio Gaier di Giacomo (1789-1859), la cui famiglia abita l’edificio nell’800 e la cui discendenza in parte si estingue agli inizi del parte prende altre strade.
Nella prima metà del 1900 e fino al 1970 l’edificio è abitazione di una famiglia Mazzocoli (Ermanno di Pietro).
Del tutto scomparsa l’abitazione, analogamente alle precedenti e accorpate case 241 e 242 , l’intero sito è oggi occupato da un’autorimessa.

244 (c) — (de) BIÈLO (SOTTO CORONA, TAMUSSIN, +), (in) SO(T)TÙTO (SOTTO CORONA)

Finalmente una denominazione trasparente, inequivocabile e indubbiamente gradevole.
La bièlo (lett. “la bella”) è il piacevole appellativo che accompagna (si spera con il gradimento della titolare, nonché del suo legittimo consorte…) Giovanna Toch di Giuseppe (1867-1941), moglie di Giuseppe Sotto Corona di Niccolò (detto ‘Sèf di Barbolàn, 1848-1922), probabile costruttore della casa intorno al luogo di un preesistente fienile.
La denominazione originale al tempo della costruzione dell’edificio era SO(T)TÙTO (lett. “Sotto Tuto”: una t cade nel linguaggio parlato), con evidente riferimento alla soprastante casa di Tuto (234), fra l’altro casa avita del citato ‘Sèf di Barbolan: innegabilmente, il cambio di denominazione da So(t)ùto a Bièlo rappresenta un miglioramento, in ogni senso…
La casa, ormai de Bièlo, passa ai Tamussin attraverso il matrimonio della figlia di ‘Sèf e della Bièlo, Amalia Sotto Corona, con Giuseppe Isidoro Tamussin di Giuseppe (1886-1965). Abitatala fino al 1973, i Tamussin ne manterranno la proprietà per un altro ventennio.
Oggi l’edificio, dopo il cambio di proprietà e la successiva ristrutturazione, non è abitato in permanenza.

245 (b) — (da) BLAŞÙT (GAIER, MAZZOCOLI)

Costruita intorno al 1907/1910 dai fratelli Gaier Ottaviano Ilario (1873-1952) e Biagio Umberto (1884-1953) di Biagio Antonio.
La casa ha preso nome dal più giovane dei fratelli, Blaşùt (diminutivo di Blâš = Biagio, probabilmente per distinguerlo dagli omonimi padre e nonno) qui residente con la famiglia. Il passaggio a Mazzocoli è legato al matrimonio di Alma Gaier di Biagio con Lorenzo Mazzocoli di Luigi (Rienzo, 1906-1982). I discendenti di quest’ultimo abitano oggi l’edificio, ristrutturato negli anni ’90.

246 (b) — (in) BETÀN (BETTANI, TAMUSSIN)

Sebbene manchi la certezza che si tratta della casa originaria della omonima famiglia, il nome della casa/casata è chiaramente da mettere in relazione con il cognome Bettan (o Bettanum, Bettani etc.: v. al capitolo cognomi), presente a Collina già alla fine del 1500 e poi estintosi nei primi decenni del 1700. Anche in questo caso, è quasi certo che la casa/casata abbia preceduto il cognome al quale ha successivamente dato origine.
Nel 1500, dunque, esisteva una casa Betàn. Che si trattasse di questa, o comunque di un edificio preesistente in questo luogo, non è ci è dato sapere. Tuttavia, la dimostrata continuità fra i Bettan e i Tamussin nella casa/casata fa fortemente propendere per una continuità anche nell’edificio. L’avvento della famiglia Tamussin, nel 1708, è segnato dal matrimonio di Sabata Betan di Giovanni (?-1719) con Giovanni Tamussin di Pietro (1688-1747). I Tamussin assumono il nome della casa, abitandola poi ininterrottamente fino ai giorni nostri.
Nel corso dei secoli l’edificio ha evidentemente subito diversi interventi e rimaneggiamenti, che ne hanno mutato aspetto e funzione: fino al secondo dopoguerra costituito da abitazione con annessi stalla e fienile, è stato prima convertito interamente in abitazione, aprendo un ingresso anche al piano superiore verso la canonica, e ha quindi subito una nuova ristrutturazione nel 2000.
È abitazione non permanente dei diretti discendenti Tamussin Betàn.

1915 circa. Collina SO. A sin. è la Canonica (303), al centro Nadalìn (247), a d., leggermente arretrata, Blaşùt (245). In secondo piano, seminascosta dietro la Canonica, Tûš (232). Dietro Nadalìn sono parzialmente visibili anche Betàn (246) e Bièlo (244)
1915 circa. Collina SO. A sin. è la Canonica (303), al centro Nadalìn (247), a d., leggermente arretrata, Blaşùt (245). In secondo piano, seminascosta dietro la Canonica, Tûš (232). Dietro Nadalìn sono parzialmente visibili anche Betàn (246) e Bièlo (244)
247 (c) — (in) NADALÌN (GEROMETTA), (da) VÈS (GEROMETTA)

È questo il punto d’arrivo delle peregrinazioni della casata di Nadalìn (per l’origine e il percorso del nome, v. 218 e 256). Traguardo sofferto, come nuovamente conferma Caneva: “1905 – Terminò la casa sotto Bettàn Gerometta Giuseppe di Giuseppe che principiò la costruzione nel 1899, e solo quest’anno arrivò a renderla abitabile. Poveretto!”.
Lapidario ed efficace, il maestro.
NADALÌN
, nome storico della casata, è coesistito per un certo periodo con il nome VÈS, personale appellativo del padre del costruttore della casa, Natale Giuseppe (1835-1917, detto appunto Vès), per cui il figlio Giuseppe era comprensibilmente chiamato Bèpo di Vès.
Circa l’origine dell’appellativo Vès, non ho alcun elemento di conoscenza, se non che del nome esisteva anche una curiosa versione italiana, riferita appunto al figlio Giuseppe, Bèpo di Vès. Costui era detto (più o meno scherzosamente, e per ragioni ignote) anche Bèpo Vescio, all’italiana, forse a ricordo di un’espressione da lui usata in qualche circostanza, in luogo delle generalità ufficiali.
L’edificio è tuttora abitato dalla famiglia Gerometta.

248 (a) — (da) SPÉRI (BARBOLAN)

La costruzione è del 1935, opera dei fratelli Roberto, Callisto ed Eligio Barbolan.
Il nome dell’edificio si rifà a uno dei tre fratelli, Roberto, abitante la parte N della casa, conosciuto come Spéri. Il soprannome è di origine ignota. Tuttavia corrisponde letteralmente alla 1a persona dell’indicativo presente del verbo sperare: spero = ‘i spéri. Potrebbe trattarsi di un riferimento a un modo di dire o a un frequente intercalare caratteristico del soggetto.
Abitata dai discendenti Barbolan.

249 (a) — (da) MATÌO (TOCH)

Ancora una citazione di Caneva: “1903 – Toch Mattia di Giovanni diede inizio alla costruzione della casa sotto Murìt70. Voleva farla a levante del campo, ma trovò molta palude. La rese poi abitabile nel 1906.
La genesi del nome non necessiterebbe di commento, se non per una curiosità legata all’accrescitivo adottato per distinguere il Mattia Toch padre (
Matión
) dall’omonimo figlio (detto infatti Matiùto). Il MATÌO della casata è il padre – Matión – il quale, durante la costruzione di questa stessa casa, abitò per breve tempo la casa del figlio Venanzio (229).
L’edificio è tuttora abitato dai discendenti del costruttore.

250 (a) — (da) CUMÌLE (DE PRATO)

Costruito nel 1913 da Biagio De Prato di Giacomo (1875-1955) da Cazzaso, l’edificio deve il proprio nome a Camilla Toch di Mattia (1879-1964), moglie del costruttore stesso (Cumìle = Camilla).
Attualmente non abitata, è proprietà dei discendenti De Prato.

251 (d, e) — (de) FÀRIO (TOCH) , (da) PÙBILE (TOCH), (in) CARÒNO (CARLEVARIS)

Già fucina, da cui il primitivo (e attualmente prevalente) nome di FÀRIO (Sc73, fàrie Pir296).
Di proprietà di Giovanni Tamussin Riçòt (v. 236), nel 1882 l’edificio fu acquistato e reso abitabile da Quirino Toch di Lucia (1847-1920), detto PÙBILE (di origine e significato sconosciuti). In seguito, la casa fu acquisita dalla famiglia Carlevaris, portatrice del nome (di) CARÒNO (v. 116).
Ristrutturata negli anni ’80, la casa è di proprietà dei discendenti Carlevaris, emigrati in Francia.

252 (c) — (de) FUSÈTO (DI QUAL), (da) PIO (DI QUAL)

1896 – Fece la casa Di Qual Pietro (Pio) a ponente della strada della Chiesa (la scalinata s. Michele, N.d.A.), che costruì, se non tutta, almeno nove decimi da solo”.
Così Caneva chiosa l’opera di Pietro Di Qual di Giovanni (1849-1925) da Stalis, detto PIO.
Origine e ragione di questo soprannome sono ignote: fra le diverse possibilità, la meno probabile è proprio quella più appariscente (l’aggettivo italiano pio), come pure poco credibile appare l’origine onomatopeica (verso di richiamo per le galline, naturalmente a scopo canzonatorio). La più verosimile – per quanto del tutto inusuale – appare l’apocope di Pìori (Pietro) in Pìo.
L’altra denominazione, con cui la casa è oggi forse più conosciuta, è relativa alla moglie dello stesso Pio, Marianna Agostinis (1853-1916) di Giuseppe, quest’ultimo detto Fusét (v. 242), nome di cui FUSÈTO non è evidentemente altro che la versione femminile. Il nome è qui trasferito dall’edificio 242 al seguito della famiglia Di Qual.
Disabitata da decenni, è oggi in precario stato di conservazione.

253 (a) — (in) GLÈRIO (TAMER, AGOSTINIS, GEROMETTA, CANEVA, PASCOLIN)

1857. Nel mese di dicembre morì De Tamer Antonio, che fu proprietario della malga Plumbs e buona parte di Moraretto e Glèria. Per capriccio e ostinazione tutto andò a Vidale Valentino, che fece vendere la roba di Glèria all’asta []71 l’acquistarono (nel 1905, dal nipote dello stesso Vidale, Lorenzo, N.d.A.) i fratelli Caneva a lire 10.500…”.
È sempre Eugenio Caneva a scrivere questo capitolo della travagliata storia di Glèrio, ultima residenza della famiglia più in vista di Collina, i Tamer, già proprietari di terreni e malghe, meriga e notai.
Non è chiaro in quale occasione i Tamer acquisiscano (probabilmente intorno alla metà del 1700) la proprietà della casa e dei terreni, succedendo ai Di Sopra, antichi proprietari della costruzione, al pari della casa di Glério vecchia (v. 264). Nel Glèrio non risulta alcun residente, mentre nel 1849 vi risiedono due sole persone, una delle quali l’Antonio Tamer di Michele già menzionato da Caneva.
Nel luogo la cessione della proprietà a Valentino Vidale da FA menzionata nelle memorie di Caneva, a cui fa seguito una lunga serie di affittuari. Fra i primi locatari, gli Agostinis di Pirucèlo, probabilmente prima e durante la sistemazione della loro abitazione definitiva (fino al 1875 circa, v. 110).
Nel 1885 è affittuario di Glèrio Giuseppe Gerometta. Subentrano quindi i Caneva, prima affittuari e quindi – dopo il 1905 – proprietari: l’ultima di questi, Maria di Leonardo (
Mimì di Glèrio
) nel 1935 va in moglie a Edoardo Pascolin di Augusto. Mimì è l’ultima abitante della casa, fino al 1980 circa: l’edificio, ormai in precario stato di conservazione, è da tempo disabitato.
Il nome di Glèrio (ghiaia) non ha avuto origine qui, essendovi stato trasferito da una casa omonima – oggi scomparsa – nelle immediate vicinanze (v. 264). In effetti, la natura del terreno circostante non sembra corrispondere al nome dell’edificio.

254 (c) — (in) LÙZIO (BARBOLAN)

LÙZIO è con tutta probabilità Lucia Tamussini di Pietro (1692-1758, Lucia = Lùzio), moglie di Tomaso Barbolan di Valentino (1678-1743), il cui figlio “Sig.r Zuane qm Tommaso Barbolan, detto di Lucia” presta giuramento in qualità di vice meriga nel 1786.
I discendenti Barbolan abitarono la casa fino alla sua demolizione, eseguita nel 1899 per dare luogo al passaggio della strada odierna che conduce in piazza a CM. Così annota il cronista Caneva, senza naturalmente farci mancare il dettaglio di rilievo. “1899 – Venne demolita metà della casa detta di Luzio per costruire l’entrata della strada in paese (la parte di Barbolan Anna maritata Di Sopra in Vuezzis). Avrebbe ceduto anche Caminòn la sua parte, ma Mazzocoli Anna ricusò di cedere vicino alla stalla di Gaier Valentino il fondo per costruire una stalletta”.
La nota del maestro Caneva ha ingenerato anche qualche equivoco, inducendo alcuni a fissare qui l’originaria casa di Caminòn (il quale è, a quel tempo, proprietario solo di una parte dell’edificio in questione), e non a CP dove invece si trova (v. 116)72.
Dopo la demolizione, dell’edificio non resta oggi alcuna traccia.

255 (b) — (in) MURÌT (TAMUSSIN, FALESCHINI)

Non v’è più traccia alcuna di questo edificio, forse assai antico, demolito poco dopo il 1907, probabilmente in concomitanza con la costruzione dell’attuale strada “di sotto”.
La proprietà della casa sembra doversi originariamente attribuire a un ramo dei Tamussin, cui nel 1822 subentrerebbero i Faleschini (Pietro di Domenico, da Givigliana, ?-?), attraverso il matrimonio con Maria Maddalena Tamussin di Michele (1797-1879).
Non è chiaro quando i Faleschini lascino questa casa per le altre abitazioni dove lasciano traccia di sè (222, 242): nel 1849, la proprietà risulta di Giuseppe Gaier di Giacomo, il quale però non vive qui allora (abita a CP), né mai risulta avere abitato in questa casa. È probabile che la famiglia Faleschini, in difficoltà economiche dopo la morte del capofamiglia Pietro, abbia ceduto la proprietà dell’edificio, rimanendo come affittuaria.
La denominazione Murìt non è riconducibile con certezza a cose o persone identificabili. Unica, debole traccia che si esaurisce in sé, una vecchia e breve filastrocca di Collina usata per far cessare il pianto dei bimbi, volgendolo in riso. “‘Al rit e ‘al vai como la mušo di Monài, ‘al vai e ‘al rit como la mušo di Murìt”, che tradotta (perdendo però la rima) suona così: “Ride e piange come l’asina di Monài73, piange e ride come l’asina di Murìt”. Che Murìt fosse il soprannome del proprietario dell’asina, oppure già il nome della casa che ospitava l’animale, sono ipotesi che si dividono equamente le probabilità.
Grazie anche alla vicinanza di una sorgente, la tradizione locale indica Murìt quale prima casa di CM.

256 (d) — (in) TÒCH vecchia (TOCH, SOTTO CORONA, PASCOLIN)

Oggi non v’è più traccia di questo edificio, demolito negli anni ‘3074. Probabilmente costituiva – insieme alla vicina casa di Marc (219) – una delle prime residenze della famiglia Toch, da cui la coincidenza di casata e cognome anagrafico (v. cognomi).
Certamente risalente al 1500 ma forse ancora più antica, l’origine del nome TOCH non è definibile con certezza: qualche labile ipotesi è già stata avanzata nel capitolo dedicato ai cognomi (v.).
Per l’ingresso dei successivi abitanti, i Sotto Corona, la data più probabile è il 1797, con il matrimonio di GioBatta Sotto Corona di Giuseppe (1773-1840) con Maria Maddalena Toch di Niccolò. Da allora, questo ramo dei Sotto Corona è infatti frequentemente accompagnato in anagrafe dalla nota vulgo di Toch. È probabile che già in questo periodo l’edificio sia ripartito in più unità abitative, configurazione che rimarrà tale anche in seguito, fino alla demolizione.
I Sotto Corona rimarranno in questa casa fino alla loro emigrazione, un ramo a Trieste, l’altro a Pola.
A partire dal 1890 circa, l’edificio è abitato dalla famiglia di Giovanna Pascolin di Nicolò da S (?-?), mentre ultimo proprietario prima della demolizione è Valentino Giuseppe Barbolan di Giuseppe Valentino (di Titài, 1880-?).

257 (a) — (in) CÓGU vecchia (TOCH), (in) ŽIRCO (TOCH, BARBOLAN?), (in?) PITÀCOL (TOCH?)

Trasformata in fienile nei primi decenni del 1900, e tuttora adibita a quest’uso, fu abitazione di una famiglia Barbolan, e successivamente di Giovanni Giacomo Toch di Nicolò (?-?, nato probabilmente intorno al 1760, e morto prima del 1839). La famiglia di quest’ultimo è allora detta di ŽIRCO (v. 239)75.
Nel 1849 è proprietario Giovanni Giacomo Toch di Giovanni Giacomo (1798-1884: non a caso la famiglia è detta anche di Ğuàn-Jàcom): alla stessa epoca è approssimativamente databile il sopravvento delle nuove denominazioni, PITÀCOL e CÓGU.
Di PITÀCOL (probabilmente appellativo personale di uno degli abitanti Toch) è a malapena conosciuta l’esistenza, documentata in una nota contabile del 1858. Il nome ebbe probabilmente vita breve, fra il precedente Žirco e il successivo Cógu, che lo sostituì fino alla diaspora della famiglia Toch.
Volendo proprio attribuire l’appellativo PITÀCOL a qualcuno (e forzando anche un poco la mano), una potenziale origine potrebbe trovarsi in pìto = gallina (Sc229), a sua volta derivato dall’onomatopeico pitta, qui riferito a persona, probabilmente con intento derisorio. Ma forse è meglio non insistere, e tranquillamente riconoscere i nostri limiti (persevarare diabolicum…).
CÓGU è contemporaneo a Pitàcol, o lo segue di poco. Dura qui pochi anni, cancellato dall’abbandono definitivo dell’edificio da parte dei fratelli Toch che lo abitano nella seconda metà dell’800. Agli inizi del nuovo secolo, la famiglia Toch si disperde letteralmente ai quattro venti: un fratello in Tirolo, un altro (per breve tempo) nella casa di Marc (219), altri due (che porteranno con sé il nome della casata) nella nuova casa appena costruita (210).
Il significato del nome è trasparente (
cógu
= cuoco, Sc132, Pir168), ma non ne è nota l’origine: la spiegazione più verosimile è naturalmente che uno dei membri della famiglia esercitasse questa professione, con tutta probabilità da emigrante.

258 (d) — STÂLI DI TÛŠ (+), (in) RIÇÒT vecchia (TAMUSSIN)

L’edificio è conosciuto con il nome di STÂLI DI TÛŠ, in quanto fienile della famiglia di Tûš fino al recente cambio di proprietà (anni ’90) e successiva trasformazione in abitazione (non permanente).
In realtà, secondo una ricostruzione attendibile, doveva qui sorgere un tempo la vecchia casa di RIÇÒT. Il catasto del proposito di un edificio sito in questo stesso luogo recita infatti: “area di casa diroccata, ora stalla con fienile costrutto di nuovo” di proprietà Tamossini Antonio qm. Pietro. Si tratta per l’appunto di un Tamussin Riçòt, casata peraltro assai antica, risalendo almeno a Pietro Antonio Tamussin di Zuane (1734-1791), forse egli stesso detto Riçòt = ricciolo, riccioluto (Sc256, fr. rizzòt Pir868).
Nel 1799, il nome Riçòt si trasferisce per matrimonio ad altro ramo Tamussin, linea da cui discende il citato Antonio qm. Pietro. Sempre nel 1849 Antonio, insieme al fratello Pietro, risulta abitante nella casa per l’appunto denominata (e questa volta con certezza), (in) Riçòt (236), dove evidentemente la famiglia, e con essa il nome, si è trasferita nel frattempo.
Come si è detto, l’edificio fu destinato a stalla/fienile per oltre 150 anni, prima della recente e profonda ristrutturazione la quale, peraltro, ha lasciato inalterata la struttura esterna dell’edificio, con la parte superiore in legno a blockbau.

259 (a) — ŠTÂLI DI FLÈCH (+)

Si tratta del sito dell’ex fienile pertinente all’omonima e adiacente casa di Flèch (202).
Il nuovo edificio, completamente ricostruito sulle fondamenta del preesistente intorno al 1995, è adibito ad abitazione non permanente.

260 (a) — CJASÙTO DI GJÀRA (+)

Si tratta di un curioso fabbricato, di dimensioni ridottissime, quasi a ridosso della casa di Gjara (209) di cui costituiva una pertinenza, come sottolineato dallo stesso nome proposto. Nel tempo, l’edificio ha svolto diverse funzioni, fra cui certamente la più degna di nota è quella di forno per il pane della casa padronale.
La minuscola costruzione è stata convertita in minicottage intorno al 1997.

261 (a) — STÂLI DI NUŽI (TAMUSSIN)

Nel 1849, l’area risulta occupata da una stalla con fienile (proprietà di Antonio Tamussin di Pietro), costruita in luogo di una preesistente abitazione diroccata di cui non si hanno però altre notizie. Il fienile rimarrà tale per quasi 150 anni, fino all’incendio subito nella notte di Capodanno del 1992.
Attualmente è in via di definitiva ristrutturazione e riconversione ad abitazione.

262 (a) — (tal) PÓÇ (+), in BALBÌN (+) (proposti)

Recentemente costruito (1998) ex novo, l’edificio non è naturalmente dotato di alcuna denominazione storica. Quella proposta, sebbene apparentemente legata a un toponimo in quest'area76, è qui intesa solo a rappresentare l’angusta collocazione di questa costruzione, stretta fra l'edificio della Casa san Gallo (306) a N e una schiera di villette di nuova costruzione a S.
In alternativa, la seconda proposta rappresenta una soluzione certamente più soft.

1917. La Siëo (263).Trasporto a valle di un ferito al fronte di Volaia
1917. La Siëo (263).Trasporto a valle di un ferito al fronte di Volaia
263 (b) — (de) SIËO (TAMUSSIN, GAIER), BAR RISTORANTE EDELWEISS (GAIER)

Ex segheria (siëo Sc284, friul. sèe Pir1004), è uno dei numerosi edifici pre-industriali – segherie, mulini, fucine – che punteggiavano i corsi d’acqua di Collina. È, questa, l’antica siëo di Riçòt (la segheria di Riçòt, v. 259), come tale in funzione fino agli anni ’50.
Pur mantenendo la struttura originale, la segheria venne in seguito trasformata da Giuseppe Gaier (1923-1980, coniuge di una Tamussin discendente dello stesso Riçòt) in discoteca ante litteram: nelle estati dei ruggenti anni ’60, con l’ausilio di un juke box (e, nelle feste importanti, della musica live) la Siëo faceva il pieno di avventori che giungevano a frotte da tutta la vallata e – quasi incredibile a dirsi – da Collina stessa. Fatte le debite proporzioni, insomma, la Bussola di Viareggio, o il Covo di Santa Margherita77.
A quell’epoca risale anche l’odierna denominazione ufficiale, EDELWEISS, indubbiamente gradevole e suggestiva, ma fin dalle sue origini del tutto desueta a favore del termine locale Siëo. Anche una breve apparizione della denominazione “alla Segheria”, diretta traduzione del termine locale, non ha goduto di grande popolarità. Siëo era e Siëo è rimasta.
Dopo un lungo periodo di declino prima, e di chiusura poi, l’edificio è stato completamente ristrutturato e rinnovato nel 1996, e nuovamente adibito a bar ristorante.

264(in) GLÈRIO vecchia (DI SOPRA, TAMER)

Il nome della casa è molto antico: sebbene per lungo tempo (dalla fine del 1700) associato ai Tamer, la sua prima menzione è tuttavia relativa a un’altra famiglia. Il libro dei defunti riporta infatti, nel 1719, la registrazione della morte di Batta di Antonio Di Sopra (1633-1719) “dicti di Glèria”. In origine, quindi, Di Sopra e non Tamer, anche se i legami fra le due famiglie sono probabilmente sin d’allora (e certamente lo saranno nei secoli a venire) molto stretti, qui come altrove (a es. nella casa di Lenàrt, 120).
Si tratta di un altro di quegli edifici, risalenti forse alle origini stesse di Collina, di cui si sono perse le tracce. Lo stabile, probabilmente di dimensioni considerevoli e comprendente anche stalla e fienile, si trovava poco discosto dalla strada che da CP porta alla chiesa, nel punto più basso di questa, in corrispondenza della curva sulla carono (v. 116). La natura del terreno, evidentemente alluvionale, ne ha suggerito il nome (glèrio = ghiaieto, nome collettivo per i banchi di sabbia nell’alveo del torrente, Sc96 e Pir387, a sua volta derivante dal latino glarea, REW3779), denominazione poi trasferitasi in epoca ignota alla non lontana casa omonima (253).Quanto agli abitanti della casa, l’anagrafe stessa ed evidenti ragioni di continuità e contiguità con l’omonima e adiacente casa nuova suggeriscono gli stessi Di Sopra (meno probabilmente i Di Tamer). Quanto a tempi e modi, è forse chiedere troppo.

Chiesa di s. Michele. Pietra angolare sul muro frontale s., verso il campanile
Chiesa di s. Michele. Pietra angolare sul muro frontale s., verso il campanile.
301CHIESA di S. MICHELE

In posizione abbastanza inconsueta (si trova isolata rispetto a entrambe le ville ma, curiosamente, in posizione sottostante) e sebbene non dotata di preziose opere d’arte né di caratteristiche particolari, la chiesa di s. Michele Arcangelo ha tuttavia una sua secolare storia ricca di episodi, alcuni anche gustosi, come la disputa cinquantennale fra i villici e il curato di Sopraponti78.
Per la descrizione dell’edificio, vale riportare quasi integralmente il resoconto della visita pastorale di Agostino Bruno79, luogotenente del patriarca Francesco Barbaro, avvenuta nel novembre del 1602.

Di questa Chiesa si avvalgono ambedue le Ville, e è posta in basso, in piano, e s’innalza in mezzo al Cimitero, e è ben chiuso da muro con unico ingresso, e la porta in legno e la griglia pure in legno. La Chiesa ha pareti abbastanza solide, rinnovate: il coperto in tavolette di legno, ben messo. È imbiancata, ma male lastricata, soffittata in legno, ad eccezione della cappella maggiore, che è a volta. Ha una campana e un piccolo campanile coperto in legno, e sopra la croce in ferro. Il campaniletto s’erge dal mezzo del tetto. C’è un unico ingresso, con la porta che chiude bene: c’è la pila dell’acqua santa, anche abbastanza bella, e due finestre con invetriate. …La Chiesa ha un solo altare, sotto la suddetta cappella a volta, in pietra intera, abbastanza comodo e alto, con sopra una icona scolpita in legno antica, indorata, con delle figure, fra le quali quella della B. Vergine e di san Michele Arcangelo. Manca di una cancellata e del baldacchino.…Nella medesima (chiesa, N.d.A.) c’è di sopra la porta una certa loggia in legno che serve per gli uomini. Non c’è confessionale, né la tabella dei casi riservati e dei figliuoli della dottrina…

Nonostante i successivi ampliamenti e rimaneggiamenti80, la descrizione dell’interno che dà il luogotenente Bruno è in gran parte fedele all’attuale: le finestre, l’acquasantiera, la loggia in legno che sovrasta la porta d’ingresso (la lindo, vero e proprio androceo della chiesa), sono sostanzialmente le stesse che vide il luogotenente del Patriarca.
Nel 1730 il campaniletto centrale venne sostituito da una vera torre campanaria all’esterno, con tetto a punta in stile alpino. Nella sua forma attuale (non particolarmente elegante, in verità …) il campanile data invece dal 1925, come pure il nuovo orologio: successivi progetti e iniziative per dotarlo di una terminazione più acconcia, con una cuspide più slanciata, non hanno avuto seguito.

1930. Festeggiamenti per il mezzo secolo di vita della Latteria sociale. In primo piano a d., casa Cógu (210)
1930. Festeggiamenti per il mezzo secolo di vita della Latteria sociale. In primo piano a d., casa Cógu (210).
302LATTERIA SOCIALE

La Società (Latteria Sociale Cooperativa, N.d.A.) vedendo che il locale preso in affitto era inadatto sotto ogni aspetto, e che non poteva sussistere la Latteria in quella casa81 deliberò di sobbarcarsi a nuove spese, cioè della costruzione di un locale apposito per uso di caseificio, e scelse Vidrinis, luogo se non centrico più accomodo tanto per Collina che per Collinetta. Nel 1884 l’autunno, fu dato principio…”.
Una volta di più, E. Caneva parla con pieno titolo e cognizione di causa, essendo stato egli stesso ideatore e promotore della Latteria Sociale di Collina, la prima di tutta la Carnia.
La costruzione fu terminata un anno più tardi, nel 1885, e l’edificio fu integralmente ricostruito e ampliato circa settant’anni dopo. Da allora il fabbricato svolse egregiamente le sue funzioni istituzionali (e altre accessorie) finché… fu necessario, per qualche tempo adattandosi anche a ospitare ai piani superiori i bimbi dell’asilo infantile.
A partire dagli anni ’60, con il graduale abbandono dei coltivi e dell’attività agro-pastorale, anche la latteria perse progressivamente la propria ragion d’essere. Oggi, in stato di conservazione non particolarmente brillante, attende tempi migliori…

1916-17.Reparto di alpini all'esterno della Canonica. Sullo sfondo, il fenile in luogo dell’attuale Albergo Coglians (216)
1916-17.Reparto di alpini all'esterno della Canonica. Sullo sfondo, il fenile in luogo
dell’attuale Albergo Coglians (216)
303CANONICA

Anni 1877 e 1878, fu costruita la casa Canonica. Il fondo su cui fu costruita detta casa era dell’attuale (1915, data di stesura delle memorie di Caneva, N.d.A.) casa di Tuus, ma impegnata la casa crollata allora esistente alla Chiesa di s. Pietro di Givigliana. Quella fabbriceria la cedette a Tolazzi Giovanni fu Nicolò detto Paur (oriundo di Moggio Udinese) venuto a Collina, Nicolò padre di detto Giovanni Paur. Il Tolazzi in compenso di detta area di casa, diede una pianetta alla Chiesa sudd.a” (le evidenziazioni sono nel testo originale).
Così Eugenio Caneva dà l’avvio al resoconto, come suo costume graffiante, della costruzione della canonica che avrebbe ospitato, per poco meno di un secolo, prima i cappellani e quindi i parroci di s. Michele. Fra il 1878 e il 1905, quando fu costruita la nuova scuola (304), la canonica svolse anche la funzione di edificio scolastico.
Proprietà del comune di Forni Avoltri l’edificio, cessata la sua funzione originaria, dagli anni ’70 ha svolto e svolge la funzione di soggiorno per gruppi organizzati e comunità parrocchiali.
L'immobile è stato ristrutturato nel 1998.

1944. Il Coro di Collina diretto dal m.o Alberto Agostinis (al centro nella foto, accanto a don Massimo Felice) ritratto nel cortile dellas cuola. A d., la casa Bianchi/Mòdie (203)
1944. Il Coro di Collina diretto dal m.o Alberto Agostinis (al centro nella foto, accanto a don Massimo Felice) ritratto nel cortile dellas cuola. A d., la casa Bianchi/Mòdie (203)
304SCUOLA

…La prima pietra fu collocata alle ore 16 del 19 luglio successivo (1904, N.d.A.), e per le vicende atmosferiche il lavoro venne compiuto la Ia decade di ottobre 1905… Sorprendente fu il trovare dei carboni di legna a metri 3 di profondità, e un ferro di bue, alla profondità di metri 2,50… ” (l’evidenziazione è nel testo originale).
Riguardo ai resti ritrovati durante lo scavo delle fondamenta, l’ipotesi più probabile è che il luogo fosse in precedenza sede di una fucina di fabbro, il che darebbe conto sia del carbone che del ferro di bue. Anche la posizione sul territorio ha molte analogie con la bottega di fabbro di Vidàrios (101) a CP.
Quanto al tempo in cui collocare tale attività, la considerevole profondità del rinvenimento e la sorpresa che pare cogliere i Collinotti farebbero propendere per diverse centinaia d’anni, ma francamente non mi sento in grado di avanzare alcun tentativo di quantificazione in proposito.
Prima della costruzione di questo edificio, Collina non era dotata di una sede scolastica vera e propria, la cui funzione venne surrogata prima da una parte della casa di Titài, a CP (106), e quindi dalla Canonica (303). Questo edificio esercitò il proprio ruolo istituzionale di scuola elementare per circa settant’anni: in seguito, il progressivo calo demografico portò a un inevitabile accorpamento e centralizzazione della funzione nel capoluogo comunale, lasciando la struttura – oggi in via di progressivo degrado – in attesa di nuova destinazione d’uso.
Retorica a parte, non si può chiudere un questo brevissimo cenno sulla scuola di Collina senza menzionare due personaggi che di questo edificio – e sia detto senza alcuna enfasi – hanno fatto la storia e rappresentato la quintessenza: Alberta Agostinis (1893-1975) e edoardo Tolazzi (1898-1967), la maeštro e lu maeštri, senza aggettivi, quasi per antonomasia. Entrambi di Collina, in due totalizzarono oltre ottant’anni di insegnamento: un magistero che quassù non solo ha completamente cancellato l’analfabetismo (non certo diffuso ma comunque presente), ma ha letteralmente fatto scuola.
Collina e i Collinotti devono molto a entrambi.

305SOGGIORNO ALPINO AQUILEIA – MONS. MARCUZZI

Costruito negli anni ’80, è il primo segno stabile e definitivo del cambiamento indotto negli assetti urbanistici di Collina, in quanto primo edificio esplicitamente “non integrato” – dalla ideazione alla fruizione – nella comunità locale.
Nel corso dei nostri vagabondaggi attraverso i secoli e attraverso la villa abbiamo visto come tutti indistintamente gli edifici – dalla scuola alle case, persino agli alberghi – siano stati pensati, costruiti e originariamente utilizzati in funzione della comunità locale nel suo insieme, o dei singoli membri della stessa comunità. Questo edificio è il primo a non rientrare nello schema usuale, ad avere funzionalità e rispondere a esigenze altre da quelle descritte poc’anzi. Ciò non rappresenta certo un titolo di demerito o una colpa per alcuno: è un semplice dato di fatto, un segno dei tempi cui altri segni hanno già fatto e faranno seguito in futuro. Niente di male, speriamo.
L’edificio, di proprietà della Parrocchia di Aquileia, è destinato a casa di soggiorno per famiglie.

306RESIDENCE GARDENIA

Costruito alla metà degli anni ’90, è un condominio costituito di appartamenti esclusivamente adibiti a seconde case, non essendovi oggi residenti stabili.
Da vecchio gufo impenitente, mi permetto di notare la curiosa attribuzione del nome di un fiore certamente profumato e seducente, ma purtroppo non presente nella pur numerosa e variegata flora locale (un altro segno dei tempi?).

307CASA S. GALLO

L’edificio, costruito nel 1992 e anch’esso destinato a casa di soggiorno, è di proprietà della Parrocchia di Moggio Udinese.
Il nome si deve al santo titolare dell’Abbazia di Moggio, il cui abate, in nome e per conto del Patriarca di Aquileia, esercitò i diritti feudali a Collina fino al sopravvento della Repubblica di Venezia, nel 1420. Una sorta di ritorno, dunque, agli antichi possedimenti feudali.

NOTA.

Ad abundantiam, in merito alle riflessioni espresse qui sopra e nelle pagine precedenti, relative a strutture che in qualche modo e in qualche misura a Collina rappresentano una discontinuità rispetto alla funzionalità urbanistica “storica” dell'edilizia locale (ma la storia e lo stesso progresso sono figli anche delle discontinuità), ricordo come queste riflessioni vadano pur sempre ricondotte e inquadrate nell'ambito di un'analisi storico-evolutiva del contesto urbanistico quale quella tentata qui.
Se mai ve ne fosse bisogno – e mi auguro proprio di no – ribadisco come queste considerazioni non intendano in alcun modo rappresentare una censura, o anche solo la benché minima disapprovazione nei confronti degli edifici in sé, né di chi li ha costruiti o, men che meno, di chi ne fa correttamente e felicemente uso.
Ben altre sono le purtroppo visibili non-funzionalità urbanistiche, le deturpazioni e le autentiche violenze perpetrate nei confronti della storia, del territorio, delle persone – tanto residenti quanto ospiti – e, in ultima analisi, del buon senso e del buon gusto.

ANCORA DELLE ANIME: DEMOGRAFIA E…

Sebbene una trattazione specifica di questo argomento non fosse originariamente contemplata nei nostri piani, gli aspetti demografici dell’anagrafe meritano sicuramente più di un semplice cenno. Purtroppo è soggetto, questo, che si presta poco al dilettantismo e alla trattazione amatoriale cui invece sono costretto a fare ricorso (e non certo per demerito dei potenziali lettori).

Per di più, come già si è verificato altrove in questo stesso lavoro-zibaldone, risulta oltremodo difficile contenersi nello stretto ambito degli argomenti dei singoli, specifici capitoli: collegamenti, analogie, riferimenti, tutto spinge a travalicare i confini entro cui il titolo vorrebbe o dovrebbe circoscrivere il contenuto. In questo contesto, anche a proposito di demografia è difficile non sconfinare nel costume, se non proprio nell’aneddotica, e è precisamente ciò che si verifica qui di seguito, spero comunque con misura. Me ne scuso, una volta di più: il lettore prenda queste “fughe laterali” come un contributo alla leggibilità e alla fruibilità di un capitolo altrimenti forse un po’ indigesto, infarcito com’è di date e dati, di grafici ed elaborazioni.

Come frequentemente accade quando si ha l’imbarazzo della scelta, il primo problema è l’abbrivo: dove prendere la spinta per inoltrarsi prima nel mare magnum dei numeri e delle cifre dell’anagrafe, e poi nei mille rivoli dei dettagli e delle curiosità stimolate dagli stessi numeri.

Inoltre, nel contesto di un lavoro non specialistico come questo, è assai problematico affrontare e descrivere separatamente le stesse variabili demografiche – nascite, morti e matrimoni, a loro volta in funzione del tempo – in quanto fra loro strettamente interconnesse e interdipendenti, in una sorta di sarabanda in cui cause ed effetti sono tutt’altro che definiti, e i ruoli si invertono nel volgere di pochi anni. In tempi di elevatissima mortalità neonatale prima ancora che infantile, un elevato numero di nascite implica direttamente e immediatamente un elevato numero di morti.

Analogamente, un evento epidemico con elevato numero di decessi può a sua volta abbattere la natalità nell’immediato, come pure avere un effetto differito nel tempo sia sui matrimoni che sulle nascite. E così via.

Disponendo dell’anagrafe di 400 anni pressoché completa, insieme ad altri documenti direttamente inerenti allo stato della popolazione, il numero di dati disponibili è oggettivamente elevato. Purtroppo, una volta di più, a far difetto è l’organicità del tutto: le visite pastorali si occupano del solo “stato delle anime”, spesso omettendo di enumerarne il totale (da comunione X, cresimandi Y: e gli altri “senz’anima”?) e non sempre indicandone l’età; dei morti, l’anagrafe solo raramente registra l’età, e quasi mai la causa del decesso, e così via.

La ricostruzione di un quadro organico e strutturato è stata così forzatamente demandata a un lavoro manuale e certosino di ricerca e ricucitura letteralmente ad personam: lavoro effettuato e portato a termine con discreto successo, però con scopi diversi da quelli dell’analisi demografica, e quindi con risultati non sempre e non direttamente fruibili a questo scopo.

Non presenterò, quindi, una sistematica analisi di dettaglio per le tre principali variabili demografiche dei nati, dei morti e dei matrimoni: mi limiterò a sottolinearne alcuni aspetti peculiari o comunque particolarmente interessanti in riferimento alla realtà di Collina, lasciando agli auspicati continuatori dell’opera (sempre loro…) gli opportuni approfondimenti.

Da dove iniziare? In un soprassalto di originalità, partiamo… dall’inizio, dalla nascita.

Natalità

Naturalmente, in senso stretto si tratta non di nascite ma di battesimi, con tutte le ben note implicazioni e riserve del caso. Tuttavia, si ha ragione di ritenere che, almeno in questo caso, l’approssimazione sia molto valida. Assunzione, questa, fondata da un lato sul numero relativamente elevato di battesimi in periculo mortis (1% del totale) sia da parte dell’ostetrica che di altri, elemento questo che recupera all’anagrafe neonati altrimenti perduti a questo scopo; dall’altro, dal relativamente esiguo numero di “vuoti” nella pressoché sistematica sequenza bi/triennale delle nascite nelle famiglie di coppie in età fertile. Vuoti che induttivamente potrebbero anch'essi ricondursi, se non del tutto almeno in parte, a nati morti o a morti senza battesimo.

Dei battezzati, purtroppo, mancano i registri dal 1719 al 1794, andati perduti chissà come e chissà quando. Comunque, restano pur sempre 2243 nati nell’arco di 400 anni (con l’esclusione, naturalmente, degli 85 anni mancanti): i numeri su cui lavorare non mancano certo. Mancano semmai le informazioni collaterali, le chiavi di lettura di andamenti talvolta singolari e curiosi ma anche, temo, destinati a rimanere in buona parte inspiegati.

Il numero ridotto dei rilevamenti censuari (v. al paragrafo POPOLAZIONE) non consente di effettuare una stima accurata del tasso di natalità e del suo andamento, ovvero del numero medio di nati in rapporto alla popolazione. I pochi calcoli effettuati a tempi fissi danno risultati sostanzialmente allineati a quelli delle altre ville carniche dell’epoca nei valori massimi (intorno a 35 nati per mille abitanti), e leggermente superiori a esse nei valori minimi (a Collina il tasso di natalità su base decennale non scende mai al di sotto del 20 per mille)82. Non trattandosi di dati omogenei, il confronto ha comunque un valore puramente indicativo.

All’occhio dell’osservatore, anche frettoloso, balzano evidenti natura e origini di questo dato di natalità, le stesse a Collina come nel resto della Carnia e forse dovunque nel contesto delle civiltà contadine occidentali dal ‘600 a tutto l’800.

Mediamente (qui in senso non strettamente statistico: mi rendo conto di usare impropriamente un termine che in questo contesto ha un valore quasi sacrale, ma l’importante è capirsi) la donna collinotta coniugata e in età fertile, fra i 25 e i 40 anni e oltre, partorisce ogni due/tre anni, fornendo un grosso contributo a quella che è stata definita, con espressione tanto felice quanto tremenda, fabbrica d’uomini83. Uomini che spesso non hanno neppure il tempo di compiersi del tutto, come testimonia l’ossessiva insistenza con cui i nomi di battesimo si ripetono nelle schede dello stesso nucleo familiare (v. CD-ROM), a sostituire gli omonimi fratelli e sorelle che li precedono e non sopravvivono: due, tre, quattro Odorico o Leonardo o Ursula, prima di “fabbricare” quello che sopravviverà, o prima di abbandonare definitivamente un nome forse ritenuto malaugurante e passare a un altro, magari con il medesimo risultato.

Dieci, dodici figli rappresentano certamente l’eccezione, sebbene tutt’altro che rara; sei, sette è invece la regola della “fabbrica”, quando questa funziona ammodo. Già, perché il prezzo che si paga è alto: talvolta – anzi, frequentemente – nella fabbrica si rompono anche le “macchine”. Non muoiono solo i neonati o i bambini in tenera età: insieme a loro muoiono le madri, spesso di parto o di complicanze post parto di cui non occorre qui dare neppure ragione, tanto le cause sono diffuse, evidenti e, fino a tempi relativamente recenti, apparentemente incoercibili.

E allora sono guai per quelli che restano, padre ed eventuali figli precedenti, tant’è che le vedovanze maschili durano poco, devono durare poco. Ma questo è un altro discorso, sul quale torneremo più avanti.

Di ritorno ai dati, nella figura 3 è riportato l’andamento del dato grezzo delle nascite per tutto il periodo considerato (1600-2000), insieme al dato di media mobile su base decennale.

L’andamento di quest’ultima, più “leggibile” del dato puntuale, evidenzia un andamento ciclico della natalità, con periodo approssimativamente quarantennale (da 50 anni). Risultano infatti evidenti almeno sei cicli con massimi negli anni 1620, 1670, 1710, 1840, 1870, 1910.

Figura 3

L’andamento ciclico della curva suggerisce anche l’esistenza di uno o più probabilmente due massimi di natalità (1750 e 1790?) nel periodo di “buio” dell’anagrafe, come pure evidenzia un ultimo tentativo, senza esito, di riavvio del ciclo intorno al 1930 (la “spalla” della curva).

Un confronto – sebbene non sistematico – con le rilevazioni di Bianco e Molfetta84, relative ad altre ville della Carnia nello stesso periodo storico, porta ad analoghe conclusioni in termini di frequenza del ciclo di natalità.

In realtà, non credo proprio si possa parlare di un fenomeno con alcun carattere di originalità o di novità, ché anzi lo ritengo evento ben noto agli studiosi di dinamica demografica, legato com’è al ciclo naturale di fertilità (ciclo naturalmente integrato e condizionato – questo sì in maniera relativamente peculiare – da fattori socioeconomici specificatamente locali).

La ripetitività del ciclo dura dunque poco più di 300 anni, dagli inizi della nostra osservazione fino ai primi decenni del 1900: all’ultimo picco di natalità, intorno al 1910 (valore che rappresenta anche il massimo storico dell’anagrafe), segue un decremento pressoché continuo fino ai giorni nostri. Infatti, il tentativo di ripresa del ciclo intorno al 1930 cui si è fatto cenno poc’anzi, e che proseguendo la serie storica avrebbe portato a un nuovo massimo intorno al 1940-1950, non ha seguito. I suoi effetti si limitano a un temporaneo arresto nel declino della natalità – ormai irreversibile – che nel volgere di pochi anni riprende la propria discesa a precipizio. Quest’ultimo fenomeno ha ovviamente carattere tutt’altro che locale o contingente, allineato com’è al costume e ai nuovi stili di vita dell’intero emisfero occidentale contemporaneo.

Anche sull’andamento delle nascite, al pari delle altre variabili demografiche, incombe l’evento singolo più eclatante dei 400 anni di storia anagrafica di Collina: la falcidia del 1800 (32 morti in un anno), che riporta la popolazione ai valori di 150 anni addietro, e il numero assoluto delle nascite pure indietro di 200 anni.

Paradossalmente ma non troppo, l’anno dell’epidemia è ancora assai prolifico (sono registrate 14 nascite): con esso si chiude una lunga serie con nascite annuali al di sopra delle 10 unità. Nell’anno successivo, il 1801, nonostante i morti del età fertile siano in numero assai limitato (v. capitolo successivo) le nascite crollano a 3, e anche nel 1802 i nuovi nati saranno solamente 5. Vero è che i matrimoni praticamente si azzerano (negli anni dal 1800 al 1803 se ne contano due soli) tuttavia l’impatto di questo fattore causale è statisticamente irrilevante e comunque sproporzionato al presunto effetto di caduta delle nascite.

È probabile invece che il crollo della natalità sia la risultante dell’effetto concorrente di due fattori: da un lato un saldo migratorio pesantemente negativo, ai limiti dell’emorragia (la popolazione diminuisce di quasi un terzo in cinque anni), probabilmente sovralimentato dalla epidemia stessa e che va ad aggiungersi e ad amplificare un già cospicuo flusso “fisiologico” dell’emigrazione; dall’altro la probabile insorgenza di una qualche forma di controllo delle nascite, una sorta di meccanismo di difesa e di autodifesa, almeno fino alla scomparsa della minaccia del morbo. È un evento drammatico i cui effetti, al di là del mero dato puntuale, sono di portata gigantesca, trascinando la stessa media decennale delle nascite del periodo in una caduta di quasi 10 punti, da 3.5 nascite/anno.

Figura 4

Ma la vita continua, e non è un modo di dire. Infatti, anche questo evento tragico non interrompe la quasi ferrea regola della periodicità del ciclo fertile cui si è fatto cenno alla pagina precedente: 27 anni più tardi, in un nuovo massimo di natalità, la media annua delle nascite si riporta su valori prossimi a 10 (9.6).

A proposito di cicli e di frequenze, detto dell’andamento della variabile natalità nel corso degli anni, ben più di una menzione merita anche l’analisi dell’andamento mensile delle nascite all’interno del ciclo annuale, ovvero la loro distribuzione nei vari mesi dell’anno (fig. 4)85. Si tratta di un fenomeno di estremo interesse e con notevoli implicazioni di carattere socioeconomico e di costume, la cui trattazione preferisco però rimandare al paragrafo relativo ai matrimoni, in quanto a questi ultimi strettamente legato, e ciò non certo (non solo, almeno) per mero nesso di causalità diretta!

A conclusione di questo lungo capitolo aggiungo qualche aspetto inerente al costume più che alla statistica, in un contesto un poco meno arido e più colloquiale (un po’ più da filo, insomma…).

Nei 400 anni considerati, i nati di sesso maschile sono 104.5 per ogni 100 femmine: un rapporto pressoché costante nel tempo e in linea con la statistica generale86. Si tratta apparentemente di una considerazione banale e scontata, che tuttavia sottende implicazioni tutt’altro che trascurabili: prima fra tutte, l’esclusione dell’infanticidio come forma diffusa di controllo selettivo delle nascite. Sembra, questo, argomento da relegare nel museo degli orrori, o da confinare a paesi e culture lontani ed estranei alla civiltà occidentale moderna. La realtà storica e documentale dimostra che così non è.

1942. Cinque generazioni, tutte al femminile. Dalla trisavola alla pronipote: Giuditta Agostinis (Pirucèlo) e Anna Tolazzi (Šulìn), quindi Teresa Tamussin (Betàn), Ines Della Pietra, Gina Gussetti
1942. Cinque generazioni, tutte al femminile. Dalla trisavola alla pronipote: Giuditta Agostinis (Pirucèlo) e Anna Tolazzi (Šulìn), quindi Teresa Tamussin (Betàn), Ines Della Pietra, Gina Gussetti

Per non citare che l’esempio forse più conosciuto alle nostre latitudini (e longitudini), è noto che la soppressione delle neonate femmine era prassi ancora diffusa nella Cina di pochi anni fa, pratica alimentata dal maggior “valore” prospettico, reale o presunto che fosse, del figlio maschio rispetto alla femmina nel contesto socioeconomico di quel paese87. Tuttavia, per trovare analoghe consuetudini non c’è bisogno di andare così lontano: è sufficiente andare a ritroso nel tempo di 300 o 400 anni, alle origini temporali della nostra ricerca, e portarci nei luoghi già citati nell’analisi onomastica, nell’entroterra del Levante ligure del diciassettesimo secolo.

A Tribogna88, su una popolazione di battezzati statisticamente significativa (204), nel periodo 1625-1639 il rapporto è di 156 maschi per 100 femmine; dal 1748 al 1762, il dato scende a 122, valore pur sempre ragguardevole rispetto alla media di 105-106 universalmente rilevata.

A Collina il rapporto maschi/femmine negli anni 1625-1639 è di 122 (ma su una popolazione meno significativa, 80 nati), mentre dal 1700 al 1718 (gli anni disponibili più prossimi al secondo intervallo rilevato a Tribogna) il rapporto scende a 92 maschi per 100 femmine89.

Sia ben chiaro: non che la pratica dell’infanticidio femminile fosse peculiare o anche solo caratteristica di quei luoghi. Al contrario, era prassi verosimilmente piuttosto diffusa nelle civiltà contadine dell’epoca, tant’è che mi sembra interessante segnalarne l’assenza a Collina.

Naturalmente questo non è, non vuole né può essere un giudizio di valore o – peggio – morale. È semplicemente la presa d’atto di un fenomeno e, prima ancora, della probabile assenza a Collina dei presupposti socioeconomici alla sua origine.

Allo stesso modo, a Collina sembra assente, o non rilevabile, anche la prassi della cosiddetta ”esposizione”90, ovvero dell’abbandono degli infanti a istituti più o meno preposti alla raccolta dei trovatelli, le famose ruote dei conventi o degli ospedali (le grandi “case”) all’origine di numerosi cognomi in tutta Italia: Esposito, Casagrande, Della Casa etc..

Conseguentemente, a Collina è certamente sconosciuto (almeno come istituto formale) il baliatico, contraltare dell’esposizione e fenomeno anche questo diffusissimo nella realtà ligure cui abbiamo ripetutamente fatto riferimento, dove assume la veste istituzionalizzata e sistematica di fonte di reddito integrativo, attraverso veri e propri contratti con gli orfanotrofi. In Fontanabuona, una parte dei neonati che escono clandestinamente dalla valle per essere “esposti” a Genova rientra poi ufficialmente a balia, fors’anche negli stessi luoghi d’origine.

Non è da escludere che la lontananza di Collina dai luoghi preposti alla raccolta e alla redistribuzione della “materia prima” (gli infanti) abbia giocato un ruolo rilevante nell’assenza del fenomeno. Tuttavia, preferisco far credito alla gente di quassù anche di uno spirito aperto e tollerante, in anticipo sui tempi e tale da rendere – ovviamente insieme alle condizioni al contorno – non necessaria o comunque inusitata una tale pratica almeno per quanto concerne gli illegittimi91. Inclinazione aperta e tollerante (beninteso, relativamente agli standard dell’epoca) che a mia sensazione comunque traspare dall’anagrafe e dai documenti del tempo.

A tale proposito il supporto quantitativo e documentale si fa in verità labile e non necessariamente probante: tuttavia, il quadro d’insieme sembra contraddistinto da uno spirito non bigotto né oscurantista, e neppure beceramente maschilista. Non è certamente il profilo di una società liberale ante litteram (non dimentichiamo che siamo pur sempre nel ‘600-‘700), ma alcune aperture sono decisamente anticipatrici dei tempi.

Ad esempio, la procreazione al di fuori del matrimonio è probabilmente riprovata, ma non appare criminalizzata né necessariamente emarginante. Le donne stesse, sebbene non titolari della vicinia (anche nelle sedi più modeste il diritto di voto femminile è ben di là da venire, anche nei paesi europei più evoluti), agiscono talvolta da formali vicarie dei mariti assenti, prendendo posizione anche collettivamente. È il caso della disputa del 1795 fra il mansionario Osualdo Bonano e i villici di Collina circa il rinnovo dell’incarico92. O ancora, almeno in un caso di separazione dei coniugi (naturalmente benestanti…) si assiste a una vera e propria formalizzazione dell’evento, compresa la divisione dei beni dei coniugi stessi davanti al solito notaio, personaggio immancabile delle diatribe collinotte del tempo (e successive).

Insomma, le donne non sono solo divise fra i campi e la filo. Anticipando e parafrasando Pelizza da Volpedo, ancora ben di là da venire, anche nel Quarto Stato di Collina le donne sono in prima fila…

Ma ormai siamo a note di costume che poco hanno a che fare con l’anagrafe e la demografia, della quale perciò riannodiamo il filo perduto.

Mortalità

Come già per le nascite/battesimi, a maggior ragione qualche problema di significatività dei dati si pone anche per le morti, soprattutto in virtù della componente migratoria. Come si vedrà più avanti in tema di popolazione, il confronto fra saldo naturale nati-morti e la reale variazione della popolazione evidenzia una considerevole sottostima delle morti. O, meglio, si evidenzia un dato delle morti affetto da variabili esterne (principalmente il saldo migratorio negativo) che ne condizionano la significatività.

Non tutti gli emigranti “scompaiono” dai registri: alcuni, deceduti altrove, sono sepolti a Collina e qui annotati nei registri parrocchiali; come pure altri, sebbene sepolti lontano da qui, vi sono invece registrati. Tuttavia non è agevole, in nessun senso, discriminare gli uni dagli altri, e dagli altri ancora: con atteggiamento – mi rendo conto – forse poco scientifico, tutti i morti registrati sono comunque stati presi in considerazione nelle elaborazioni: in san Micjol, c’è posto per tutti…

Figura 5.

Analogamente alle nascite, sono qui riportati sia i dati grezzi che le medie mobili delle morti, delle quali siamo in possesso della serie completa dal 1600 al 2000.

Sfortunatamente, in questi 400 anni solo alcuni curati e cappellani (e anche questi non sempre) hanno la diligenza e l’accortezza di annotare, insieme all’evento, anche l’età dei defunti, un potente e rapido strumento di informazione di cui disponiamo in misura purtroppo insoddisfacente. Come ho già avuto modo di accennare in precedenza, a questa lacuna è stato posto in qualche misura rimedio, tuttavia in maniera non adeguata a fini statistici.

Prima ancora che a medie e andamenti generali, diamo uno sguardo al dato del 1800, anno in cui la popolazione di Collina ammontava a meno di 320 abitanti.

In quell’anno si registrarono 32 morti (e altri 10 decessi si contarono nell’anno successivo), contro una media di 4.8 nei 9 anni precedenti! Con una mortalità del 100‰ (il dieci per cento!), fu una decimazione, e non certo per modo di dire.

L’epidemia (“morbus dicti dissenteria”, secondo una nota dell’epoca) colpì soprattutto bambini e anziani: su un totale di 32, i morti con meno di 15 anni furono 15; quelli con più di 50 anni furono 13. Pochi i morti in età fertile, dunque: ciononostante, nel periodo immediatamente successivo la natalità subì un crollo assolutamente sproporzionato, certamente da ricondursi anche ad altre cause (v. capitolo precedente).

Date le conoscenze mediche del tempo, e verosimilmente dello stesso curato, “dissenteria” non sta certamente a indicare una diagnosi: si tratta piuttosto della descrizione di un sintomo, la cui origine precisa (febbre tifoidea, enterite?)93 evidentemente sfugge alla mia competenza e conoscenza.

Quale che ne fosse l’origine patologica (forse una salmonella), il morbo colpì in maniera mirata, oltre che le fasce di età più deboli, ben individuati nuclei familiari e abitazioni94. Il caso della famiglia di Michele Di Tamer è da film del terrore: sette figli morti, in età compresa fra 1 e 29 anni, più lui stesso. Inoltre, sempre nell’anno maledetto, dello stesso Michele Di Tamer muore una consuocera, insieme all’intera famiglia di quest’ultima: genero, figlia e nipote. Per finire, nell’anno scompaiono altri due Tamer, marito e moglie (tuttavia non parenti prossimi di Michele). Alla fine del 1800, infine, nella grande casa/casata dei Tamer si contano certamente 8 morti, probabilmente 10, forse 14.

Figura 6.

Una vera strage fra i Tamer, ma altre case piangono più di un morto, in quel tragico 1800.

Muore Francesco Tamussin, insieme alla moglie Ursula. Mattia Toch perde un figlio neonato e una figlia ventenne, così come Antonio Sotto Corona che perde due figli, uno di quattro anni e uno di pochi mesi. Anche Tommaso Di Sopra si vede morire due figli, di 3 e 13 anni.

Non è possibile attribuire all’infezione tutti i decessi collettivi: alcuni casi sono effettivamente poco verosimili, o comunque necessiterebbero di spiegazioni ad hoc. D’altra parte, non si può neppure escludere il morbo dalle cause dei decessi “isolati”: al contrario, è certamente la causa di alcuni di questi. In ogni caso, è un fatto che le morti isolate rappresentano comunque una minoranza nell’ecatombe di quell’anno. Una minoranza ben cospicua (10 morti), che già di per sé avrebbe comunque fatto saltare i sismografi che rilevano la mortalità in villa.

Al di là dell’annus horribilis, e per tornare a una visione più globale di questa variabile demografica, già da un esame superficiale degli andamenti della mortalità emergono alcuni fatti interessanti, fortunatamente – se così si può dire, parlando pur sempre di morti – meno tragici di quello sin qui descritto. In prima analisi proporrei tre osservazioni, alcune forse del tutto scontate, altre meno.

1956. Funerale. Sullo sfondo, la chiesa di s. Michele (301)
1956. Funerale. Sullo sfondo, la chiesa di s. Michele (301).

Con qualche significativa eccezione, l’andamento di lungo periodo della mortalità segue quello delle nascite, come ben evidenziato dalla fig. 6 alla pagina precedente, ed entrambe seguono l’andamento della popolazione. Questa affermazione, in sé non particolarmente acuta né coraggiosa, a sua volta ne sottintende e ne implica altre due, entrambe non prive di significato. La prima è che l’indice di mortalità (morti/abitanti) tende a rimanere costante per un tempo considerevolmente lungo, o perlomeno tende a variare molto lentamente e con continuità. La seconda è che – almeno in alcuni periodi significativamente lunghi – esiste una relazione diretta fra numero assoluto dei nati e dei morti. Relazione diretta, si badi (più nati = più morti), e non mediata attraverso il dato della popolazione (più nati = più abitanti = più morti): ovvero, la mortalità come funzione della natalità e non solo (o non principalmente) della popolazione.

Logica conclusione di questo percorso, un po’ schematico ma nondimeno efficace, l’esistenza e la persistenza di valori di mortalità neonatale o infantile statisticamente rilevanti, sia per intensità che per durata. Ancora una volta, nulla di nuovo sotto il sole: è la legge della fabbrica di uomini, o almeno un suo corollario.

Ultimo elemento e vero punto di rottura è l’alterazione definitiva degli equilibri consolidati – o almeno della lenta dinamica con cui questi equilibri si sono evoluti per secoli – mutamento che appare in tutta la sua evidenza dopo la metà del ventesimo secolo.

Intorno al 1960, per la prima volta in 400 anni, gli indici di mortalità superano quelli di natalità. Si invertono medie e tendenze, si badi, e non i soli valori puntuali che nelle loro erratiche oscillazioni hanno visto il numero dei morti non di rado superare quello dei nati. È, questo, un sintomo chiarissimo e inequivocabile, il riscontro esplicito di un fenomeno ancor oggi in evoluzione e alla ricerca di nuovi equilibri, e sul quale avremo modo di ritornare, seppur brevemente, in seguito.

Di ritorno all’osservazione dei dati puntuali anno per anno, su e giù per la scala del tempo, oltre al vertiginoso picco del 1800 si nota una miriade di punte, più o meno elevate. Sebbene talvolta di intensità rilevante, si tratta tuttavia di eventi “normali”, di punte di mortalità legate per lo più a fattori alimentari o microepidemici (seppure isolatamente, il tifo colpiva ancora verso la metà del XX secolo), magari circoscritti ma tutt’altro che infrequenti nell’epoca nella quale si collocano.

Non sembra invece avere la stessa rilevanza puntuale il fattore climatico, che alla normale mortalità aggiunge per lo più vittime casuali di incidenti o di assideramento. Non siamo in possesso di una casistica ampia, ma due inverni terribili per temperatura e precipitazioni nevose (1708-09 e 1835-36) evidenziano un numero di decessi assolutamente in linea con le statistiche del tempo95.

Dopo un diciassettesimo secolo relativamente tranquillo (il 1617 e il 1653 sono gli unici anni con più di 10 morti), il diciottesimo abbonda di annate di cattivo raccolto e di eventi epidemici, anche con pesanti conseguenze: per cinque volte il numero dei morti raggiunge o supera le 15 unità (1717, 1740, 1759, 1770, 1774), dati puntuali che corrispondono a una mortalità superiore al 50‰.

In tutto, sono ben 24 gli anni del secolo in cui i morti sono 10 o più, e la sola crescita della popolazione non giustifica né l’intensità né – ovviamente e soprattutto – la frequenza di questi fenomeni peraltro comune e sgradita ricorrenza in molti paesi della Carnia, almeno a giudicare dalle statistiche96.

È un secolo difficile, questo, che vede l’intera Europa dall’Islanda alla Grecia e dal Portogallo alla Russia intrappolata assai più di Collina nella catena perversa clima-carestia-malattia97. A testimonianza di questa quasi estraneità di Collina ai grandi eventi epidemici, non c’è neppure bisogno di ricorrere alle piaghe bibliche o alle pestilenze che in quegli stessi tempi spopolano periodicamente città e villaggi e di cui quassù si fatica a trovare traccia, almeno nell’intensità e nelle dimensioni. Ad esempio, fra gli eventi di grande portata altrove ampiamente conosciuti e documentati non hanno riscontro a Collina le periodiche scorrerie della peste, compresa quella del 1629-1630 che colpisce duramente anche Udine, e neppure sono visibili gli effetti devastanti della carestia in Friuli del 1746.

Anche quassù, tuttavia, malattie del bestiame e cattivi raccolti, gastroenteriti e febbri tifoidee, insieme alle “semplici” influenze e a chissà che altro, bastano e sono d’avanzo in epoche (fino ai primi decenni del 1900) nelle quali medicina diffusa e integrazione economica sono poco più che una speranza. Batteri e virus sono ospiti certo poco graditi, ma non per questo meno presenti anche sotto il Cogliàns, e fanno sino in fondo il proprio lavoro.

Stavo per chiudere con un sorriso questo capitolo – certamente non fra i più piacevoli, ça va sans dire – affermando che, nonostante tutto, a Collina si muore di meno che altrove, perlomeno di stenti e di malattia. Anche il tristemente famoso 1800, che si portò via il 10% degli abitanti e fu per la villa un evento assolutamente tragico nella sua intensità, resta un caso unico e circoscritto nel tempo, e persino modesto nelle proporzioni: altrove e fino a non molto tempo addietro, in Italia e in Europa le ripetute crisi di mortalità cancellavano il 30 o il 40% della popolazione in pochi anni. Se i numeri vogliono dire qualcosa, la differenza – pur triste – non è di poco conto.

Quindi, è pur vero: per trecento e più anni, a Collina si “muore di meno”. Probabilmente, in quest’angolo di mondo, faticano ad arrivare persino i quattro cavalieri dell’Apocalisse!

Ma il sorriso mi si è immediatamente spento, davanti alle cifre dell’emigrazione. Chiedo scusa della banalità del luogo comune, ma se è vero che partire è un po’ morire, i conti tornano.

Proprio tutti.

Nuzialità

Un breve cenno anche ai matrimoni, più sotto il profilo socioeconomico e di costume che strettamente statistico (età degli sposi, fertilità, vedovanza etc.), sebbene il materiale anche in questo caso non faccia difetto.

Figura 7.

Al pari di ogni altro indice demografico, va da sé che anche l’andamento della nuzialità – ovunque e in ogni tempo – è la risultante di più variabili e cause: generali e particolari, concordi o antagoniste, comunque combinate e spesso indistinguibili negli effetti e nel risultato finale98. Tradizioni, religione, microclima, disponibilità economica o altro, tutto concorre alla “somma decisione” che, comunque, deve fare i conti con una condizione aprioristica e imprescindibile: la disponibilità di “materia prima”. Senza gli sposi (entrambi), i matrimoni generalmente non si fanno99 : sembra – ed è – una banalità, ma le conseguenze pratiche sono di portata tutt’altro che trascurabile.

In particolare, a Collina come in tutta la Carnia, la disponibilità temporale del nubendo “lui” è tutt’altro che piena e totale nel corso dell’anno e degli anni. I ritmi della vita sociale e individuale sono scanditi sì dalle stagioni, ma anche dai rigidi tempi dell’emigrazione (soprattutto maschile) e, più in dettaglio, dalle tipologie di questa; è persino ovvio constatare come la prima, immediata conseguenza dell’emigrazione sia pertanto la limitata disponibilità in villa della componente maschile “abile” al lavoro nonché alla costituzione (matrimonio) e all’espansione (riproduzione) del nucleo familiare.

Fine’800. Coniugi nel classico ritratto d’epoca

Fine’800. Coniugi nel classico ritratto d’epoca.

Sull’emigrazione carnica e sui suoi effetti socioeconomici si è detto e scritto in abbondanza. Dei cremârs, ad esempio, e della loro plurisecolare attività si parla certamente più oggi di quanto non si facesse cinquanta o settanta anni fa, riscoprendo un fenomeno in parte sconosciuto, soprattutto nei suoi aspetti quantitativi100, allo stesso popolo che ne è stato protagonista. Documenti, saggi e mostre mettono in evidenza un vero e proprio fenomeno di massa che coinvolge e condiziona ogni aspetto – nessuno escluso – del microcosmo delle ville carniche.

Per secoli, dunque, i cremârs lasciano il paese a fine settembre per farvi ritorno solo a primavera inoltrata, circoscrivendo in tal modo il tempo utile per i matrimoni (e i concepimenti) al periodo estivo. Gli effetti sugli andamenti demografici in relazione alle tipologie migratorie sono già stati ampiamente studiati e descritti in numerosi lavori.

Fra i molti e diversi, per taglio e profondità, ricordo con piacere il brillante e gradevolissimo saggio di Giorgio Ferigo101, afferente a una realtà (S. Giorgio di Comeglians) che evidenzia molte analogie – seppure insieme a qualche non marginale differenza – con quella di Collina: analogie e differenze che cercherò brevemente di evidenziare, almeno sotto il profilo qualitativo, integrandole con qualche ulteriore considerazione consentitami dal periodo di osservazione più lungo della popolazione di Collina rispetto a Comeglians (Ferigo circoscrive e approfondisce la sua analisi relativamente al periodo 1600-1654).

Le analogie sono evidenti quando si confrontino le distribuzioni mensili dei matrimoni rilevate nelle due località nella prima metà del 1600 (fig. 8).

Figura 8.

In entrambi i casi è evidente la concentrazione dei matrimoni nel periodo estivo, da giugno a settembre. Tuttavia, se le analogie di fondo sono ben chiare, altrettanto visibili sono le differenze di dettaglio.

A Collina, la nuzialità estiva è bimodale, con due massimi a giugno e settembre (dopo l’arrivo e prima della partenza dei cremârs?); a Comeglians la distribuzione è decisamente monomodale, centrata sul mese di settembre. Inoltre, da dicembre a maggio a Collina pare non ci si sposi del tutto o quasi, mentre a Comeglians – tabù di dicembre e marzo a parte – l’inverno non è completamente privo di nozze. E dunque: solo cremârs (o quasi) a Collina, mentre a Comeglians sono già presenti assetti socioeconomici più stabili ed evoluti, o comunque diversamente strutturati? Dettagli, se mi si passa l’espressione, in questo contesto dove rimangono ancora da descrivere altri fenomeni decisamente più macroscopici.

Verso la metà del XIX secolo le cose cambiano radicalmente, a conferma – se mai ve ne fosse bisogno – dell’asserto di Ferigo circa i mutamenti tipologici dell’emigrazione sopravvenuti in quel periodo.

Cambia l’emigrazione – per tipologia, per destino, per tempistica – e cambiano i suoi effetti: il periodo dei matrimoni si sposta decisamente a gennaio-aprile, con la consueta eccezione del periodo quaresimale (fig. 9), mentre le nascite, prima concentrate nel primo semestre dell’anno, si spostano nei mesi da agosto a gennaio (v. fig. 6).

È il declino dei cremârs come fenomeno massivo, sostituito dal lavoro dipendente; è il mutamento della destinazione dell’emigrante, che dai paesi contermini del centro Europa si rivolge verso l’Italia e gli altri paesi europei; è il cambiamento dei tempi, non più dettati dal ciclo agricolo del paese ma dalle esigenze produttive della nascente economia industriale.

Sul piano del costume, in pieno accordo con le conclusioni di altre analisi socio-demografiche realizzate in Carnia, anche da Collina giunge la smentita del luogo comune che vorrebbe maggio come “mese delle spose”. Se con ciò si vuole intendere un costume con radici in una tradizione diffusa, la smentita è per certi aspetti clamorosa e senza appello: di questa presunta tradizione, quassù non si vede ombra. Al contrario.

Figura 9.

Come altrove in Carnia, e fino a tempi recentissimi nella nostra scala (dopo il 1950), anche a Collina maggio è un mese di minima quasi assoluta dei matrimoni, paragonabile ai soli mesi tradizionalmente interdetti di marzo (quaresima) e dicembre (avvento). Solo nel secondo dopoguerra, sotto la pressione dei nuovi modelli di vita e di nuove esigenze e convenienze, gli antichi costumi sbiadiscono, e anche i divieti sacrali si temperano: cadono i tabù.

A partire dal 1950, i matrimoni si distribuiscono più uniformemente nel corso di tutto l’anno, beneficiando fra gli altri anche il mese di maggio, il quale peraltro non risulta particolarmente premiato. Ma siamo ormai in tempi in cui il numero stesso dei matrimoni crolla verticalmente, e la base statistica perde di rappresentatività.

Per una analisi delle cause e dei fondamenti del tabù di maggio, rimando ancora una volta ai preziosi saggi di Giorgio Ferigo, che percorre gradevolmente ed esaurientemente l’intero ciclo di vita di questo vero e proprio “istituto”102.

Un brevissimo accenno alla vedovanza, infine, solo per confermare quanto da altri già osservato e misurato in analoghi contesti.

Le vedove, anche giovani, difficilmente si rimaritano. Viceversa, gli uomini riprendono moglie con velocità che oggi sarebbe ritenuta persino sconveniente: il tempo minimo rilevato è di soli tre mesi, ma periodi di vedovanza inferiori all’anno sono prassi comune fino alla metà dell’800, periodo critico e di profondi mutamenti nel tessuto socioeconomico.

Fino ad allora, il problema principale del vedovo con prole – soprattutto se emigrante, come spesso accade – è quello di garantire una madre ai propri figli, quasi sempre piccoli quando non infanti: una vera e propria questione di sopravvivenza, un mix drammatico di dolore e di sentimenti, di speranze e di legittimi interessi e necessità di tutti i soggetti coinvolti, che fa giustizia di luoghi comuni e di affrettate chiavi di lettura.

Popolazione

La quantificazione precisa e “contabile” degli abitanti103, nell’intero arco di tempo, è assai problematica, in particolare per i primi due secoli: le conte delle anime degne di questo nome antecedenti al 1800 sono solamente due (1647 e 1736)104. Tuttavia, con qualche semplice artifizio e sulla base di dati accessori, è possibile effettuare con sufficiente attendibilità ulteriori stime della popolazione in tempi storici.

Altre stime – non necessariamente più precise e attendibili – sarebbero state possibili anche a partire dai dati di mortalità “normalizzata” (depurata degli effetti epidemici o contingenti), in considerazione dell’elevato grado di correlazione fra mortalità e popolazione nel medio periodo (50÷100 anni). Tuttavia, trattandosi di un lavoro descrittivo e non specialistico, non ho ritenuto opportuno inoltrarmi su questa strada.

A scopi censuari non risulta invece di alcuna pratica utilità l’analisi dei saldi naturali della popolazione (nati–morti, fig. 10), ampiamente sovrastati dalla costante e pesante interferenza dei saldi migratori negativi.

Figura 10.

A titolo di esempio quantitativo, si veda il periodo 1602- tab. C1 (in appendice, in fondo al volume): il movimento della popolazione presente evidenzia un saldo naturale positivo di 21 unità, a fronte di un movimento anagrafico con un saldo, anch’esso positivo, di 122 unità. In totale, nel periodo mancano all’appello 101 individui! Morti di parrocchiani, avvenute e non registrate? Possibile, certo (anche se, personalmente, tendo a escludere una massiccia sottostima anagrafica dei decessi) ma comunque non bastevole, e soprattutto non in questa misura, visto che persino degli emigranti temporanei deceduti e sepolti all’estero si registra la morte!

C’è dell’altro, e questo ”altro” non può essere che emigrazione definitiva, con l’equivalente della cancellazione dall’elenco dei residenti.

L’analisi del movimento della popolazione attraverso il saldo naturale resta quindi un puro – sebbene per altri versi interessante – esercizio statistico.

In chiave analitica, l’andamento generale della popolazione residente di Collina nell’arco di 400 anni è caratterizzato da quattro fasi distinte, due di espansione e due di contrazione, fortemente differenziate per cause e intensità (fig. 11).

La prima fase di espansione spazia dalle origini del nostro periodo di osservazione, intorno al 1600 (come fosse la situazione prima d’allora non si saprà forse mai), e dura fino al 1800.

Figura 11.

Sebbene, come già sottolineato in precedenza, frutto di interpolazioni in parte arbitrarie, i grandi numeri evidenziano una lenta e continua crescita alimentata dal saldo naturale attivo nati-morti, quest’ultimo a sua volta temperato dal saldo migratorio negativo. Il saldo naturale è certamente attivo (per una verifica puntuale, v. il quadro di dettaglio in appendice), ma in presenza di un grado di mortalità infantile, e soprattutto neonatale, elevatissimo.

Per riandare agli inizi della nostra storia, non sappiamo dunque quanti abitanti vi fossero a Collina nel 1600. Sappiamo tuttavia che nel 1602 c’erano 30 “fuochi” o famiglie (e, soprattutto, soggetti fiscali). Il luogotenente patriarcale Agostino Bruno si premura anche di farci sapere che i suddetti fuochi sono ripartiti fra Collina di Sopra (18) e di Sotto (12).

Assumendo, in linea con la dimensione media dei nuclei familiari dell’epoca in Carnia105, un numero medio di 5.2 componenti per ciascun nucleo, si ottiene una stima totale di 156 abitanti per l’intera villa. Questo risultato – certamente approssimato – è tuttavia da considerarsi attendibile, soprattutto alla luce del dato del 1647 (dato certo, questa volta) ricavato dalla “Nota delle anime delle ville della Carnia106, che quantifica in 177 gli abitanti di Collina.

Un incremento di soli 21 abitanti in un arco di 45 anni, sebbene assai contenuto, appare comunque verosimile, soprattutto alla luce del pesante saldo migratorio negativo quale risulta dal computo dei dati anagrafici del periodo, già citato a titolo esemplificativo.

Pur con tutte le riserve del caso, il saldo negativo risultante di –101 unità nel periodo 1602-1647 è a prova di qualsiasi errore grossolano. Quale che sia il valore reale del saldo, sia esso –80 o –50, invece di –100, la sostanza del problema resta invariata: sia permanente che definitiva, l’emigrazione da Collina è già allora una realtà, e di considerevoli dimensioni. Ciononostante, la popolazione cresce. Ma siamo ancora nella prima parte del primo periodo espansivo.

Per il dato successivo – questa volta accertato – relativo alla popolazione presente, bisogna attendere oltre 70 anni, fino al quel tempo, Collina comincia ad assumere proporzioni considerevoli: in quell’anno gli abitanti sono infatti ben 297 (o dovremmo forse dire solo 297?).

Dal 1718 siamo privi dell’anagrafe dei nati; già a quell’anno, tuttavia, il saldo naturale nati-morti a partire dal censimento precedente del 1647 è di + 311 unità. Dal 1718 al 1736 non ci sono morìe, anche il numero di matrimoni è nella regola (è anzi piuttosto elevato), e non c’è alcuna ragione per pensare a una ipotetica, drastica riduzione delle nascite. La situazione appare del tutto normale. E probabilmente lo è davvero, evidenziando un saldo migratorio negativo, nell’intero periodo, certamente superiore alle 121 unità, e ragionevolmente di molto superiore alle 200! Sono cifre talmente impressionanti da insinuare il dubbio dell’errore sistematico, e grossolano per di più! Tuttavia, queste sono le cifre e le anime, per dirla ancora con Ferigo.

Nell’ultima fase del primo ciclo di popolazione crescente, la quantificazione del saldo anagrafico, e conseguentemente di quello migratorio, risulta praticamente impossibile a causa del citato black out delle nascite.

Una stima della popolazione al 1799, effettuata sulla base del numero di cresimandi del 1790, porta a un valore di circa 315 unità. Estrapolando linearmente al 1799 la tendenza 1672-1736 (operazione che non appare del tutto illegittima, alla luce delle altre variabili demografiche non significativamente perturbate), si perviene invece a un valore della popolazione di circa 382 unità, molto più elevato della stima effettuata sulla base dei cresimandi. In ogni caso, qualunque valore si assuma per il 1799, l’anno che chiude il primo periodo di espansione, il dato non muta le proporzioni dello sconvolgimento che si va preparando. Sei anni dopo, nel 1805, nella Statistica della Cargna, gli abitanti della villa di Collina risultano in numero di 216; quindici anni più tardi, in occasione della visita pastorale del 1820, saranno ancor meno: 201.

Degli avvenimenti del 1800 e dintorni sotto il profilo anagrafico si è già ampiamente trattato in precedenza. Tuttavia, le proporzioni dell’accaduto coinvolgono certamente anche aspetti più generalmente e genericamente socioeconomici.

Se nel solo 1800 muore il 10% della popolazione, nei 20 anni successivi la stessa popolazione subisce un ulteriore calo compreso fra il 25 e il 35%, nonostante un saldo naturale ampiamente positivo. Fra il 1805 e il 1820, il saldo naturale è infatti di +24 unità, ma il movimento complessivo è negativo, a –15. Almeno apparentemente, l’epidemia del Collina sembra davvero essere l’evento originario e scatenante dell’emorragia di popolazione che colpisce la villa, ma non è certamente questa la sola spiegazione: è anzi probabile che si tratti – almeno in parte – di una mera coincidenza temporale.

In Carnia, lo spopolamento è infatti generalizzato, nonostante il movimento anagrafico positivo riscontrato nella maggioranza delle ville in quel periodo. Dal lavoro citato di Bianco e Molfetta, riporto qui di seguito il saldo anagrafico del periodo 1806-1820 di alcuni paesi di Gorto.

  • Collina +20
  • Lauco e Vinaio +71
  • Ovaro +50
  • Luincis +72
  • Comeglians +22

Per completezza e correttezza, va pur detto che negli stessi anni a Trava il saldo anagrafico è negativo, –66, ma l’eccezionalità di questo dato è tale, anche nella dimensione, da richiedere una spiegazione ad hoc che non sono in grado di fornire107. Certo, il contrasto fra Trava e il resto di Gorto è innegabile, e tale da far risaltare ancor di più la tendenza generale alla crescita del saldo anagrafico.

In quegli anni, dunque, in Carnia la gente non muore. Non più del solito, almeno: semplicemente, se ne va. Dove? Probabilmente ovunque, o perlomeno in luoghi diversi, dalle destinazioni tradizionali come las Gjermanios o in Tadésc – “le Germanie” – a quelle nuove, come l’Italia o la Francia. Per le Americhe è ancora presto: là si andrà più avanti. Ma perché se ne va, la gente, prima alla spicciolata e poi a frotte e a fiumi, fino all’emorragia?

Probabilmente (è l’avverbio più usato in questo lavoro!) il perché è uno solo, sempre lo stesso: la miseria. Forse non è la fame, o almeno non la fame che dal 1845 al 1849 spopola l’Irlanda, ma miseria certamente sì.

Miseria vecchia e nuova, le cui radici antiche traggono forse nuova linfa, e le spinte alla fuga nuove ragioni, nei drammatici eventi di quegli anni, sconvolgimenti che rimbombano fin dove di barbari e turchi non era giunta che l’eco.

In quei quindici o vent’anni succede un po’ di tutto, ed evidentemente non solo in Carnia. Per esempio, in giro per l’Europa in quegli anni c’è un certo Bonaparte che ne combina di tutti i colori, e giunge persino a mettere il naso nella ex Patria del Friuli e in Carnia dove, prima di lasciare il passo al congresso di Vienna e ai nuovi assetti politici e territoriali, dietro di sé lascia ben altri ricordi che le notti trascorse a villa Manin a Passariano. Nuove leggi, nuove organizzazioni, nuove tasse: il ciclone francese dura poco, ma lascia certamente un segno durevole, nel bene e nel male.

Non ho misura del se, del come e del quanto questi rivolgimenti, qui e altrove, impattino sulla “materia prima” delle nostre statistiche. Sta di fatto che, passata la buriana, a partire dal 1820 la popolazione riprende a crescere, e più rapidamente di prima.

Riprendono i matrimoni, riprendono le nascite: il saldo naturale nel periodo 1820-1850 è di +100 unità, ma anche il movimento totale non è da poco, raggiungendo le +61 unità.

Nel corso dell’800 si emigra ancora, e non poco, ma è tutt’altra cosa rispetto al principio del secolo. La popolazione continua la sua crescita fino alla fine di questo secolo e all’avvio del nuovo, si espande fino ai suoi massimi storici, per giungere quindi al cambiamento epocale che segna l’avvio dell’intero Occidente alla crescita zero, quando non negativa.

Il ventesimo secolo, dunque, vede ormai Collina “anagraficamente” in Europa: natalità, matrimonialità, morte si allineano agli standard occidentali.

L’economia, no.

Il risultato è demograficamente disastroso, più di qualsiasi epidemia o carestia, o calamità, e per di più apparentemente irreversibile, senza fine: a un tempo crollano le nascite, riprende l’emigrazione, la mortalità supera – e di gran lunga – la natalità.

Il nostro zibaldone finisce qui. Siamo alla cronaca, e ogni commento mi sembra ridondante o del tutto superfluo: ormai, avremmo poco o nulla da aggiungere a ciò che ogni lettore conosce di persona o, più semplicemente, può quotidianamente leggere sui giornali.

E poi, di tutto questo lavoro di cui siamo giunti all’epilogo, della gente, dei nomi, delle casate, delle anime e delle pietre insomma, il capitolo sulle case vecchie e nuove, e sui loro portoni troppo spesso chiusi, è davvero il ritratto più autentico della villa di Culina in Cargna d’oggi.

Mandi, grazie, scusàit, e buinonót!

Così, un tempo, usavano dire i nostri vecchi lasciando la filo


  1. Questa ricostruzione è narrata da l’Ultim Maçaròt, l’ultimo folletto di Collina, protagonista del racconto Rùobos e ints di chel âtri mont, scritto nella parlata di Collina e presentato al Premio Letterario in Lingua Friulana S. Simon 1995. La traduzione è dell’autore (giro di parole a indicare il sottoscritto: mi scuso per l’autocitazione). 

  2. Ğùof = giogo. Microtoponimo ancor oggi in uso: il luogo, sul sentiero che da Givigliana conduce a Collina, è in corrispondenza del passaggio dalla valle del Degano a quella del Fulìn, e quindi al territorio di Collina. 

  3. Non sono stato in grado di reperirne l’originale: la citazione è tratta dalla mai abbastanza lodata tesi di laurea di don Giuseppe Scarbolo sulla parlata di Collina (pag. VII nella tesi). 

  4. I locali usano la curiosa forma Viculìno (letteralmente “là a Collina”, ma il significato autentico è “l’altra Collina”) stando in uno dei due borghi per indicare l’altro, indifferentemente. ‘I voi Viculìno può significare sia “vado a Collina Grande” che “vado a Collina Piccola”, a seconda di dove viene detto. 

  5. T. Maniacco in Storia del Friuli, Newton Compton, 1985. 

  6. v. cap. precedente. 

  7. Il territorio del comune di Forni Avoltri coincide pressoché integralmente con quello dell’antica Cura di Sopraponti, ovvero la parrocchia di s. Giovanni Battista di Frassenetto, così detta per essere situata sopra i ponti che ne costituivano in pratica l’accesso: a valle il ponte Lans sul Degano e il ponte Coperto sul rio Fulìn , e a monte il ponte di Avoltri, ancora sul Degano. 

  8. La perizia è anche riportata in Mol65. 

  9. L’elenco delle vittime dell’attraversamento della rovisa di Collina Piccola è tutt’altro che breve, e include lo stesso curato di Sopraponti, pre Pietro Longo, cadutovi il 29 agosto 1894 di ritorno dalla celebrazione di un matrimonio a Collina (Mol69). 

  10. Il ruolo della segale, di per sé già considerevole a scopi alimentari, era ulteriormente valorizzato dal largo impiego anche nella copertura dei tetti di case e fienili, grazie alla particolare lunghezza dello stelo. Già abbandonata per motivi economici mezzo secolo fa, la coltivazione della segale (come pure dell’orzo) oggi non sembra più praticabile anche per ragioni microclimatiche. 

  11. La patata, giunta in Carnia nel ‘600, non sembra tuttavia presente a Collina prima del 1800, fors’anche importata direttamente dalla Germania da qualche cremâr

  12. Dalle memorie di E. Caneva, a proposito della costruzione della nuova strada del Fulìn nel 1898, riporto testualmente: “…Giacché il danno che ne risente dalla sua mancanza (Collina della strada, N.d.A.) è assai grave … per la necessità di tutto procurarsi a dorso di donna (sic!) e non è a dire con quanto pregiudizio dello sviluppo fisico fisiologico e della robustezza…”. Senza commento. 

  13. Per tutti, la mostra monografica sui cremârs organizzata dal Comune di Forni Avoltri nell’estate 1997. 

  14. Detto altrimenti, ogni anno e per 400 anni, da Collina se ne sono andate 2,5 persone! 

  15. Non è un errore tipografico: a Collina si dice cremâr, e non cramâr

  16. Non a caso, un detto di Collina recita testualmente “Ch’e vigno la tampiešto, ma ch’e rešti la Finančo” (che venga pur la grandine, ma che resti la Finanza) 

  17. La filo (Sc77, friulano file Pir316, dal latino filare REW3293) è la versione friulana, un tempo ampiamente diffusa nelle civiltà contadine, dell’usanza della veglia comune – anche di più famiglie riunite – sino a notte avanzata, soprattutto nel periodo invernale. A differenza della bassa friulana, dove la file aveva luogo prevalentemente nel tepore della stalla, a Collina la relativa abbondanza di combustibile (naturalmente legna) consentiva la filo nelle abitazioni, intorno al fogolâr prima, e allo spolèrt poi. È facilmente comprensibile come questa usanza, fortemente radicata nel costume sino a tempi relativamente recenti (era ancora largamente praticata intorno al 1950) abbia giocato un ruolo fondamentale sia sotto il profilo sociale che culturale, in quanto luogo e momento quasi istituzionalmente deputato alla partecipazione e alla condivisione della conoscenza. Racconti e tradizioni, viaggi, informazioni, leggende, ma anche conoscenza e incontro personale: il ruolo pronubo della filo è divenuto ha persino trasceso la realtà per divenire un autentico luogo comune, a sua volta soggetto di storie e villotte. 

  18. Ovvero, la base statistica non comprende gli eventi (nascite, morti, matrimoni) ricostruiti. 

  19. Il numero di matrimoni registrati è di 867. V. nota seguente. 

  20. Per la loro stessa natura “bicomponente”, i matrimoni pongono oggettivi problemi di gestione dei dati. Nella nostra definizione della popolazione statistica, come individuo della stessa è naturalmente assunto ciascuno dei contraenti il matrimonio. Il numero di matrimoni in “residuo” corrisponde a quelli in cui nessuno dei contraenti appartiene ad alcuna delle 30 famiglie prese in considerazione secondo i criteri descritti qui. Nel caso di matrimoni “misti”, nella popolazione è stato conteggiato il solo contraente appartenente ai Top 30. Si tratta evidentemente di un criterio del tutto arbitrario (ma solo apparentemente tautologico: la graduatoria non ne viene infatti minimamente alterata), da cui risulta una sottovalutazione del “residuo” (peraltro irrilevante ai fini del lavoro) a tutto vantaggio dell'omogeneità del dato inerente alle famiglie censite. 

  21. Alcuni dei cognomi considerati sono presenti in anagrafe a più riprese, ovvero esiste una soluzione di continuità nella presenza del cognome in villa, e conseguentemente in anagrafe. Nella trattazione statistica, i dati relativi a ciascun cognome, purché identificati univocamente come appartenenti a famiglie stanziali, sono considerati un unicum. In altre parole, il totale di DEL FABBRO, ad es., è risultante dalla sommatoria dei contributi di più famiglie omonime (non necessariamente legate da vincoli di parentela recenti o remoti) presenti in tempi diversi. 

  22. O. Carpeneto-M. Porcella, Popolare i monti - Storia demografica della Comunità di Tribogna (1617-1990), Sagep-Genova, 1990 

  23. In assenza di istituti rigidi e tradizioni vincolanti fondate sul maggiorascato, sul modello del maso chiuso tirolese, sono tentativi destinati al fallimento, come ben dimostra la progressiva ed esasperata frammentazione della proprietà fondiaria. 

  24. Anche a Collina, per indicare il marito (compaesano o furešt) che, contrariamente alla prassi comune, si stabilisce in casa della moglie, era d'uso l'espressione 'al va in cuc, con evidente riferimento al cuculo che si stabilisce in un nido non suo. 

  25. A questo proposito, rimando volentieri al tanto ponderoso quanto esauriente lavoro dell’amico Enos Costantini, attualmente in via di completamento, nel quale sono presi in considerazione e analizzati tutti i cognomi presenti in regione, compresi naturalmente quelli di Collina. Rinnovo all’autore il mio personale ringraziamento per l’importante contributo, sia fattivo che critico, a questo capitolo. 

  26. Probabilmente dal nome di persona Agosto, dato a un bambino nato in agosto. Oppure da una variante del nome Augusto di cui Augustino/Agostino potrebbe essere un diminutivo (qui e` conservata la forma latineggiante di origine notarile). Questo diminutivo era, comunque, diffuso in passato: Avustini de Glemona e Avostino nel 1350; Agustino de Mels nel 1317 (Avustinus de Mels nel 1320), ecc. Attualmente la diffusione del cognome sembra essere soprattutto carnica (Zuglio, Prato Carnico, Forni Avoltri, Tolmezzo...); da un ramo degli Agostini o de Augustinis di Ravascletto, documentati all'inizio del '500, deriverebbero gli Agostinis di Prato, Pradumbli e Ovasta (A. Roia). Si trova anche a Latisana, Lignano, Palazzolo. (E. Costantini, op. cit). 

  27. In una nota del 1595 si legge “jacu augustini è debitor alla dicta giesia (s. Michele, N.d.A.) di contadi L.8,14 / obliga tutti li suoi beni mobili et stabili”. Il riferimento suggerisce una presenza stabile della famiglia a Collina: tuttavia, rimanendo isolato e senza rispondenza anagrafica, non è stato qui preso in considerazione 

  28. Deriva, evidentemente, dal nome di persona Angelo. Un “nido” di questa famiglia (in Friuli, N.d.A.) è senz'altro Cesclans nel comune di Cavazzo Carnico dove, nel 1940, vi erano ben 49 famiglie Angeli …. Un altro “nido” puo` essere Vivaro … (E. Costantini, op. cit). 

  29. Mentre la cantina in friulano è cjànive (Pir131), nella parlata di Collina è cjàveno (Sc48), stessa origine ma con metatesi. Per completezza, va menzionata l’esistenza anche del lat. canipa (collare in legno per i bovini), che nella parlata di Collina diviene anch’esso cjàveno (Sc48), omografo e omofono della cjàveno cantina. 

  30. In un delirio di presunzione (e visto l’apparentemente unanime consenso intorno alla “cantina”), in un primo tempo ero giunto a pensare che si trattasse di un’interpretazione un po’ bizzarra, del tutto personale e fuori dagli schemi consolidati. Solo recentemente, grazie al contributo di Elwys De Stefani, sono venuto a conoscenza che questa lettura “…affiora tuttavia in qualche dizionario di toponomastica come soluzione alternativa…” e più precisamente “…nel Dizionario di Toponomastica UTET, (E. De Stefani, inf. priv., 2001). 

  31. E. De Stefani, Contributo all'onomastica familiare friulana. Cognomi della Carnia: approcci e sondaggi archivistici ed etimologici, Tesi di Dottorato di Ricerca, Universität Basel, 2001. 

  32. v. E. Costantini, op. cit., alla voce BEARZI. 

  33. M. Blason ed e. Costantin, in Pensa, Cunsidera … e Stibilìs, cognons e soranons di osovans, Comun di Osôf, 2000, oltre a numerose varianti italiane (11) ne citano ben 11 lingue (poi si fermano, forse per carità di patria…) 

  34. v. anche nella parte “case”, alla voce 116, CAMINÒN

  35. Faleschini è … diminutivo di falìscje (ital. favilla)…. A Moggio intorno al 1930 si contavano 41 famiglie con questo cognome (M. Blason – E. Costantin, op. cit.). 

  36. ... e quindi, per traslato, “persona dalla testa grande” o, piuttosto, “persona testarda, dura di comprendonio”... (E. Costantini, op. cit). 

  37. Non esiste (più) oggi un toponimo Tamòšo, del quale tuttavia non è difficile supporre l’esistenza in passato (e la collocazione sul territorio) in quanto necessario precursore di Devóur Tamòšo. E proprio qui, nel declivio che precede Devóur Tamòšo, si trova la casa de Muâro abitata dai Tamussin. 

  38. Non esiste una branca dell’onomastica che si occupi espressamente dei nomi delle case o degli edifici, e quindi non esiste una valida denominazione (né la scienza pare averne sofferto...). A nostro uso e consumo ecco allora pronto economastica (dal greco oikos, casa, e onoma, nome), definizione dopo tutto neppure disgustosa, oltre che etimologicamente corretta. Unico problemino (piccolo piccolo), i nomi delle case risulterebbero essere gli… econimi. Pur rivendicandone paternità e copyright, ne farò un uso assai parsimonioso… 

  39. Ciò è strettamente valido in un intervallo di tempo definito. Evidentemente, e comprensibilmente, la regola non è valida nell’intero arco temporale considerato nel suo insieme, dove sovrapposizioni e commistioni sono assai numerose, come viene più approfonditamente descritto e analizzato in seguito. 

  40. Nel corso degli ultimi 10-15 anni è invalso il costume, da parte dei proprietari degli edifici, di illustrare il nome della casa mediante una targa in legno, un dipinto ad hoc o altro: ce n’è per tutti i gusti. Che poi sia moda (ah, il rrrustico!) o autentica riscoperta di radici dimenticate, poco importa: sebbene spesso si concretizzi in scelte discutibili, quando non palesemente errate, l’usanza è lodevole e senz’altro meritevole di incoraggiamento sotto ogni profilo. 

  41. Per un breve periodo, la casa è stata anche abitazione di una famiglia Mazzocoli del ramo di Albino, a seguito del matrimonio, nel 1939, di Gennarino (Rino di Albino) con Marina Sotto Corona (Marino di Codâr) di Gaetano. 

  42. Famiglia Di Sopra a sua volta originaria di Vuezzis (P. Pinčan, Givigliana, inf. priv.) 

  43. Daniele Di Sopra è l’esecutore testamentario di Mattia de Tamer (1679-1727): il lascito dell’uno e la donazione dell’altro sono all’origine della nascita della Mansioneria di Collina nel 1729. Nel testamento di Daniele Oberhauser (germanizzazione di Di Sopra) si legge: “Lubiana, 14 febbraio 1736 … La mia casa da me e dalla mia consorte abitata, assieme coll’orto sotto detta casa, non però il campo appresso, dopo la morte di detta mia consorte lascio all’On.do Comune di Collina, quale dovrà essere per l’abitazione del molto reverendo mansionario …”, Mol73. La moglie di Daniele, Sabbata de Tamer, morì dieci anni dopo, nel 1746. 

  44. Quest’ultima ipotesi, temporalmente più sostenibile della prima, presuppone tuttavia qualche escursione fuori villa: a rigore, infatti, a Collina Valentino evolverebbe piuttosto in Tin. Si tratta comunque dell’unico nome nella genalogia Barbolan con qualche assonanza con Titài

  45. A CP l’edificio era noto anche con il nome JÈFO (v. 236), in virtù del fatto che contemporaneamente non era abitabile l’omonima casa originaria a CM. 

  46. Filippo Toch è un nuovo venuto (appartiene ai Toch del ramo di Žirco a CM, v. 257), mentre la moglie Anna è di Sigilletto: apparentemente, Filippo non viene in cuc. Non è chiara quindi la ragione della presenza della coppia qui, in casa storicamente Sotto Corona: affitto o acquisto? Se mai ve ne fosse bisogno, il catasto del 1849 tenta di complicare ulteriormente le cose, elencando fra i comproprietari dell’edificio anche Biagio Gaier di Giacomo. Sembra tuttavia trattarsi solo di proprietà (e non di residenza), eredità della moglie di Biagio, Maria Sotto Corona di Antonio (1802-1836, v. nota 97): i Gaier entreranno qui, e per breve tempo, solo nel 1898.
    La quadratura del cerchio potrebbe consistere nei Toch affittuari della parte Gaier (troppo facile!). 

  47. v. anche nella parte relativa ai cognomi, alle voci CORONA e SOTTO CORONA. 

  48. Per completezza, gli altri due pretendenti sono Leonardo di Niccolò Di Tamer (1631-1679) e Leonardo di Antonio Di Sopra (1643-?), la cui figlia Domenica va in moglie ad Antonio de Tamer, famiglia che quindi sarebbe entrata qui in cuc, provenendo da CM. Al di là degli aspetti nominalistici che – come già detto – trovano una diversa e soddisfacente soluzione, quest’ultima ipotesi circa l’ingresso dei Tamer in questa casa è comunque assai verosimile. 

  49. L'attività professionale non era tuttavia svolta qui, ma nella fàrio in località Vidàrios (v. 101); in genere, i luoghi/edifici adibiti a doppio uso (abitazione/bottega o laboratorio artigiano) acquisivano il nome dell'attività svolta (Siëo v. 262, Fàrio v. 251 etc.). 

  50. Scritta e stemma campeggianti sopra l’ingresso originale dell’edificio (quello più a N: l’intera parte S della casa, con relativo ingresso, è un’aggiunta posteriore) sono recenti e non attinenti alla costruzione di questa casa o di altri edifici noti. Si tratta in realtà della fedele trascrizione di un originale votivo situato nella sacrestia nella chiesa di s. Michele. La dedica FAM. DANIEL MAZOCOLY 1796 (la grafia è curiosa: Mazocoly è una forma senza riscontro in anagrafe, con vaghe assonanze ungheresi) è in memoria di Daniele Mazzocoli (1714-1783) della casata da Riù, avo del costruttore di questa casa e antenato dei suoi attuali abitanti. 

  51. Non è chiaro che cosa Caneva volesse intendere con “igiene”: forse che il pozzo perdente del nuovo edificio, soprastante la vecchia casa di Riù e in forte pendio, avrebbe potuto rappresentare un problema per quest’ultima? 

  52. In anagrafe è f.n. Giuseppe Sotto Corona. 

  53. Nelle sue note, E. Caneva adotta la grafia Valle (che la parlata di Collina rende comunque con una sola l, per l’appunto Vale), il che rende possibile l’origine sia da valere che da valle

  54. Con una decisa forzatura, la toponomastica ufficiale definisce via Corona l’intera strada dalla caròno vera e propria fino alla piazza degli Alpini (!). 

  55. In realtà esiste anche un altro Marco Toch, precedente a questo (1625-1653), ma non ha discendenti; e poi è meglio non forzare troppo la mano… 

  56. Sulla parte N dell’edificio (la più antica, in legno a blockbau in cui è ben visibile un residuo intaglio artistico su una trave del tetto), poco sotto una finestra si trova l’incisione 17ADT56 cui segue una parte sottostante pressoché illeggibile. Con buona probabilità l’incisore è un fanciullo, Antonio Di Tamer, che nel soli 8 anni. L’ipotesi è certo curiosa, ma non poi così peregrina. A suffragio stanno sia l’anagrafe (è l’unico ADT a disposizione), che la logica (l’incisione si trova in posizione indubbiamente insolita: costruttori e proprietari sceglievano posizioni più di rilievo, come l'architrave del portone od il colmo del tetto; questa è decisamente defilata e… a portata di bimbo). Unica obiezione, il fatto che a metà del XVIII secolo un bimbetto di 8 anni di Collina sapesse scrivere le proprie iniziali. L’obiezione è già debole in sé: per di più, la famiglia Tamer era notoriamente benestante, contando fra le sue fila notai e meriga, e quindi in grado di dare istruzione alla prole. 

  57. Nino è l’ultima discendente della casata Di Tamer un cui ramo (Antonio) è forse trapiantato a CP nel 1705 (v.120). 

  58. Una volta di più, e sebbene con tutta probabilità di origine non antichissima, anche questa denominazione è di derivazione sconosciuta o perlomeno dimenticata, anche nella memoria dei sopravvissuti gestori d’un tempo. Spazio alla fantasia, il leone di san Marco delle Assicurazioni Generali potrebbe avere ispirato l’ignoto creativo… 

  59. Nel lungo e forse incompleto elenco dei gerenti non può essere dimenticata la gestione collettiva, in forma di CRAL da parte di un gruppo di Collinotti, dal 1945 al 1950. 

  60. Qualche dubbio sussiste sulla effettiva origine dei possedimenti di casa Bòrtul. Non è da escludere che una parte o il tutto provenga da Odorico Barbolan, la cui figlia Maria Maddalena (la moglie di Bòrtul) è unica erede a Collina, e della cui famiglia non è pertanto da escludere una preesistenza nella casa stessa. Il dubbio sorge dall’atto di vendita di una quota di Morareto del 7 giugno 1771, nel quale si fa riferimento a “divisioni” di beni (fra i quali forse la stessa Morareto) fra i separati o separandi coniugi Longo, e dove il ruolo di Maria Maddalena Barbolan appare tutt’altro che marginale e secondario. Per completezza, va tuttavia aggiunto che l'Offizio della Cancelleria di Tolmezzo e Provincia della Cargna registra, l'8 novembre 1787, la denuncia del vice Meriga Pietro qu. Giorgio Tomasin come "…qualmente la Sera innanzi fu ritrovata accidentalmente morta la questuante (sic) Madalena Moglie relitta del qu. Bortolo Longo…". Maddalena cade in un dirupo fra Collina e Givigliana, lungo la consueta via per il fondovalle del Degano. 

  61. Ad ulteriore testimonianza di come i lavori di questo genere (e in particolare questo libro) non finiscano mai, in questi stessi giorni (dicembre 2000) sul muro E della casa, a sin. della porta d’ingresso, dall’intonaco sottostante sta progressivamente riaffiorando una intricata serie di scritte, al momento assai poco leggibili. Per ora è ben visibile un 1799 di grandi dimensioni, accompagnato da alcuni (forse due) incerti Nicolò, nonché apparentemente da un Caniva. Le scritte appaiono assai disordinate, come se fossero state fatte in previsione di una successiva copertura. È improbabile che il 1799 sia la data di costruzione dell’edificio, presumibilmente più antico: è invece verosimile che indichi un rifacimento, forse proprio dell’intonaco. 

  62. D’uso comune a Collina, seppure con significato non esattamente corrispondente, la voce è curiosamente mancante nel glossario di G. Scarbolo. Nella parlata locale, il significato viene esteso all’intero abitato della villa: lâ atór pe bràido = bighellonare, girovagare per il paese senza scopo. 

  63. Testualmente in Sc337: fâ lu tûš = prendere in giro con fischi e grida due persone (uomo e donna) per disapprovare il loro contegno. La locuzione è oggi del tutto desueta. 

  64. In un documento censuario del 1850, due residenti di questa casa (Pauli e Druì) vengono testualmente definiti – davvero assai poco caritatevolmente – di professione “miserabili”. 

  65. A proposito del significato di côgher, merita senz’altro una menzione un vecchio detto di Collina, tuttora in uso in villa fra i meno giovani, lâ da muš e tornâ da côgher (lett. andare da asino e tornare da… asino), a indicare un viaggio a vuoto, inutile. 

  66. Un nome “storico” (Barbolàn), e due “contingenti” (Codâr e Gjulio). Tuttavia, se il garbuglio non fosse sufficientemente complicato, aggiungerò che questa famiglia Sotto Corona è della casata di Toch (v. 206 e 256)… 

  67. Si tratta in questo caso di un errore del catasto: la Lucia Tamussin maritata Barbolan non è di Tommaso bensì di Pietro di Ričòt 

  68. I due figli di Zuanne Barbolan, Lorenzo e Filippo, hanno entrambi solo figlie femmine. 

  69. In anagrafe, all’atto del matrimonio, Giacomo Gaier è accompagnato dalla nota “Sub plebe sancti Stefani de Irpolesem” (Santo Stefano di Cadore); il suocero, Francesco Bettina, è originario di Costalissoio. È possibile che i due fossero compaesani, o comunque si conoscessero da tempo. 

  70. Questa indicazione può risultare un po’ fuorviante se presa in senso letterale. La casa originale di Murìt (255) si trovava sì in posizione più elevata rispetto a questa, ma spostata a NE di una cinquantina di metri. Il riferimento è qui all'edificio 242, anch'esso per breve tempo conosciuto con il nome di Murìt

  71. Omissis. Il resto del commento è ai limiti del codice penale… 

  72. Caminòn, nato qui e con evidenti diritti di proprietà sull’edificio, lascia tuttavia la casa prima di assumere il soprannome che lo contraddistingue. 

  73. Sotto questa denominazione sin dall’antichità venivano raggruppati i villaggi di Ravascletto, Salars e Campivolo. In uso fino al secondo dopoguerra, è un termine oggi in progressiva obsolescenza. 

  74. Sebbene particolarmente complessa, la ricostruzione degli assetti abitativi delle case di quest’area di Collina risulta abbastanza affidabile, grazie soprattutto al confronto incrociato di più documenti assai precisi e circostanziati (in particolare il catasto del 1849 e il censimento del 1901). 

  75. L’intreccio fra le famiglie Toch e Barbolan, relativo agli edifici 239, 240 e 257, è quasi inestricabile. L’ipotesi più probabile, sviluppata sulla scorta delle note di E. Caneva, è quella della preesistenza dei Barbolan in tutti e tre gli edifici, la cui proprietà si trasferisce ai Toch attraverso matrimoni multipli e per via ereditaria. 

  76. Rispetto a questo edificio, la località (in) Sót Póč si trova un centinaio di metri più indietro (NE) lungo la strada d'accesso, in corrispondenza degli edifici 213 e 214 (v.). Sebbene all'origine del toponimo Sót Póč (Sotto il pozzo) vi sia naturalmente Póč, non esiste nelle vicinanze (né altrove) un luogo con questo nome. Il toponimo più prossimo all'edificio è, come pure per la casa 215, (in) Balbìn

  77. Facezie a parte, e senza voler fare della sociologia a buon mercato, negli anni ’60 la Siëo diede il via ad una autentica rivoluzione culturale: i Collinotti vi venivano a bere un tajùt e ad osservare, naturalmente con il sorriso sulle labbra, le evoluzioni dei “foresti” (e soprattutto delle “foreste”) impegnati in twist e cha cha cha. Per “vedere il mondo”, non era più necessario l’occhio dell’emigrante, il racconto, il sentito dire: era il mondo stesso che veniva a mostrarsi a Collina. 

  78. V. E. Agostinis, A proposito di santa Sabida, ne Il Barbacian - Spilimbergo, Anno XXXVI n.2, Dicembre 1999 

  79. La trascrizione è quella di F. Molinaro, op. cit.; l’originale è nell’ Archivio della Curia Arcivescovile di Udine. 

  80. Gli altari sono ora tre, derivanti da un allargamento della pianta della chiesa. Una pietra angolare all’esterno (fronte alla chiesa, a s.) riporta la data 1680, con la sigla GBSC (Giovanni Battista Sotto Corona, ?-1695, oppure id. 1658-1734). La data si riferisce probabilmente all’ampliamento alle attuali dimensioni. Un’altra pietra su muro esterno a SO (muro di d., fronte alla chiesa) porta scolpita la scritta 1G7S6C4 (come spesso accade, la scritta è un po’ criptata: in chiaro va letta come GSC 1764, autografo di GioBatta oppure Giacomo Sotto Corona). Analogamente alla prima, e come d’uso, si riferisce ad un ulteriore intervento sull’edificio. 

  81. Il riferimento è alla casa detta di Giuta, v. 256. 

  82. A titolo di curiosità, e con tutte le riserve del caso, si possono notare alcune analogie con realtà anche assai lontane nel tempo e nello spazio. Una natalità intorno al 35‰ si riscontra in altre aree europee nel ‘700, mentre oggi valori analoghi si riscontrano in alcuni paesi in via di sviluppo (i paesi a più alta natalità superano il 50‰), dove il numero medio di figli per donna è intorno a 5. 

  83. O. Carpeneto, M. Porcella, Popolare i monti, Sagep, Genova 1992. 

  84. F. Bianco, D. Molfetta, Cramârs - Emigrazione dalla montagna carnica in età moderna, Chiandetti, Reana del Roiale 1992. 

  85. In tutto il lavoro, nell’analisi degli andamenti mensili non è stata effettuata alcuna destagionalizzazione: il riferimento è sempre ai mesi di calendario. 

  86. La statistica naturale è di circa 105÷106 nati maschi per 100 femmine 

  87. Questo genere di “selezione” sembra una prassi tuttora largamente in uso nel Sudest Asiatico: unico segno dei tempi, grazie alla disponibilità di mezzi diagnostici tecnologicamente avanzati, oggi viene praticata preventivamente, già nei primissimi mesi di gravidanza. V. 6.3 Brides for Seven Brothers (6.3 Spose per Sette Fratelli) in The Economist, 19 dic. 1998. 

  88. O. Carpeneto-M. Porcella, op. cit. 

  89. Attenzione ai numeri: la storia del pollo di Trilussa, che tanto danno ha fatto e ancora fa alla statistica, potrebbe ingenerare qualche sgradevole equivoco! Il pur sensibile scostamento dalla media dei dati puntuali di Collina (122 e 92, rispettivamente, contro una media di 106) è in ambo i casi da attribuirsi, in tutto o in parte, alla ridotta popolazione statistica, di dimensioni largamente inferiori a quella di Tribogna (il rapporto è 1:2.5): su un più vasto insieme di 420 nati a Collina nei primi due secoli di rilevazione (certamente i più sospetti per l’adozione delle pratiche in questione), il rapporto maschi/femmine si colloca esattamente a 1.06. 

  90. Alcune delle considerazioni espresse qui di seguito riguardo al fenomeo dell'esposizione degli infanti trovano una ampia trattazione (e qualche interessante conferma quantitativa) nel recente saggio di Marilena Baracetti L’infanzia abbandonata a Udine nel periodo post-unitario, in Ce fastu?, Rivista della Società Filologica Friulana, LXXVI (2000) 2. 

  91. Se l’ipotesi della grande distanza di Collina dai luoghi deputati alla raccolta degli infanti abbandonati (in primis conventi e ospedali) come causa prima dell’assenza dell’esposizione e quindi del baliatico fosse corretta, dovrebbe essere verificabile anche l’esistenza di un gradiente di frequenza di questa prassi, da un valore tendente a zero o comunque minimo della situazione periferica estrema (ad es. Collina stessa) al valore massimo del centro (vicino alla “casa” più prossima, cioè l’Ospedale di s. Maria della Misericordia di Udine). Il citato saggio di M. Baracetti smentisce recisamente questa ipotesi. 

  92. Non è tuttavia il caso di generalizzare eventi probabilmente ancora assai circoscritti: certo non a caso, il frontespizio del documento porta il titolo emblematico “Procura delle famose Donne”, come ben risulta dalla copia dell’atto notarile riportata in allegato; Arch. Priv. N. Toch, Collina. 

  93. Certamente non fu colera, la cui comparsa nell’epidemiologia del mondo occidentale è relativamente recente. Originario del Bengala, il vibrio cholerae mosse dal subcontinente indiano solo nel 1817, per giungere in Europa circa quindici anni dopo, e a Forni Avoltri per la prima volta intorno al 1850. 

  94. Non è improbabile che la stalla o l’orto di famiglia abbiano avuto un ruolo preminente nella diffusione selettiva dell’infezione: l’acqua (normale veicolo di questo genere di infezioni batteriche) è relativamente poco sospettabile a Collina, e già allora era comunque di ampia e comune disponibilità. Gli indizi si appuntano piuttosto sul latte e ancor più sugli ortaggi, anello del ciclo alimentare-fecale attraverso la concimazione del bajarč

  95. Sebbene statisticamente irrilevante rispetto ai grandi numeri, va pur detto che dei tre morti del 1836 ben due “Gaier Maria di Biagio d’anni 34 e Pasqua Barbolan d’anni 49 … uscite ad attingere l’acqua rimasero soffocate dalla neve” il 29 febbraio (Fm76). 

  96. F. Bianco – D. Molfetta, op. cit. 

  97. Una volta di più, in ordine ad un corretto inquadramento e ad una esauriente comprensione e analisi di questo genere di fenomeni, emerge in tutta evidenza la necessità di un approccio multidisciplinare, con il contributo, accanto al demografo storico, del climatologo e dell’epidemiologo. Troppa pretesa per il minuscolo universo di Collina: infatti, non abbiamo (per ora?) nessuno dei tre, e pertanto… di necessità virtù! 

  98. L’andamento dei matrimoni rispetto alle nascite è soggetto a fluttuazioni più ampie, in virtù della ridotta popolazione statistica e della diversa valenza sociale dell’evento matrimoniale. Ovviamente, il numero delle nascite è superiore a quello dei matrimoni (di circa 3.5 volte), con una proporzionale rappresentatività statistica. Inoltre, la distribuzione dei matrimoni è anche condizionata dalla “socialità” dell’evento, per cui frequentemente si assiste alla contemporanea celebrazione di più matrimoni, specialmente (ma non solo) quando più membri della stessa famiglia sono coinvolti. Se questo non falsa la distribuzione stagionale dell’evento, può tuttavia alterarne la distribuzione mensile: da qui la relativa maggiore dispersione rispetto all’indice delle nascite. 

  99. In anagrafe non c’è evidenza di matrimoni per procura. 

  100. A Collina, nel dicembre 1795, su 39 aventi diritto al voto in vicinia ne risultano assenti 22 “che ora s’attrovano in Germania”. Sono gli stessi le cui mogli prendono formalmente posizione in loro vece e di cui già si è fatto cenno nella nota 95. 

  101. G. Ferigo, Le cifre, le anime, in Almanacco culturale della Carnia n. 1, 1985, pp. 31-73 

  102. G. Ferigo, op. cit., e, dello stesso autore, I nuvìz, la fantâsima, il mus, note sull’interdizione matrimoniale di maggio. Secoli XVI-XIX, in Ce fastu?, Rivista della Società Filologica Friulana, LXXIV (1998) 2. 

  103. Le stime della popolazione sono necessariamente al lordo degli emigranti stagionali, che vengono quindi conteggiati fra i residenti. D’altra parte, l’anagrafe registra con apparente puntualità i decessi dei parrocchiani, anche quando avvenuti all’estero. 

  104. Abbastanza curiosamente (e sfortunatamente), nonostante i censimenti decennali generali a partire dall’unità d’Italia, anche in epoca moderna mancano dati disaggregati per Collina. L’interpolazione effettuata (tratteggiata in fig. 8), seppure in parte arbitraria, è comunque da ritenersi significativamente rappresentativa della realtà. 

  105. V. anche C. Puppini in Sot la Nape n.4, dic. 1995. 

  106. Archivio Comunale di Tolmezzo; anche in C. Puppini, op. cit. 

  107. Ipotesi tutta da analizzare, ma tutt'altro che inverosimile, il verificarsi a Trava di un evento analogo all'annus horribilis vissuto da Collina nel 1800. Date le dimensioni del saldo anagrafico, -66, si tratterebbe naturalmente di una concausa, o di un evento a sua volta scatenante altre cause di maggior portata: tuttavia, appare pur sempre un'ipotesi degna di essere presa in considerazione.