Giovanni MARINELLI

 

LA PIÙ ALTA GIOGAIA DELLE ALPI CARNICHE

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Scarica questo file (La più alta giogaia delle Alpi Carniche.pdf)La più alta giogaia delle Alpi Carniche. Appunti vecchi e nuovi[Bollettino del Club Alpino Italiano - Vol. XXII (1888), n. 55, p. 122-173]284 Downloads

I Introduzione

Ormai scoprire terre incognite nel mondo delle Alpi, è difficile.

Non c’è giogaia, non c’è vetta alpina che non abbia a quest’ora la sua storia, che non sia stata il tema di qualche mezza dozzina di articoli da giornale politico od alpinistico, che non sia descritta per filo e per segno negl’itinerari e nelle guide.

Non siamo ancora proprio al punto, sotto il quale Tartarin avea finito per concepire l’alpinismo in Isvizzera; ma, insomma, se vogliamo sentire le vergini e gagliarde impressioni di quell’epoca semieroica dell’alpinismo, che mi permetterò di chiamare il periodo delle scoperte, è mestieri che ritorniamo almeno di quindici o di venti anni addietro (un’eternità, nel vertiginoso affrettarci dell’oggi), e che cerchiamo nei nostri album ingialliti, gli appunti e le note del tempo in cui noi, della vecchia guardia facevamo le prime armi.

Il periodo delle scoperte alpine

Per gli alpinisti della Svizzera o del Piemonte, parrà troppo poco forse risalire colla memoria a una quindicina d’anni soltanto. Ma, per le Alpi Venete e specialmente Friulane, proprio il periodo delle scoperte, almeno per conto degl'italiani, s’aggira appunto fra il 1873 e il 1880, allorché furono per la prima volta saliti (o almeno si credette che fosse la prima volta) ed illustrati il Canino, il Jôf del Montasio, il Sernio, il Clapsavon, il Coglians e il Kellerwand, le cime più interessanti e difficili delle nostre montagne.

Per taluna delle cime friulane eravamo veramente stati preceduti dagli alpinisti tedeschi e in ispecie dagl'inglesi, e prima di noi il Ball avea più volte percorse le nostre vallate, e il Tuckett fin dal 1873 avea visitato il Cansiglio e salito il monte Cavallo e li avea descritti, e il Gilbert e il Churchill colle loro Dolomite Movntains (1865) aveano tracciato degli efficacissimi abbozzi di alcune fra le più caratteristiche montagne delle Carniche e delle Giulie, e dal Mojsisovics e dal Grohmann erano già stati esplorati e descritti i gruppi del Peralba e del Coglians. Ma, com'erano ignorate le cime e le giogaie, così era poco nota o mal nota la loro storia e la loro bibliografia, e ben pochi sapevano quanto si andava stampando sull'Apine Journal o nelle Mittheilungen dell’allora modesto Oesterreichischer Alpenverein o nella Zeitschrift del non meno modesto Deutscher Alpenverein, destinati a così splendido avvenire.

Fu, ad esempio, soltanto nel 1873 che io presi conoscenza con quella che poi adesso da tutti si giudica la più alta giogaia del Friuli e delle Alpi Carniche. Trovandomi in soggiorno ad Ovaro, nella pittoresca valle del Degano, feci di là varie escursioni per boschi, vallate e varchi, talora in compagnia di una guida tolta qua e là a caso, talora da solo, ma sempre munito di un buon aneroide e di un termometro.

Il passo di Gola Bassa

Così rivisitai le isole linguistiche di Sauris e di Sappada, due fra le più simpatiche e pittoresche località delle nostre Alpi; così esplorai per la prima volta la ignorata e bellissima valle di S. Canziano, solcata dalla Pesarina, così mi spinsi all’insù di quella di Moreretto e pel primo, credo, misurai il passo di Gola Bassa, che dal bacino del Degano conduce in quello del But, e che, ad onta del suo nome, è ancora una delle più alte forcelle delle Alpi Carniche, essendo elevato ben più dei 2000 m. sul mare.

IL MONTE COGLIANS. Veduta presa da Mione (Canal di Gorto in Carnia) - Da un disegno di Gio. Majer

Monument

La ragione che mi avea deciso a tentare questo passo, senza dubbio uno dei meno frequentati, massime in quella stagione (eravamo di già a mezzo settembre) era... domando scusa alle lettrici... una ragione archeologica. Si trattava di vedere se il nome di Casera Monument segnato sulla Carta del Lombardo Veneto (Sc. 1/86,400) derivasse da qualche reliquia di tempi lontani. E il mio sospetto non era senza fondamento, imperocché, a due ore di lì, pel varco del Croce passava una antica via romana, che da Aquileia andava nel Norico e di cui tuttora avanzano cospicui monumenti.

Se l’archeologo però rimase deluso nelle sue ricerche, l’alpinista invece restò soddisfattissimo, come quegli che percorse un sentiero aspro sì, ma assai bello, e nel luogo chiamato Monument vide un altipiano stranamente disseminato di macigni bianchi di forma parallelopipeda, in numero così grande da giustificare il nome datogli dai valligiani di Monument, e da richiamare alla memoria uno di quegl'immensi cimiteri maomettani dell’Asia anteriore, che ci colpiscono per le infinite tombe, di cui sono gremiti.

Prime e mal sicure notizie sul gruppo del Coglians

Però altre cose, oltre Monument, aveano allora attratta la mia attenzione. Sopra quella località e imminente sulla frana, che ivi ha principio e che un 600 m. più in basso finisce presso la casera di Gran Plan o Val di Collina1 vedeva allora protendersi dei contrafforti rocciosi giganteschi e vari di forma, alternati con nevai scendenti dalle gole. Quantunque, come ho accennato, mi trovassi già a 2000 metri sul mare, quelle roccie sembravano elevarsi molto al di sopra di me, sicché non mi pareva di andar lungi dal vero valutandone l’altitudine a 2500 o 2600 metri. Esaminata la carta e presa lingua dalla guida, n’ebbi risposta che appartenevano al pizzo Collina, o, com'essa si esprimeva nel suo dialetto, alla crete di Culine.

Questo nome non mi suonava nuovo; anzi qualche tempo innanzi prendendo nota dei punti trigonometrici della provincia di Udine, secondo che erano stati calcolati dall’ingegnere Ugo Schnorr e comunicatimi privatamente, m’era venuto sott’occhio il monte chiamato nel suo manoscritto Colines, a cui spettavano le seguenti coordinate : latit. settentr. 46° 36' 37”, e long, orient., dall’isola del Ferro 30° 33' 47', cioè secondo il merid. di Roma 0° 25' 2"; mentre l’altezza attribuitagli era di ben 1435.3 klafter, il che corrispondeva a m. 2721.93. Le coordinate si riferivano perciò non propriamente alla vetta posta più accanto alla parola P.zo Collina della Carta, sibbene al triangoletto (Δ) disegnatovi alquanto ad ovest e che corrisponde precisamente a un punto trigonometrico. L’altezza indicata poi era tale da superare (secondo lo stato delle cognizioni ipsometriche d’allora) sensibilmente qual siasi vetta delle Alpi Carniche, dal passo del monte Croce di Sesto o di Padola a quello di Saifnitz.

Per allora fissai in mente la cosa ed anche un po’ il proponimento di salire una volta o quell’altra quel picco, tanto più che la mia guida, Nicolò Sottocorona da Collina, valente cacciatore di camosci, mi assicurava essere la cosa possibile e neanche molto difficile. Impedito per due anni di tentare l’impresa, nel frattempo andai pescando notizie. Ma queste, invece di recarmi “un po’ più di luce„, mi aveano fatto buio.

A sentire i valligiani del canale di Gorto (val del Degano) la vetta più alta di quella giogaia non rispondeva già al nome di Collina, ma a quello di Coglians, e veramente un monte con questo nome era segnato sulla carta, anzi appariva estendersi ad abbracciare più vette. Invece a sentir quelli del canal di S. Pietro (valle del But) il punto culminante del gruppo era appunto la cima da me intravvista, e che da essi veniva designata col nome di crete o cime di Colline.

Finalmente nella bella opera di Gilbert e Churchill, The Dolomite Mountains (pag. 184), m'ero imbattuto nella nota, che per comodo del lettore traduco:

Il monte Paralba a mezzodì della Gailthal, alto 8812 p. ingl. (m. 2686), era finora considerato il più alto monte delle Alpi Carniche. Il 22 settembre 1862 però Edmund von Mojsisovics salì il Kollinlkofel e determinò la sua altezza con una media di tre osservazioni barometriche in 8467 p. vienn. (2676 m.) ossia 30 piedi meno del Paralba, mentre le due Kellerspitzen, formanti parte del gruppo del Collina, poste alquanto più ad occidente e ch’egli non potè salire, le stimò alte almeno 500 piedi di più, cioè 9000 p. vienn., 9333 p. ingl. (2845 m.), solo 37 piedi (11.4 m.) meno del Terglou.

Per verità a questa nota si potrebbe trovare qualche cosa a ridire, e, tra altro, cioè, che già anteriormente si sapeva che il Peralba, meglio che Paralba (alto kl. v. 1418.8, cioè m. 2691), era vinto in elevatezza dal pizzo di Collina.

Oltre a ciò, la nota accennata mi metteva in imbarazzo per un altro motivo. Io non avea mai visto accennato il Kellerspitz nelle migliori carte di questa regione, né in quella in rame del Lombardo-Veneto (sc. 1/86.400), già citata; né in quella della Carinzia in iscala da 1/144.000; né finalmente in quella del Pauliny (Das Herzogthun Kärnten. Sc. 1/360.000). Solo mi rammentava di aver visto nelle carte del l’Atlante scolastico dello Stieler far capolino da qualche anno un Kellerwand, posto presso il gruppo Collina e che poteva benissimo corrispondere alla vetta accennata dal Mojsisovics.

L’esame delle carte accresceva intanto la confusione. Le due, quella ad 86.400 e quella a 144.000, non andavano d’accordo nella collocazione del punto trigonometrico, poiché in quest’ultima esso è posto almeno un 800 metri più ad oriente che non in quella, anzi sembra che proprio sia ad esso che spetti il nome di Kollinkofel, mentre nella prima il segnale trigonometrico sta in mezzo tra il P.zo Collina e il M. Coglians, e a libeccio del piccolo ghiacciaio che sovrasta alla valle Valentina.

Né allora si poteva giovarsi della nuova Carta Austriaca al 75,000, di cui il foglio Zona 19, col. VIII, che comprende il gruppo in questione, non venne pubblicato se non nel 1881. E d’altronde questo foglio medesimo, sempre rispetto al nostro gruppo, è, specialmente nella nomenclatura, tutt’altro che un modello del genere.

In fondo però, dalle informazioni assunte, ero, allora, da per me arrivato a questa conclusione: che la giogaia contava due cime maggiori, una più orientale, corrispondente al Collina, e l’altra più occidentale, corrispondente al Coglians dei valligiani della Cargna.

II La Val del Degano

Col desiderio sempre più intenso di tentare la salita di almeno una delle vette del gruppo, e nella ferma risoluzione di non lasciar passare il 1876 senza compiere l’impresa, ebbi la fortuna di trovare a compagni il tenente cav. Angelo Segala del Distretto di Udine e i giovani conti Guido e Cesare Mantica, coi quali si fissò il convegno al 18 agosto a Villa Santina.

Ero stato dapprima incerto se attaccare il pizzo di Collina o il Coglians. Quello sapevo che era stato già salito almeno una volta, dal Mojsisovics; questo non mi era ancora noto che fosse stato salito da alcuno (solo più tardi seppi che il Grohmann l’aveva superato nel 1865): per cui avevo scelto il Coglians, quando, proprio in quei giorni, una lettera dell’ing. Luigi Pitacco venne ad avvertirmi che egli aveva asceso appunto questa vetta il 7 agosto; ma, invece di distogliermene, la sua lettera mi confermò nel progetto, tante cose mi narrava del panorama goduto da quella sommità.

Il programma naturalmente indicato per l’ascesa del Coglians era che che si movesse da Collina, si pernottasse alla casetta Moreretto, e di lì si attaccasse la vetta, mentre la discesa si poteva fare appunto per Monument e Timau o Plecken. Se si fosse trattato del pizzo Collina, sarebbe stato più opportuno partire da una di queste ultime località.

Villa Santina è posta al confluente del Degano in Tagliamento, lungo la via nazionale da Tolmezzo ad Ampezzo; mentre Collina giace in una delle vallette tributarie del suo bacino superiore. Sembrando troppo forte la distanza a percorrerla tutta in una volta, e tanto più dovendovi aggiungere il tratto da Collina a Moreretto, il giorno 18 agosto, appena ci trovammo riuniti a Villa Santina, si decise di partir subito e di portarsi in vettura a Comeglians, e ivi pernottare.

Il cielo era sereno e quindi faceva caldo, mentre si risaliva la valle; tuttavia la temperatura veniva resa sopportabile dalla brezza che anche nella valle del Degano, come in quasi tutte le vallate Carniche, nelle giornate estive soffia periodicamente dalle 9 1/2 del mattino alle 5 della sera e per la sua diuturnità ha fatto prendere una piega perenne, da valle a monte, ai pioppi che crescono lungo il greto del torrente e sui pendii che lo tengono serrato.

Qua, a momenti, io cederei al desiderio di dire qualcosa intorno a questa bellissima valle, ricca di pascoli e di foreste, e, quantunque forse un po’ stretta, pittoresca ed amena a preferenza di qualsiasi degli altri canali Camici. Ma, siccome la via lunga mi sospinge, questa volta mi do per vinto, e rimando il lettore volonteroso di saperne alcunché, al Gilbert e Churchill2 per la parte turistica, al Taramelli3 per la parte geologica, all’Arboit4 e al Valentinis5 per le memorie e per l’arte, al Cecchetti6 e al Grassi7 per la parte storica.

Però mentre il cavallo trotterellava alla meglio su per le aspre clevis (che così, con evidente ricordo del latino clivus, si chiamano in carnico i forti pendii, donde i nomi propri di Socchieve: sub clivo, di clevolis, ecc.) della via, l’occhio scorreva involontario sulla verde conca di Muina, e sulla ridente, grandiosa ed ospitale villa dei signori Toscano di Mione, e sulla pittoresca chiesa di Gorto8 da cui ha nome il canale intero, e sulla chiusa di Cludinico, oltre la quale allora si scavavano le gallerie ed ardevano le fucine delle miniere di antracite del rio Furioso.

Comeglians

Così salendo e scendendo, toccata Ovaro, Chialina e In Bauss, finalmente arrivammo a Comeglians (559 m.). Questa località ha una certa importanza per la sua postura, trovandosi quasi alla metà del canale e non lungi dallo sbocco delle due belle vallate tributarie di S. Canziano e Valcalda. V’erano allora due discrete osterie, fra le quali scegliemmo quella della signora Tavoschi, tipica per la tradizionale pulitezza carnica. Oggi le condizioni, già allora buone, degli alberghi del paese sono di molto migliorate.

Un'iscrizione romana

Appena giunti, si fece una passeggiata alla chiesa parrocchiale di S. Giorgio (649 m.), sovrastante a un’altissima rupe di calcare marmoreo del paleozoico, che scende a piombo sulla destra del Degano; postura davvero d’incomodo accesso per una parrocchia, dovendosi dal paese, oltre che ascendere quasi un centinaio di metri, passare il torrente spesso gonfio e pericoloso. Bello il panorama che di lassù presenta la valle coi suoi rivi, colle fitte e cupe abetaie, colle verdi praterie, coi numerosi paeselli dai tetti acuminati e, contro il costume carnico, coperti di embrici piatti, e quindi più pittoreschi e allegri che mai. Oltre a tutto questo, c’era anche da dare un’occhiata ad una lapide romana incastrata nel muro, a sostegno dell’angolo sud-ovest della chiesa medesima. A quell’ora, prossima all’imbrunire, non vi si potea quasi legger verbo; ma in mie vecchie note, raccolte fin dal 1873, trovo che quella era un cippo sepolcrale, che L. Virtius, L. F. Albinus, et Regia liberta Ommonta vivi fecerunt sibi suisque9. Alla scritta, che appare sul lato del mezzodì, corrisponde da quel di ponente una parca che fila. Al compianto dottore G. B. Lupieri, da Luint, che presenziò il rilievo della lapide fatto nel 1808 dal Guibert per ordine del sottoprefetto di Tolmezzo e per conto del Siauve, riescì di vedere anche le due faccie ora murate del cippo, delle quali una era liscia, ma quella a levante portava un’altra figura probabilmente simbolica, dal tempo resa fin d’allora irrilevabile.

E adesso, quale vicenda, quale volger di umane sorti avrà fatto trasportare sull’alto del ciglione, dove sorge la chiesetta di S. Giorgio, la pietra sepolcrale che si votarono Virzio, Albino e Regia liberta? e chi eran costoro? d’onde vennero? dove vissero?

La località prossima alla chiesa, a detta del dott. Lupieri e come risulta da sue note, possedute tuttora dalla famiglia Magrini di Luint, si chiamava pel passato il Ciastiellat (il Castellaccio), e non sarebbe l'unico luogo della vallata dove si sieno raccolti frammenti romani, che altre, per quanto misere, reliquie d’iscrizione vedemmo io ed altri sul selciato che mena all’antica Pieve di Santa Maria di Gorto10, ed una pur ne vide il prof. Alessandro Wolf dell’Istituto tecnico di Udine a Luint in casa Gottardis; entrambi pubblicate pochi anni or sono dal Gregorutti11.

Epperciò è lecito ritenere che val di Gorto fosse già all’epoca romana percorsa da una diramazione diretta a congiungere la grande via militare di Giulio Carnico coll’alta vallata del Piave e quindi a servire da scorciatoia per la Pusteria (Pusterthal). E forse la rupe di S. Giorgio come quelle della pieve di Gorto e di sant’Ignazio di Muina e quella d’Invillino, in quei tempi remoti, servivano da piccoli posti militari e da vedette preziose in momenti di guerra pei segnalamenti che da essi potevano scambiarsi con fumate o con fuochi.

La strada di Gorto

Per giungere a Collina, dal fondo della val del Degano, si presentano tre vie. Una move da Forni Avoltri (898 m.), vi mena in 2 ore, ed è la più facile e più breve; la seconda parte da Rigolato, è lunga 2 ore e mezza, ma esige che si pratichi un sentiero ripidissimo che, con molteplici zig zag, dal thalweg risale la costa per forse 500 m. di dislivello; l’ultima prende le mosse da Mielis, e attenendosi sempre alla montagna ne sale lentamente il pendio, e traversa bellissime praterie inclinate e fitte foreste, qui fortunatamente conservate a tutela dei fianchi assai erti, sui quali crescono. Siccome quest’ultimo e del resto comodo viottolo in breve si porta a 300 o a 400 m. sul filone della vallata, e vi si mantiene, nelle belle giornate presenta una veramente magnifica successione di scene alpine, ed io che, prima d’allora, lo aveva già percorso più volte, lo prescelsi anche in questa occasione, ancorché sapessi che a percorrerlo da Mielis vi vogliono almeno 4 ore e da Comeglians quasi 5.

Così adunque, lasciata questa ospitale borgata alle 4 1/2 ant. del 19 agosto, risalimmo pedestri, per un tratto, la strada oggidì provinciale, ma già fin dal 1762 costruita modicis sumptibus, breviori tempore, come dice Alvise Mocenigo, luogotenente veneto della Patria del Friuli, parlando di sé, nella lapide ch’egli fece modestamente scolpire in un grosso macigno all’Acquatona, presso Sappada12. Evidentemente la strada fu costruita battendo, allargando e in genere utilizzando i vecchi sentieri pedonali o mulattieri che in addietro solcavano la valle, congiungendone villaggio a villaggio, ond’è costituita da un infinito succedersi di pendìi e contro pendìi a inclinazioni fortissime e pericolose per i carriaggi.

Essa si stacca a Villa Santina dalla nazionale (che parte da Piani di Portis e per Tolmezzo, Ampezzo e il passo della Mauria va in Cadore) e per Ovaro, Comeglians, Rigolato, Forni Avoltri, Sappada e Santo Stefano si dirige al confine del monte Croce di Sesto. Sicché talvolta è chiamata strada del monte Croce, con abbreviatura equivoca, essendo due i passi del Croce, cioè quello di Sesto e quello di Timau. Strada di seconda serie, è da credere che il governo, prima di passarla definitivamente alla provincia, abbia a renderla più praticabile e più ragionevole che oggi non sia.

Da Comeglians (558 m.), allora come adesso, il viaggiatore deve ascendere suppergiù un quarto d’ora, per poi discendere e passare il rio Margò (proveniente dalla Valcalda) un 50 m. più basso, e risalire daccapo, circa 150 m., fino a Mielis di Sotto. Qui prendemmo una misura altimetrica, assumendo a capo saldo la chiesetta posta rasente la strada che ci risultò alta circa 657 m., con non trascurabile differenza dalla altitudine di 612 m. trovata dal Trinker.

E qui lasciammo la strada carreggiabile e prendemmo il sentiero, che fra i campi di granone e di canape sale a Gracco (761 m., Marinelli, Fortin). Indi per Vuezzis (901 m., Mar., Fortin) e Stalis, quest’ultimo una serie di fenili, non già un paese, erano appena le 8 1/2, e ci trovavamo a Givigliana, frazione di Rigolato, ove si fece sosta.

Givigliana

Givigliana, o, come dicono i Carnici, Giviàne, è un singolarissimo villaggio. Anzitutto passa a ragione per uno dei più alti del Friuli, trovandosi a circa 1120 m.; ma quanto apparisce più strano sta in ciò, che esso è costruito in un pendio tale che, da lungi, non si capisce proprio come possa reggersi13. Avvicinandovisi, il fenomeno si spiega; ma ciò non toglie che le case non sieno edificate in modo che dalla porta di strada talvolta si penetri addirittura nel secondo piano della casa, se si consideri la valle. Il che poi fa sì che talvolta la roccia, su cui sono, sto per dire, incollate le abitazioni, diventi parete delle stanze, senza dubbio solida e sicura dal fuoco, e talora venga utilizzata nei suoi vani e nelle sue sporgenze a guisa di serbatoio o di lare domestico.

Il Jôf di Pertighe

Tra Givigliana e Collina s’eleva il monte Pertighe, uno sprone che si spinge a occidente del monte Crostis (m. 2250 Δ) sino al confluente del rio Moreretto in Degano. Lo valica un sentiero, che, da Givigliana, mena verso greco alla casera di Plumbs, mentre la viuzza che mira a Collina e che in breve si congiunge al sentiero, che sale da Rigolato, lo gira a ponente e passa la catena per un varco alto soltanto 1213 m. (Mar., Fortin) e che prende appunto il nome di Jôf, giogo14.

Per giungervi si abbandonano i prati e si penetra nel bosco, indi si cammina per pendii ben più dolci di quelli che ci avevano condotti a Vuezzis e a Stalis.

Dal Jôf, buttando l’occhio attraverso i faggi giganti e gli abeti giganteschi, si scorge dapprima il villaggio di Sigileto, giacente sull’opposto versante, indi tutta la verde, ma ristretta valle del Moreretto, e i paesetti di Collina e di Collinetta. In alto, la vetta della Croda Bianca e le roccie acuminate del monte Volaia e del monte Canale, la fenditura del passo di monte Canale, il Judenkofel e finalmente l’imponente massa del monte Coglians.

Il sentiero indi piega a levante, seguendo il pendio settentrionale della catena del monte Pertighe ed abbassandosi fino a passare il rio Moreretto; poi si alza verso Collinetta. Nel 1876, sul rio Moreretto si stava costruendo l’attuale ponte in pietra, laddove esisteva il vecchio in legno, nella località detto Folin a mezzodì di Collinetta, e quivi in una cava da sasso, aperta appunto a motivo del ponte, si scopersero vari fossili interessanti, alcuni dei quali trovansi ora nel Gabinetto di Geologia dell’Istituto tecnico di Udine.

Salimmo a Collinetta, e, dopo breve discesa, in pochi altri minuti raggiungemmo Collina in punto a mezzodì, avendo impiegato da Comeglians 6 ore 1/2, di cui 4 1/2 di marcia effettiva.

III Collina

Collina è una frazione del comune di Forni Avoltri, e nelle due borgate di Collina e Collinetta contava nel 1871 poco più di 250 abitanti, e nel 1881, come popolazione residente, suppergiù 300 abitanti. Essa giace a 1255 m. sul mare, se si prenda a considerare l’osteria di Faleschini15, e a soli 1214 se si consideri la chiesa16, mentre Collinetta è a 1205 m. sul mare. Il che fa sì che Collina sia il terzo luogo abitato del Friuli, rispetto ad elevazione, cioè segua immediatamente Sauris di sopra (1397 m. Mar., Fortin) e Latteis (ca 1290 m. Mar., aner.) frazione dello stesso comune di Sauris.

Sua postura

Il suo territorio occupa i due versanti del rio Moreretto e va innalzandosi verso tramontana fino alla Croda Bianca (2257 m.), al Volaja (2300 o 2400 m.) e al monte Canale (2556 m.), estendendosi a mezzodì la catena del Pertighe. A suo greco si deprime il passo di monte Canale o del lago di Volaja (1989 m.), al quale soprastanno le vette del Coglians (2801 m.), che mediante un contrafforte, diretto da nord a sud, si protendono a congiungersi col monte Crostis. Questo contrafforte è solcato da tre selle: la prima di Monument (2308 m.) non è praticata; la seconda, di Gola Bassa, a 2027 m., lo è di rado; la terza, di Plumbs, è la più ordinariamente frequentata. Anzi fu proprio per quest’ultimo varco che il colonnello Mensdorff, durante la tregua di Cormons, nel luglio del 1866, passò colle truppe austriache, venendo da Mauthen e dal varco del monte Croce, e mirando alle spalle dei Garibaldini campeggianti nel Cadore. Vi giunse difatti in tempo da buscarsi ai Tre Ponti una rotta tanto più vergognosa, in quanto gli fosse inflitta da volontari e giovanotti che faceano le prime armi.

La valle ha una lunghezza di poco meno che 8 chilometri, percorsi in direzione ENE-OSO e si apre in quella del Degano a circa 755 metri sul mare, presentando dalla sorgente del Moreretto alla foce la fortissima pendenza del 15 per cento, e, anche da Collina in giù, quella del 10 per cento.

A illustrazione della sua altimetria offro il seguente prospettino :

Croda Bianca, vetta a NO di Collina 2257  m.  Stur e Keil
 »  »  sella fra d.o monte e il m. Vas 1778  »  »  »
M. Canale (Seekofel) vetta occid. a N. di Collina 2365  » 1:75,000
  id.   id.   vetta orient. sovrast. al lago 2556  »    »
Passo di m. Canale o del lago di Volaja o di Collina o Wolaya Joch  1989  » Marinelli, Fortin
    »            »          » 2001  » Grohmann
    »            »          » 1997  » 1:75,000
M. Coglians a NE di Collina 2801  » Marinelli, Fortin
  »     » 2809  » Grohmann
  »     » 2799  » 1:75,000
Passo di Monument 2308  » Marinelli, Fortin
 »   Gola Bassa 2027  »  »  aner.
M. Crostis, ESE di Collina 2250  » Δ 1:86,400
  »   »    » 2233  » Pitacco, aner.
  Id.   vetta orientale 2198  »  »  »
Collina. Osteria di Giovanni Faleschini 1255  » Marinelli, Fortin
 »   Chiesa 1214  »  »    »
Collinetta. Sacello 1204  »  »    »
Sigileto. Chiesa 1121  »  »    »
Jôf del M. Pertighe. Somm. del sentiero fra Givigliana e Collina 1213  »  »    »

 

Il suolo

Il suolo, sotto il rispetto geologico, spettante senza dubbio al paleozoico, puossi dividere in due zone. A settentrione e più in alto la catena di spartiacque e i più immediati suoi contrafforti appariscono costituiti di calcari compatti e marmorei, spettanti al carbonifero superiore e che, al loro contatto colle roccie meno compatte, presentano filoni di Fahlerz, di calcopirite, di galena, di cinabro e di siderose. Da tali terreni è formata certamente la muraglia rocciosa che corre dalla Croda Bianca ai monti di Timau.

Più in basso notansi gli scisti varianti dal rosso al nero per gradazioni verdi e violette, spesso quarzosi e micacei, talvolta argillosi, di rado talcosi, ed essi costituiscono i monti di Frassineto fino al passo di Gola Bassa e tutto il bacino del rio Moreretto e la catena del Pertighe e del Crostis.

Dapprima il Taramelli inclinava ad ascrivere questa seconda zona al permiano17; ma successivi studi suoi e di altri lo trassero a riferirla a terreni più antichi, almeno siluriani e forse presiluriani18.

Però quella parte della valle su cui si trovano le campagne e i caseggiati, è tutto terreno di trasporto; con molta ragione giudicato proveniente, ad un tempo, e dalle morene depositate dal ghiacciaio, che indubbiamente doveva scendere dalla imponente massa del Coglians, e da quelle insinuate dal ghiacciaio del Degano, forse allora unito con un ramo di quello del Piave, sormontante il varco di Cima Sappada. Il Taramelli, per altro, non rinvennevi roccie palesanti relazione coi ghiacciai del Tirolo, quali ritrovansi nel bacino del Tagliamento e nell’anfiteatro morenico del Friuli.

Più tardi le acque d'ablazione dei ghiacciai sconvolsero tali masse, già per sé caotiche, e le distribuirono in varia guisa, sovente terrazzandole. E di fatto oggi il rio Moreretto e i suoi tributari vi scorrono in solchi profondi a rive bellamente terrazzate, ma qua e là anche sconciamente rotte da frane enormi e pericolose, come quella traversata dal sentiero che da Collina conduce a Sigileto. Tali frane, di fattura non antica, costituiscono una minaccia continua e crescente, se non si combatte la forza selvaggia delle acque con un lavoro pertinace e sagace.

La vegetazione è vigorosa. Il bosco, in gran parte costituito da abeti e qua e là anche da faggi, che s’attraversa andando a Collina pel giogo di Pertighe, è adesso alquanto diradato, ma presenta delle piante stupende e molto apprezzate in commercio. Esso è di proprietà di parecchi comuni consorziati della parte superiore del canale, e con un buon regime forestale in pochi anni potrebbe dare un taglio di piante superbe e rimunerare lautamente le cure prestategli. Queste poi diventano un vero dovere, anche per la necessità di sostenere il pendio del monte, qua e là minaccioso.

Del resto l’abete è quivi la pianta dominante. Rarissimi i larici e ridotti alle parti più elevate della vallata; in basso, e dopo i faggi, comuni i frassini e gli ontani, e, fra altre piante, i sorbi, che qui si chiamano, come spesso in Carnia, meless.

Abbondanti, verdi e grassi i pascoli, prima ricchezza del paese, grazie agli ottimi latticini che se ne traggono. Dal 1881 vi funziona una Latteria sociale, la cui istituzione e il cui mantenimento sono principalmente merito di quel maestro Eugenio Caneva, e che portò vantaggi importantissimi: basti dire che ha reso possibile una notevole esportazione di formaggi, mentre prima non se n’aveva neanche a sufficienza pel consumo locale.

La scarsissima campagna produce frumento, segale ed orzo, patate, canape, cavoli-cappucci, fava e rape. Già a Povolaro (ca 600 m.) presso Comeglians, avevamo lasciato le ultime viti veramente vinifere, a Mielis (650 m.) gli ultimi peschi, a Vuezzis (901 m.) gli ultimi peri, a Givigliana (1129 m.) l’ultimo melo.

Il clima

Sul clima di Collina non ho informazioni complete. Da una scorsa alle osservazioni fattevi per 15 anni nella stazione pluviometrica (fondata da me nel 1875, diretta dallo stesso maestro Caneva, e dal 1880 appartenente alla rete dello Stato), che soltanto da poco tempo è diventala anche termometrica, si può dedurre che codesto clima è piuttosto freddo, nebbioso e piovoso.

Le case di Collina sono per la maggior parte costruite in legno con un primo piano in muratura e, a motivo forse che i materiali di cotto si dovrebbero trasportare tutti a spalle, sono coperte di assicelle di legno, dette scandole, le scintule dei bassi tempi, da scindere, tagliare. La paura del fuoco, così terribile coi materiali con cui sono costruite, ha escluso da queste case l’uso dei camini, sicché il dimorare in quelle loro cucine senza versar lagrime è possibile solo a chi si adatta di starvi accoccolato, poiché il fumo si ferma nelle parti superiori.

Gli abitanti

I Collinotti, e giova aggiungere, altresì le Collinotte, sono bella gente, gagliarda, più alta di statura e di torace più rilevato, che generalmente non presenti il tipo carnico, bello per sé, ma di statura mediocre, se non bassa, di spalle quadrate, di petto largo, ma piuttosto piatto. Gli uomini, robustissimi, esercitano generalmente il mestiere del boscaiuolo, mestiere che esige muscoli e robustezza non comuni; le donne attendono ai lavori campestri ed al trasporto (da Rigolato e da Forni Avoltri) delle derrate, non bastando al loro bisogno i magri prodotti della valle.

Hanno fama di più gagliarde delle altre montanare, e infatti, senza farne gran caso e per pochi centesimi, prendono a Rigolato un 40, 45 ed anche 50 chilogrammi di grano o di sale19, e in due ore e mezzo lo portano a Collina, salendo ad un tratto i 500 metri di asprissimo sentiero, che corrono in altezza dal thalweg del Degano al Jôf di Pertighe. Non dando sufficienti redditi la valle, i Collinotti emigrano, facendo i boscaiuoli e di preferenza i merciaiuoli ambulanti.

Si cibano poi di polenta, pane, patate, fagiuoli, baccelli e latticini; ben di rado di carne. Sentono prepotente il bisogno del vino e degli alcoolici.

Il dialetto

A Collina si parla naturalmente il dialetto friulano, anzi, per meglio dire, un dialetto spettante alla varietà carnica del friulano medesimo. Peraltro voi distinguete subito il Collinotto dagli altri Carnici, prima per una speciale cantilena, che non si può riprodurre in iscritto; poi pel pronunciare che fa tutte le s fuor di misura schiacciate e striscianti; finalmente per ridurre quasi sempre in una vera u francese tutte le i, e nella lettera o quelle lettere che dai Carni si usano come a o come e. Quest’ultima caratteristica si riscontra altresì nel friulano del 1400. Un esempio varrà a darvene una meschina idea. I Carni direbbero: Sèso vignud be sol a Colìne? (Siete venuto solo a Collina?); i Collinotti: Scèso vügnud be soul a Culìno? I Carni: Vèso mangiade la polènte? (Avete mangiata la polenta?); i Collinotti: Vejo20 mangiàdo la polènto? Così a Morerèt essi chiamano Morariot ecc.

Trascrivo poi alcune voci, da me registrate nelle varie visite che feci in Collina, col loro corrispondente italiano e carnico.

Italiano Collinotto Carnico
capra ciâro ciara o ciare
sorcio da fosso pantiàno pantiàna o pantiane
scoiattolo s-giazio, pi. s-giàzios   sghirate in quasi tutta la Carnia però s-giaz e s-gìaziis a Forni Avoltri e giazie in Canal S. Canziano
lupo lùof lov o louv
coniglio cunìs cunìn
vipera vìpero vipera
merlo mièrol mierli
smagliardo sobàrd màiard
lamponi mujeirs, mujèries mujes, mujas
bacche piòrs perùz
mirtilli mòros glasimis, cernigulis
erbe, che si tagliano dopo la messe stòlo stole (Forni Av.), jarbe di ciamp
abete avedìn, piceo avedin, dana
pece pìos pès, pies
stavolo ciuòd stali, cìud o ciod (in canale del Ferro)
stanga con cui si serra il chiuso delle malghe   tresèduor, clutorìe tresidor
pietra del focolare las lars las lares
slitta juogio jòze
giogo per le mucche ciàveno ciànive
fazzoletto fazalèt fazolèt
zoccoli di legno darmedos dalmenos
sottane viestos viestes (Forni Avoltri)
burro menàdo ont, sponge
crema di latte bràmo brume, brame
sole sarièli soreli
cadere ciadìo ciadè, ciadei

 

Del resto, la terminazione in o e altre caratteristiche del Collinotto, non gli sono esclusive, ma spettano a tutti i vernacoli parlati nell’alto bacino del Degano, e precisamente nelle borgate di Avoltri, Forni Avoltri, Frassineto, Sigileto, spettanti al comune di Forni Avoltri, e in quelle di Ludaria, Rigolato, Magnanins, Valpiceto, Givigliana, Stalis, Vuezzis e Gracco, spettanti al comune di Rigolato. Ivi sentite dovunque nuo, vuo, lùor per noi, voi, loro; noolo per noce (nole in carnico), ecc.

Nei prossimi paesi del comune di Comeglians, Calgareto, Mielis, Tualis, Najareto, già all’o è sostituita la terminazione in a.

Le seguenti villotte, raccolte a Rigolato e che, con lievi varianti, sarebbero ripetute in tutti i paesi dell’alto Degano, possono dare una idea della poesia popolare di quell’angolo remoto della Carnia.

I ai fato la s-cialùto, (Mi son fatta la scaletta,
I l’ai fato da mincion, ma l'ho fatta da minchion:
I l’ai fato masso curto, m'è riescita troppo corta,
Che non mi rivo sul balcon! non m’arriva sul balcon.)21
---- -------
E tu Toni tal gnò stomi, (E tu, Toni, nel mio petto,
E tu Pieri tal gnò cûr, e tu, Piero, nel mio cuor,
Se il gnò Toni al mi bandone     se il mio Toni m’abbandona,
I ai ben Pieri iò sigûr! Piero ben sarà il mio amor!)
---- -------
Se tu fos nomo tu bielo (Se tu solo fossi, bello,
Nomo tu da maridaa, solo tu da maritar,
I vorès metici in tar un veri    vorrei porti sotto un vetro,
E i vorès faci illuminaa. vorrei farti illuminar.)
---- -------
E e ben biela la frutato, (Com’è bella la ragazza!
Ma tocialo a no sci pò, ma toccarla chi potrà?
Se tociàlo a sci podevo, Se toccarla si potesse,
I la varès tociàdo iò. io l’avrei toccata già.)

La proprietà essendo molto divisa, se in Collina non si trovano ricchi, mancano d’altra parte anche i proletari, mentre ognuno s’ingegna di trar suo pro da un nonnulla, il che affina in modo singolare l’intelligenza.

Collina centro alpino

Collina potrebbe essere per la sua postura un ottimo soggiorno alpino. Discreta (e di molto migliorata dal 1876) l’osteria Faleschini. Facile, occorrendo, trovar ospitalità nelle più agiate famiglie.

Come centro di escursioni, Collina potrebbe sostituirsi con vantaggio a Plecken, dove si trova troppa gente, e sopratutto troppa gente ricca e più dedita a una cura tranquilla che a far professione di alpinismo e a sopportare gli alpinisti. Qui in nota do un prospetto delle gite che da Collina si presentano più o meno comode22.

Un affar serio per le escursioni è però quello di trovar buone guide; vi sono molti esperti cacciatori di camosci e conoscitori delle cime, ma loro manca generalmente la speciale educazione di guida. Bravissimo ed ottimo per quasi tutte le escursioni ricordate (non pel Kellerwand) è Antonio Gajer.

Questi il 7 agosto aveva accompagnato sul Coglians l’ing. Pitacco. Noi pure potemmo averlo per guida, ed egli si aggiunse due belle e robuste montanare come portatrici.

IV In marcia pel Coglians

Lasciammo Collina alle ore 3.30 p. diretti alla casera Moreretto. Per giungervi, si doveva scendere un sentiero sostenuto alla meglio lungo un terrazzo mezzo franato del rio Moreretto, passar questo piccolo corso d’acqua sopra un ponte di travi posto alquanto a monte della sega di Collina, indi risalirlo fin poco lungi dalla sua sorgente. Sino al confluente del rio Canaletta, che scende dal passo di monte Canale o del lago di Volaia, il sentiero saliva in pendio dolce e ben poco sensibile e percorreva boschi e prati amenissimi, che noi traversavamo allegramente, intanto che il mormorio del ruscello rendeva, per così dire, animata e gradita la scena. Ma, appunto laddove le due vallettine s’incontrano, è duopo rivarcare il Moreretto, e tosto s’incontra uno sperone boscoso, erto e sempre più selvaggio, lungo il quale è giuocoforza montare i 350 metri di altezza, che ancora separano quella confluenza dalla casera. Quantunque il pendio del torrente sia fortissimo, pure quello della viuzza lo è ancora di più, come quella che a poco a poco s’innalza lungo la costa, abbandonando il thalweg. Esciamo dal bosco, che oramai va sempre più diradandosi, e cominciamo a salire i pascoli. Qui si cammina a vanvera, poiché sentiero non v’è, i sentieri son mille, quanti, cioè, dettò il capriccio ai valligiani o il bisogno di erba alle mucche. Il dosso si ripiega, si addolcisce e termina in un ripiano umidiccio dove già da lungi ci arriva alle nari quell’odore, così caratteristico, delle malghe. E ben presto ci siamo: sono le 5 p.; da Collina 1 ora 1/2 di marcia.

La casera Moreretto

Dei miei lettori ben pochi son certo quelli che non abbiano passato una notte in una cascina; non mi fermerò quindi a narrare le vicende della nostra permanenza al Moreretto, che nulla ebbero di straordinario, tranne forse una circostanza, che può succedere solo a chi viaggia munito di strumenti scientifici: e fu che a stazione provvisoria delle mie osservazioni scelsi a posta (appendendovi barometro Fortin, aneroide, termometro e termografo) un palo da quei creduli pastori destinato, mediante certi legnetti incrociati cabalisticamente, a rompere le stregonerie e le disposizioni infernali. Nulla mi pareva meglio del far sostegno di apparati scientifici un oggetto costruito a fini di ingenue superstizioni. Non so poi se il mio atto abbia anche avuto per effetto di favorire o di rompere qualche malìa; intanto noto che dalle mie osservazioni ebbi indicata una pressione che, confrontata con quelle segnate nella stessa ora a Tolmezzo e ad Ampezzo, mi diede per la casera di Moreretto l’elevazione di 1716 m. La temperatura alle 6 p. era di 13° 7; nella notte cadde a 9° 8.

L'ascesa

Si partì alle 3 a. del giorno 20. Cielo tutto coperto, buio pesto, per cui dovemmo prendere una lanterna; barometro abbassato; tempera tura piuttosto alta, 10°: cattivi pronostici.

Dalla vetta del Coglians, proprio verso sud, si sferra uno sprone, sulla cui vetta un tempo correva il confine tra il distretto di Tolmezzo e quello, soppresso nel 1854, di Rigolato. A circa un chilometro dalla vetta lo schenone si divide in due rami: uno va a scirocco e fa da spartiacqua tra il bacino del But e quello del Degano; il secondo volge a libeccio e termina presso Moreretto di Sotto. Noi dovevamo salire questo ciglione, indi portarci nel rugo che in direzione dapprima SO-NE, indi S-N per frane, nevai e roccia, mena rapido alla vetta.

Per un’ora o giù di lì la salita prosegue quasi sempre per un pendio costituito da zolle erbose, e si può dire di montare per un sentiero ma, raggiunto il cosidetto Ciadin di sòre (Bacino o catino di sopra) che appare anche dal tratteggio della Carta, la cosa cambia aspetto. Comincia la roccia, la frana, il nevaio e l’ignoto.

Appunto li (c.a 2100), ad un’ora dalla casera, il Gajer m’indicò una roccia sporgente sotto la quale l’ing. Pitacco e lui avevano passato orribilmente la notte del 6 agosto, che fu tutta burrascosa, non avendo l'ingegnere voluto fermarsi a Moreretto.

Lì presso si apre a destra il passo di Monument, fino al quale dovevasi pur tornare nella discesa, per poi, valicatolo, scendere a Plecken. Le portatrici avrebbero potuto aspettarci colà, ma preferirono di venire con noi sulla vetta; deposero però i loro gerli, prendendo solo gli scialli e un po’ di viveri. Fatto ivi un quarto d’ora di sosta, ripigliammo la marcia.

Il cielo andava rasserenandosi. Però lungo le valli, verso il monte Pertighe e sopra la malga Moreretto, salivano ogni tanto dei grossi ammassi nebbiosi, dei quali i più vicini a noi per poco non giungevano ad avvolgerci.

Però il monte Crostis, che si trovava al nostro livello, mostravasi sgombro da nubi, e già noi scorgevamo a destra sua il canale di Gorto chiuso a mezzogiorno dalla massa piramidale del Verzegnis e a sua sinistra i monti di Sutrio e lontano lontano le masse dell’Amariana e del Sernio.

Riprendemmo l’ascesa che si faceva sempre più faticosa ed aspra. Passammo un piccolo nevaio. Il cielo si schiariva sempre più; la nebbia sembrava non ardisse di alzarsi. Allo svoltare di una goletta, Toni, che , mi precedeva, si ferma ad un tratto e mi disse: “Guardi!"

Alzai gli occhi quanto potei, e proprio sopra la mia testa, fra mille picchi bizzarri, frastagliati ed acuminati al pari delle più ricercate, vette dolomitiche, ne scorgeva uno, il solo tinto d’oro dalla sorgente aurora, dominare gli altri.

Ci volgemmo. La cresta erbosa formata da scisti, la quale dal Crostis per Plumbs, Gola Bassa e passo di Monument, move al Coglians, allora cominciavamo a vederla sotto di noi in taglio, dimodoché ne scorgevamo entrambi i pendii, che ripidissimi andavano a intersecare i loro piani sull’ondulata ed esile sommità. Il pendio orientale, coperto da nebbia trasparente, si tingeva in un colore inesprimibile, misto di rosa, di azzurro, di viola, di lilla, esso pure sfumato, tutto velatura e trasparenza. A ponente invece la valle scendeva cupa e nerastra. Il verde dell’erba contrastava in basso col rosso degli scisti e in alto col bianco ardente delle roccie calcari, rese ancora più abbaglianti dalla luce sempre più viva che andava diffondendo il sole.

L’ascesa cominciava a farsi seria. Montiamo un primo caminone, dopo cui ci troviamo in un ripiano. A destra, sopra di noi, appare una piramide acutissima, che ci sembra molto elevata e che per un momento scambiamo per la vera cima, errore da cui tosto ci ritrasse la guida. Davanti ci si presentano due golettine rocciose: una ascende verso greco ed è occupata da neve; la seconda move a maestro, e non lascia scorgere nevai. Sulla carta al 86,400 sono segnate entrambe; l'una in direzione della lettera o, l’altra della lettera M della parola M. Coglians.

La guida prende risolutamente la prima. Il nevaio in basso era molto largo, forse duecento metri, ma a dolcissimo pendio; indi andava restringendosi fra le due pareti rocciose fino all’altezza di circa sessanta o settanta metri. Guardando in su, lo si vedeva quindi perdersi fra le rupi per uno strettissimo couloir, di cui si scorgeva solamente la bocca inferiore.

Pel primo tratto cominciammo a percorrerlo in catena, ognuno prendendo la sua via; poscia, dopo due o tre conche ondulate, si cominciò, a rallentare il passo. Il nevaio diventava sempre più ripido. La neve era abbastanza soda; ma, con una inclinazione del 60, 70 e in ultimo anche del 100 per 100, il piede stentava molto a trovar appoggio. Si procedeva a zig-zag, tenendosi però verso la parete a sinistra, la quale poscia dovevamo attaccare. Così s’impiegò circa 1/2 ora a superare un dislivello di c.a 120 m. La guida mi disse però che di solito il nevaio è molto più ristretto; allora lo trovammo così esteso per la copia straordinaria delle nevi cadute nell’inverno precedente e anche nella primavera, delle quali l’estate freddo e piovoso avea ritardato lo scioglimento.

Osservando la parete quasi verticale, questa ci si presentava dapprima come inaccessibile, ma quando, terminato finalmente il nevaio, ci fummo più vicino, la trovammo screpolata, a fenditure, a ripiani così da offrir modo ad una scalata non agevolissima, ma neanche delle più difficili, e colla quale infatti ci alzammo rapidamente. Ornai quella piramide acuta di roccia, che dapprima s’elevava sopra di noi a destra, s’era umiliata e appariva depressa; già più una sola pianticella, il ranunculus glacialis, slargava le sue corolle d’oro al sole crescente; già si sentiva una lieve brezza accarezzarci gli orecchi. Non provavamo stanchezza di sorta. Istintivamente si sollecitava il passo quanto lo permetteva l’asprezza del cammino, e l’idea di non precipitare al di sotto o quella di non recar danno ai compagni, ruinando loro addosso qualche macigno mal sicuro.

La cima del Coglians

In un momento la persona del Gajer torreggia dinanzi nell’azzurro del cielo. È la cresta. Di là vediamo ad un tratto il Volaja, il Canale, il Judenkofel e una sterminata quantità di vette e di macigni. Non ci badiamo. La cresta sale diritta a congiungersi al fastigio supremo del monte. Raddoppiamo di cautela, perché l’appoggio questa volta ci manca da entrambi i lati.

Ci siamo. Ecco la cima; su quel punto sorge un ometto; è stato eretto dal Grohmann e dalla guida Sottocorona nella prima ascensione. Ma io m’accorgo che la cresta va ancor salendo verso est; via di corsa a salti per lo stretto spigolo, e in due minuti ho raggiunto il punto culminante; qui troviamo una bottiglietta coi nomi dei primi salitori. Sono le 6.15: quasi 3 ore 1/4 dalla casera Moreretto, delle quali meno di 3 ore di cammino effettivo.

Sopra di noi il cielo era perfettamente azzurro. All’intorno lo era del pari in ogni verso, meno che a ponente, dal quale lato notavansi alcune lunghe nubi a strati. Così qualche vetta un po’ bassa cominciava a circondarsi di cumuli bianchicci, che, se ne rendevano meno spiccati i profili, nulla toglievano alla grandiosità della scena. Un leggiero venticello di maestro, fino e freddo, sorgeva a buffi, variando di forza e facendoci sperare che anche quei pochi ingombri sarebbero scomparsi lasciandoci goder più completo il panorama.

Il panorama

Specola migliore della nostra certamente non si poteva trovare nelle Alpi Carniche; poiché già fin d’allora il confronto col Peralba e col Crostis ci ammaestrava che non dovevamo esser più bassi dei 2800 metri sul mare.

Quello che maggiormente ci colpiva era a tramontana una sterminata catena lunga ed uniforme, alternata qua e là da ghiacciai che splendevano candidi al sole sorgente, e sopra la quale si elevavano delle piramidi imponenti di ghiaccio. Sotto di essa le vette più prossime e le valli già si annebbiavano. Giustamente, fin dal primo istante, la giudicammo pei Tauern, la più importante serie di catene delle Alpi Orientali, l’Alpe Norica dei geografi della vecchia scuola. Già la sua media altezza, di oltre 2800 metri, permetteva che la scorgessimo sopra le nubi. Da levante a ponente ne spiccavano, dopo le profonde fessure della Maltathal e di Rastadt, la Hochalmspitz (3355 m.) e l’Ankogel (3263 m.), riuniti da una muraglia più bassa, l’Hochnarr (3258 m.), che sovrasta a Gastein e finalmente il Gross-Glockner (3797 m.), coi suoi fianchi neri, che presentava l’a picco, con cui precipita nella valle di Kals, e la spalla dell’Adlersruhe, donde si passa per ascendere alla cima più eccelsa. Quindi, nel suo stesso gruppo, si vedevano il Montanitz, l’Hochschober (3250 m.) e il Kreuzeck (2704 m.), quindi nuovamente la solita muraglia. Un’altra vetta: è il Gross-Venediger (3659 m.), quasi più imponente del Gross-Glockner, come quella che copresi di una cupola di neve e si stacca ad angolo retto dall’acrocoro nevoso della Drei Herren-Spitz (3505 m.); poi il Riesen Ferner e via a sinistra le cime (3400 a 3500 m.) della Zillerthal, fino al Brenner, la cui depressione si poteva distinguere a meraviglia. Né lo sguardo si limitava a ciò, ché giungeva agli splendidi ghiacciai dell’Oezthal, al Similaun, e solo si fermava alla candida Weisskugel, termine gigantesco del nostro orizzonte.

Questo veniva quindi serrato dalla catena dolomitica del Tirolo e del Cadore, cominciando dalla Dreischusterspitz (3160 ni.) e proseguendo pel monte Cristallo (3199 m.), per la lunga parete delle Marmarole (2933 m.), per la curva ed ardita piramide dell’Antelao (3263 m.), dietro alla quale si mostrava il turrito baluardo del Pelmo (3169 m.) e fra i due giganti, più in fondo la Marmolada (3344 m.) con quel suo nastro di vedrette pel quale si attinge la vetta principale. Il torrione bastionato del Pelmo quindi, mediante una cortina di cime verdeggianti, raggruppavasi alla curva testa della Civetta (3220 m.), lasciando veder dietro a questa la Cima d’Asta (2348 m.) col suo grigio cocuzzolo, dopo la quale più in basso e isolati staccavansi dalle vette dolomitiche i titani delle venete Alpi: la Vezzana (3194 m), e forse il Cimon della Pala (3186 m.), e certamente la Pala di S. Martino (2998 m.), le due ultime solo da poco, allora, domate da piede italiano.

Ecco finalmente abbuiarsi ad un tratto la veneta pianura23 su cui a mala pena distinguevasi la modesta vetta del monte Cavallo (2248 m.) e quella del monte Raut (2024 m.) e quelle più modeste ancora delle altre nostre Prealpi, di cui una gran parte ci era coperta dal vicino monte Crostis, che ne prospettava a mezzogiorno. Però, a destra del Cavallo e al di qua delle montagne dolomitiche che occupano il bacino di sinistra del Piave, mostravasi un’altra serie di vette dentate, e pur esse all’apparenza dolomitiche, quelle che servono di spartiacque tra quel fiume e il Tagliamento, e fra esse notavasi specialmente il Duranno (2668 m.) e a sua sinistra il Pregoane, mentre a destra il Clapsavòn (2463 m.), a me ben noto, copriva il Premaggiore (2479 m.). A destra e a nord del Clapsavòn, si vedeva di profilo la mirabile e frastagliata catena che fronteggia a mezzodì l’altipiano di Sappada, indi il Terza-Grande (2586 m.), il Rinaldo (c.a 2400 m.), il Peralba (2691 m.), e proprio dirimpetto a noialtri il Volaia e il Canale colla depressione, che ne forma la valle del Volaia, tributaria del Gail.

Ancora: tra il velo che la nebbia stendeva a nostro libeccio, lo sguardo scendeva nella profonda vallata di Gorto, dove apparivano qua e là alcuni gruppi di case, che mal si potevano identificare con sicurezza per questa o per quella borgata, mentre l’occhio veniva attratto immediatamente dalla biancheggiante casa Toscani in Mione, che pareva un dado di avorio sopra un verde tappeto. Ogni tanto un guizzo di luce ripercosso dall’onde, vincendo il fitto dei vapori, ne palesava, in fondo la valle, il Degano, che la percorre. Lasciamo a destra il monte di Verzegnis (1915 m.), che si accovaccia vergognoso dietro le spalle del Crostis, e passiamo anche questo.

Vicino, a sua sinistra, scorgevansi l’Orvenis (1969 m.), la vetta Cresolina e i monti di Terzo e più indietro il ben noto Tersadia (1959 m.), a tergo ancora del quale e più elevata la piramide del Sernio (2187 m.), e nello sfondo del quadro il gigantesco acrocoro del M. Canin (2610 m.), che disegnavasi nero sul fondo azzurro del cielo. A tramontana una depressione: la val di Nevèa (1205 m.), indi confusamente il Jôf del Montasio (c.a 2755 m.), il Wischberg (2609 m.), la bianca parete, del Mangart (2678 m.), che in parte copriva le biforcuta vetta del Triglav (2864 m.), l’unico monte delle Giulie che ornai possa rivaleggiare col nostro Coglians. Quindi, proseguendo a nord, le Caravanche e la vedetta della Carinzia, il Dobracs o Alpe di Villaco (2167 m.) in parte coperto dal Kellerwand, spettante al nostro stesso gruppo, il Reisskofel (2369 m.) e più indietro i bacini di Spital e del lago di Millstadt, coi quali si riprenderebbe il giro dei Tauern, donde siamo partiti.

Le osservazioni

Ora alle osservazioni barometriche e termometriche: ne furono fatte alle 7, alle 8.15 e alle 9, mentre nella stazione meteorologica di Tolmezzo si istituivano pure alle 7 e alle 9, e in quella di Ampezzo alle 6 e alle 9. Riporto le osservazioni della vetta:

Ore Temperatura esterna Barom. Fortin Aneroide    Stato del
antim. all'ombra al sole Temp. Press. corr. cielo vento
7 - 5.7 - 5.4  549.09  546.5 2 s° m.h. NO a buffi. forza var. 1-2 e calm.
8.15 6.7 - 7.0  549.36  546.2 3 s° m.h calma
9 - 7.1 15.8 7.8  549.59  546.5 2 s° m. cresc. calma
NB. Il termografo a minima segnava 4° 3; punto di temperatura più basso da noi raggiunto durante la dimora sulla vetta.  

Altezza e storia alpinistica del Coglians

Più tardi, allorché mi venne dato di poter confrontare tali elementi con quelli delle due stazioni accennate, potei, servendomi della formula del Laplace, calcolare l’altezza del Coglians, ed essa mi risultò di metri 2796.7 se riferita a Tolmezzo e di metri 2801.2 se riferita ad Ampezzo, donde risulta la media di metri 2798.8 a rappresentare l’altitudine della vaschetta del barometro, ed, essendo questa di metri 1.80 più bassa della cima, l’altitudine di quest’ultima riesce di metri 2800.6, in numero tondo 2801 metri.

La bontà degli strumenti da me adoperati e di quelli esistenti nelle stazioni di confronto, strumenti che in quegli anni io aveva sovente occasione di paragonare fra loro, la diligenza delle osservazioni eseguite e ripetute in ottime condizioni meteoriche, la conveniente distanza delle stazioni di riferimento, e il notevole accordo degli elementi dai quali risulta la media di 2801, son tutti argomenti importanti per attribuirle un grande valore.

Il quale è anzitutto confermato da un primo confronto eseguito mediante l’aneroide, la cui misura, riferita alla casera Moreretto con 1716 in., avrebbe dato per la cima del Coglians l’altitudine di 2811 m.

Né da queste cifre si discosta molto la misura del Grohmann, eseguita nel 1865 essa pure mediante un barometro a mercurio, e secondo la quale tale altitudine sarebbe pari a 8886 piedi viennesi, ovvero a 2809 metri.

Finalmente, dopo il 1881, a queste tutte puossi aggiungere la cifra di metri 2799, dovuta alla carta austriaca 1/75,000. A proposito della quale cifra c’è però il guaio che, mentre essa è segnata al punto in effetto spettante al Coglians, tale punto, e lo vedemmo, porta in quella carta due nomi, così disposti:

Kellerwand
(M. Coglians),

dei quali il primo evidentemente sbagliato, il che permette sempre la esistenza del dubbio, cioè che avendo fatto migrare il nome di Kellerwand da levante a ponente, con esso non abbia migrato la quota rispettiva. Se ciò non fosse, e se veramente il dato della carta austriaca è collocato a suo giusto posto e risulta da una misura effettivamente eseguita, esso corrisponde assai prossimamente al mio, al quale viene così a dare un’importante conferma.

In generale le guide alpine un po’ vecchie, quella del Ball24 e quella del Frischauf25, attribuiscono al Coglians la quota ottenuta dal Grohmann, la quale venne adottata anche nell’ultima edizione dell’Atlas der Alpenländer del Mayr, mentre la prima aveva, chissà su quali criterii, accettata quella difettosissima di 2312 m. Finalmente le guide o le opere geografiche un po’ recenti: quelle, per esempio, del Meurer26 e del Böhm27 ed altre, preferiscono la quota di 2799 data dalla carta austriaca.

Il Meurer, dietro le orme del Grohmann, identifica bene la posizione del Coglians, al quale egli dà altresì il nome di Hohe Warte, già, a detta del Grohmann, usato per questo monte da taluno dei valligiani della Lessachthal (Gailthal superiore).

È strano però che il Meurer stesso, nella sua ancor più recente guida della parte più orientale delle Alpi Orientali28, non abbia trovata una parola di descrizione per questo importante e notevolissimo monte, e lo stesso, anzi più ancora, può ripetersi a proposito della guida del Rabl, pur abbastanza recente e per giunta speciale alla Carinzia29, sui cui confini sorge la nostra vetta.

La quale, in complesso, ad onta della sua elevazione, che, come vedremo, la costituisce il più alto punto di altitudine sufficientemente accertata, di tutte le Alpi Friulane, e dell’intera catena delle Carniche; ad onta dell’estesissimo panorama che offre e della relativa facilità di ascesa, è pochissimo visitata dagli alpinisti.

Salita la prima volta dal Grohmann (con un contadino detto Hofer, di Wodrnay nella Lessachthal, e colla guida N. Sottocorona) il 30 settembre 1865; la seconda dall’ingegnere Luigi Pitacco, assieme ai signori Galante e Menchini (colla guida Antonio Gajer) il 7 agosto 1876; per la terza dai fratelli Cesare e Guido Mantica, dal tenente Segala e da me il 20 agosto 1876; per la quarta dal signor avvocato Ottone Welter di Colonia colla guida Antonio Gajer, due giorni dopo di noi; per la quinta finalmente dall’avv. Enrico da Pozzo di Tolmezzo il 30 agosto 1877: la storia delle sue ascensioni finisce lì. Ogni anno si sente dire che una od un’altra brigata di cacciatori ha asceso il Coglians od aveva intenzione di ascenderlo; e del pari credo che lo abbia salito il dott. Arturo Magrini di Luint; ma non posseggo nessuna notizia sicura di tali imprese, delle quali non venne fatto cenno pubblico, né tenuto conto nelle effemeridi alpine.

Dopo un allegro intermezzo per la colazione, ripresi ad osservare e riflettere. Mentre dapprima nutrivo qualche dubbio che il Kellerwand di Mojsisovics non fosse altra cosa dal Coglians dei Friulani, adesso già il dubbio era andato sparendo. A nostro oriente, alla distanza di forse un chilometro, si vedevano tre vette molto elevate, quelle stesse, che in parte coprivano l’alpe di Villaco, il Dobracs. Due delle medesime particolarmente spiccavano per la loro altezza, che così a occhio non poteva di primo acchito stimare inferiore a quella del punto da noi occupato. Per isfortuna, non avevamo a nostra disposizione un livello, che potesse darci una risposta sicura. Il tenente Segala tentò di supplirvi alla meglio, costruendo una specie di archipendolo di cartoncino; istrumento imperfettissimo, il quale per altro bastò a convincerci che quella vetta doveva trovarsi pressoché al livello, se non più alta, della nostra. Il Gajer, interrogato se conosceva una via che colà ne conducesse, rispose: «Per queste Crette30 vanno solo i cotorni e le poane, né si reggerebbero nemmanco i camosci». Soggiunse che a suo giudizio, vi si poteva salire da Monument; e noi lo eccitammo a studiar la strada.

Mi alzai per esplorare daccapo accuratamente la vetta. Dal punto prima toccato, all’estremità orientale, misurata alla cordicella, essa ci apparve lunga novantasette metri, e diretta pressoché da ponente a levante. La forma è quella di una schiena di capra, tutta aspra di, macigni calcari, bianchi e talvolta chiazzati di roseo, variamente logo rati e sconnessi. La sommità del crestone lascia camminare sicuri e presenta una larghezza di almeno un metro anche nei punti più stretti; ma poi, dai lati, se ci allontaniamo dal ciglio supremo di soli due o tre metri, i piani, che si incontrano al vertice, scendono a picco per mille burrati e per mille barbacani, che s’infossano o sporgono sulla parete. Stando lassù, però non si vede appoggio, di sorta.

Mi spinsi sul termine orientale della cresta. A sud-est vedevasi quella medesima vetta piramidale, che, imminendo sulla nostra destra mentre salivamo, io aveva scambiata un momento pel Coglians; più a levante, verso le Kellerspitzen, una serie accidentata di vette precipitose e ruinose, affatto impraticabili, appunto giusta l’avviso del Gajer; a nordest, sotto i piedi, un vasto nevaio, che s’appoggiava da un lato a quelle medesime vette e da quelle calava, erto dapprima, poi sempre più dolce, a formare la valle Valentina, della quale si scorgevano due buoni terzi. A tramontana il passo della Valentina, che da questa valle conduce al lago di Volaja e congiunge, a mezzo di rupi dapprima, indi per creste erbose, il Coglians al Rauchkofel e poscia ai pascoli del Judengras e alle cime del Gamskofel, del Mooskofel e del Plengo.

Col cannocchiale cercai scoprire un passaggio pel Kellerwand, ma conclusi che da questa parte ogni tentativo sarebbe stato vano. Cercai altresì se fosse possibile vedere il ghiacciaio, della cui esistenza m’era già fin d’allora venuta qualche notizia all’orecchio; ma, non vedendo nulla, venni nel pensiero che doveva trovarsi ben elevato e chiuso fra le rupi, laddove esso è segnato sulla carta, cioè un mezzo minuto in longitudine più ad est del nostro meridiano.

Ad ovest la vetta scendeva degradando rapidamente a formare il cosiddetto Judenkofel o Judenkopf, che recentemente trovo ricordato dal Meurer anche col nome di Seenase e che non deve superare in altezza i 2500 m. Sicché hanno torto le due carte austriache (1:144,000 e 1:288,000)31 citate, di mettere il nome di Judenkopf, quasi fosse il più importante monte del gruppo, sotto il cerchiello che segna il punto trigonometrico, omettendo entrambi il nome di Coglians; errore in cui non è incorso il Pauliny nella sua carta citata (1:360,000); come han torto tutte queste carte e quella altresì da 1:86,400 nell’omettere il nome del Kellerwand, che col Coglians rivaleggia per essere forse il punto più elevato del gruppo32.

La discesa

Intanto, secondo il consueto, la nebbia, spinta dalle ordinarie brezze su per le vallate, veniva sempre più addensandosi intorno le vette più umili. Già ognuna delle cime della Carnia avea immerso il suo capo in una specie di enorme balla di cotone o, se si vuole, di enorme turbante; già un immenso anello nebuloso segnava il contorno dei Tauern. Ancora però la nebbia non era giunta fino a noi, limitandosi a cingere il nostro monte a 200 o 300 metri sotto la cima, di un colossale involucro di vapori. Poi i vari gruppi che pure cingevano le vette circostanti, si avvicinammo al nostro, parvero unirsi e in realtà si fusero assieme, e sotto i nostri piedi apparve un vasto piano ondulato, simile a un mare in burrasca, che lentamente sì, ma senza posa, saliva. E, in mezzo a questi cavalloni vaporosi, la vetta del Coglians spingeva nel sereno aere la sua esile cresta, somigliante in tutto ad un gigantesco vascello, che, colla chiglia arrovesciata, navigasse in un mare grigio e infuriato. Pochi colossi ormai gareggiavano con esso. La marea cresceva e noi quindi, per quanto ce ne dolesse, dopo tre ore di aerea dimora, decidemmo di abbandonare la nostra conquista.

Un incidente spiacevole

In un quarto d’ora siamo senza incidenti sul nevaio; ma, appena toccato questo, il Segala, mancatogli un piede, rotolò giù per un’ottantina di metri, andando a fermarsi su delle roccie miste a ghiaia e a detriti, dove avrebbe potuto battere in modo assai pericoloso. Per fortuna, non riportò che lievi graffiature.

In via per Plecken

Terminato il nevaio, raggiungemmo il passo di Monument (2308 m.), pel quale dovevamo scendere nel versante del But e verso il M. Croce. Quivi trovammo i gerli, deposti al mattino, e si fece una breve sosta. Erano le 11.15.

Il passo di Monument, uno fra i più elevati delle Alpi Carniche, è formato di scisti rossi e scuri che franano facilmente sotto i piedi. Approfittando appunto di tale loro qualità, scendemmo rapidamente, franando con essi. Quindi passammo presso certi stagni mezzo coperti ancora da neve, tinta in nero dalla polvere delle roccie schistose portatavi dal vento; poscia in breve raggiungemmo un rio, che apprendemmo chiamarsi rio Major di Collina, e, procedendo lungo il medesimo, in circa un’ora di tempo toccammo la casera detta di Sopra Collina Grande (1771 m.), dove si fece un’altra sosta, dirigendoci poi verso quella detta di Gran Plan o di Val di Collina (1416 m. al Cristo, un po' sotto la casera, ad est), posta sopra un ripiano erboso che separa il rio di Monument dal rio Major di Collina. Da una casera al l’altra stemmo 50 minuti.

Il sentiero qui cala al rio Monument, ove si trova un vero trivio, o un quadrivio: il sentiero che scende da Monument pel rio omonimo, e che seguita quindi ad incontrare il rio di M. Croce e lungo il medesimo cala a Timau, s’incrocia col sentiero che noi seguivamo e che mira al passo di monte Croce. Questo che percorrevamo, più che sentiero, è una traccia di poche orme, segnate attraverso il letto del rio dalle capre e dai contrabbandieri, che vogliono sfuggire i segugi della dogana. Questa volta noi ci dirigevamo a NE attraverso il cosiddetto Mal Pass (1282 m.), che, ad onta del nome, se lo fu in altri tempi, non è oggi un passo per niente pericoloso. Solo che, a motivo del sentiero franoso, in un punto si dovette assicurarlo con tronchi d'albero e sassi, sì che presenta quasi l’aspetto di una vera scala.

V La strada del Monte Croce

Vuolsi da alcuni, e forse con buona ragione, che pel Malpasso transitasse la ben nota strada romana, della quale si sa che oltrepassava il varco del monte Croce. Staccavasi essa dalla grande via, pure romana, della Pontebba, presso Piani di Portis, all’affluenza del Fella in Tagliamento, indi per Amaro, Tolmezzo, Zuglio (Julium Carnicum), ovvero il suo sobborgo d’oltre But (Imponzo), Arta, Paluzza, Timau, il varco del Croce, Mauthen o Muda, e il Gailberg e Lienz (Aguntum), portava da Aquileia nel Norico. Essa è menzionata da un solo fra gli Itinerari, da quello d’Antonino, e porta il titolo da Aquileia a Veldidena (Vilten o Villau presso Innsbruck); ma la sua esistenza e il suo percorso son confermati da iscrizioni, da pietre migliarie e da altre reliquie dei tempi romani.

Iscrizioni e reliquie romane

Fra altro, nel breve tratto di appena 6 chm., che separa la borgata di Timau dal varco del Croce, tuttora si avvertono tre epigrafi33 scolpite nel masso, e notevoli traccie di antiche carreggiate o di costruzioni compiute per iscopo stradale. Due fra tali epigrafi, e cioè quella che comincia colla parola MVNIFICENTIA ed è intagliata in un colossale macigno, posto a mezz’ora dal monte a 1134 m. sul mare, in una spianatella che porta il nome caratteristico di Mercatovecchio (Altenmarkt) e l’altra veramente grandiosa, ma in gran parte logorata, che si trova a un centinaio di passi dalla sella e una cinquantina di metri sopra la strada attuale, spettano ai bassi tempi e accennano ai restauri fatti sotto Valente e Valentiniano, nel 373 dopo Cristo e poco appresso. Ma la terza iscrizione, assai erosa e incisa sul masso fuori di strada e precisamente sopra un sentiero che si dirige a sinistra di chi, movendo dalla parte italiana, ha quasi raggiunta la sommità del varco, è più antica delle altre, come quella che vi fu posta da RESPECTVS (è la parola questa, con cui comincia la iscrizione) servo villico di Saturnino appaltatore delle gabelle dell’Illiria, e può riferirsi al 157 dell’êra nostra. Le due ultime epigrafi accennano ad un ponte, che nei restauri della strada si volle evitato causa il pericolo che presentava ai viandanti, ponte che, secondo il dottor Cumano ed altri studiosi ricercatori, dovea trovarsi appunto nella direzione del sentiero da noi battuto e verso il quale si dirigono precisamente le vestigie della vecchia strada sopra cui pende la epigrafe RESPECTVS. Né è improbabile che il ponte in discorso valicasse appunto il burrato, intorno al quale s’aggira il Malpasso. Da qui al varco del Croce mena oggi una facile viottola, che si svolge ai piedi della conca erbosa, in su della quale sta la casera Collina di Sotto (ca 1370 m.) e che noi percorremmo in pochi minuti.

Il varco del monte Croce è senza dubbio uno fra i più importanti delle Alpi Carniche.

Anzitutto, dopo il passo di Saifnitz o Camporosso (797 m.) fra Tarvis e Pontebba, è la più notevole depressione che traversi la catena di spartiacque fra mar Nero e Adriatico, ovvero le Carniche principali, la cui linea di vetta in questo caso serve di confine tra il regno d’Italia (Friuli, provincia di Udine) e l’impero Austro-Ungarico (ducato di Carinzia). Come avviene poi sovente nelle catene montuose, questa massima depressione si adima accanto alle roccie che rappresentano la massima potenza di sollevamento della catena, cioè ai massi che costituiscono il gruppo del Kellerwand e del Coglians, i quali gli sovrastanno di almeno 1400 m., che è a dire più che il suo livello non sovrasti a quello del mare.

Vera figura di puerto pirenaico, esso intacca con un taglio netto e profondo la linea di vetta, congiungendo così la valle trasversale del But o canal di S. Pietro, colla valle longitudinale della Gail o Zeglia. Ma, in omaggio alla legge degli sbocchi, a tramontana e dirimpetto al passo del monte Croce, sta quello ancor più depresso del Gailberg (970 m.), che taglia in due le Alpi della Zeglia e congiunge due importanti valli longitudinali e parallele fra loro, quella cioè della Gail accennata e quella della Drava.

Il medio-evo

È in grazia della importanza orografica del passo di monte Croce, collocato pressoché a mezza strada fra quello del monte Croce di Sesto o di Padola e quello di Saifnitz, i due estremi delle Alpi Carniche, che io ho creduto di assegnargli la funzione di linea divisoria fra la loro sezione orientale e l’occidentale34. Com’è da attribuirsi alla sua grande depressione e alla sua corrispondenza col varco del Gailberg, se i Romani (e prima di loro probabilmente i Celto-Carni, anzi, a giudicare dalla lapide etrusca di Würmlach, altri popoli) ne riconobbero l’altissima importanza stradale.

La quale si conservò durante il medio Evo, com’è facile dedurre e dai versi di Venanzio Fortunato del VI secolo35, che dalla Drava e da Agunto per l'“Alpe Giulia„ (la quale non può intendersi altrimenti del monte Croce) passava in Friuli; nonché dalla stessa denominazione di Mauthen o Muda, cioè luogo di gabella, spettante alla prima borgata che s’incontra scendendo dal Croce verso la Gail.

D’altronde numerosi indizi e alcuni documenti ne comprovano evidente la esistenza nei tempi più avanzati del medio Evo, allorché i Patriarchi, a difesa del varco e della strada assai frequentata, costruirono o restaurarono nei pressi di Paluzza, la rocca Moscarda36, e più tardi, sotto il dominio veneto, apparendo frequentemente citata e nelle lettere del Savorgnano, e negli scritti di Jacopo Valvasone di Maniago e nelle relazioni dei luogotenenti veneti della Patria del Friuli, anzi apparendo disegnata in molte fra le più notevoli carte geografiche della regione.

Fu in questo secolo, che la importanza di quella strada decadde, specialmente dopo la ricostruzione (1839) della carreggiabile pontebbana, e più ancora dopo che, parallela a quest’ultima, si costruì quella mirabile ferrovia (1879) della Pontebba che costituisce il più breve tragitto fra le linee ferroviarie italiane e le austriache, ponendo Venezia a sole 10 ore da Vienna.

Tuttavia la strada del Croce, in questi stessi anni, fu più d’una volta riattata, essendo acconcia ai trasporti locali e alle comunicazioni fra la Carnia e la valle della Zeglia, per le quali il viaggio per Tarvis e per la Pontebbana rappresenta un giro vizioso ed oltremodo lungo. Ed io stesso nel settembre decorso (1888), percorrendo daccapo la strada del Croce, m’imbattei in pesanti carri di tavole, che trascinati da gagliardi bovi e a ruote incatenate, scendevano con grave pena e non minore pericolo i fortissimi pendii (in qualche punto non inferiori al 15 %) della via ristretta, mal tenuta e peggio riparata, ch’è quanto avanza della storica ed importante strada del monte Croce.

Questo varco poi, come ho accennato, a distinguerlo da quello più occidentale che intercede fra Padola (Comelico) e Sesto (sorgenti della Drava) dovrebbe chiamarsi del monte Croce di Timau, dal nome friulano (i valligiani della Carnia preferiscono la forma Tamau, come quelli della Gail, invece, quella tedesca di Tischilwang o Tischilbong) della borgatella, che sta a’ piedi del monte e sulla sponda del Flum (fiume), chè questo costassù è il nome del torrente But. Essa pure concorre ad accrescere interesse al varco, come quella che è la terza (e forse la meno caratteristica) delle sporadi linguistiche tedesche (Sappada, Sauris e Timau), che s’attrovano nel versante meridionale delle Carniche e che vi costituiscono altrettante curiosità etniche ed idiomatiche.

Il passo di Monte Croce di Timau o Pleckner Pass

Ho accennato che il passo del monte Croce (cui i tedeschi chiamano Pleckner Pass, passo di Plecken) è una vera porta fra due roccie enormi, propaggini, la occidentale dello Zellonkofel (2238 m.), la orientale del Pal Piccolo (1881 m.).

Sul sommo della insellatura e nel bel mezzo dell’apertura che forma il varco, due pali a sbiaditi colori, tinto l’uno in bianco, rosso e verde e l’altro in giallo e nero, segnano il confine fra l’Italia e l’Austria, e una casa in legno serve di dimora e di riparo alle guardie di dogana italiane. Qui alle 4 pom. feci la misurazione altimetrica.

A dir vero, dell’altitudine di questi punto si possedevano parecchi altri dati. Taccio di quello erroneo di 1656 m. adottato dal Di Saluzzo e poi ripetuto dal Mezzacapo, dal Maestri, dall’Antonini e da altri e che certamente spetta al passo del monte Croce di Padola e non a questo nostro, a cui fu malamente attribuito. Ma per quest’ultimo esi stono già il dato dello Stur di 1321 m.; quello del Preftner in 1363 o 1360 m., quello del Mojsisovics in 1304, e quello finalmente del Grohmann in 1260, tutti di provenienza barometrica; poi uno d’incerta provenienza in 1365 m., menzionato dal Wagner e Hartmann. Fra i due dati estremi quindi correva una differenza di oltre 100 m. Sino dal 1873 io ne aveva pure determinato l’altezza mediante un buon aneroide e riferendo le mie misure a Timau con 832 m.: m’eran risultati 1356 m. Ripetuta questa volta la misura col barometro Fortin, m’ebbi la piena conferma del dato ottenuto tre anni innanzi, cioè 1356 m. Qualche anno appresso la carta austriaca 1/75,000, attribuendo a questo passo la quota di 1360 m., con leggera divergenza dai miei due dati e con per fetta coincidenza con uno fra quelli del Prettner (seppure essa non ha adottata la quota ottenuta appunto dal compianto meteorologo carintiano) veniva a fissare con grande approssimazione l’altitudine del varco e in pari tempo a condannare recisamente il dato del Mojsisovics e più ancora quello del Grohmann, erronei notevolmente in meno.

Plecken e il suo re

A chi passa il monte Croce, si presenta uno stupendo contrasto.

Il versante italiano, su cui corre la strada, è tutto brullo, franoso, sterile. Invece, appena varcato il confine, si presenta verde e ridente una bella conca erbosa, che scende imboscandosi foltamente verso Mauthen. A compire il paesaggio, in alto, a destra, appare la vetta del Pollinig (2333 m.); a sinistra quella del Mooskofel (2516 m.), poi quella della Mauthner Alpe (1785 m.); in fondo la catena di spartiacque tra Gail e Drava ed il passo del Gailberg (970 m.), mentre in mezzo alla conca, sorge una chiesetta a metà diroccata, la Madonna della Neve (Maria Schnee); indi un complesso di vasti edifici annessi ad un ospitale albergo, quello del signor Joseph Klaus. Il quale, se da altri venne chiamato il re di Plecken, si merita tal nome, chiamandosi appunto con quello di auf der Plecken la convalle e l’abitato, ai quali i Friulani danno invece il nome di Stali o in Stali, parola che non è veramente la traduzione del vocabolo carintiano, il quale corrisponderebbe più ad una cosa che si mostra, che vien fuori, o ad un abbassamento di terra, di quello che a significare uno stavolo o un fenile, come suona la voce friulana.

La casa di Plecken, mentre è un albergo, è altresì il centro di vasti pascoli ubertosi, di cui era allora proprietario il signor Klaus, una persona di forme gigantesche, di tratto alquanto imperioso e forse un po’ rozzo, ma ricco e potente tanto da sottrarsi alle ordinarie disposizioni di legge, come avvenne allorché, aboliti i pedaggi nella Gailthal, egli continuò a farli pagare egualmente ai carradori che transitavano pel monte Croce, obbligandoli a passare pel suo albergo. Non sembrava dolce di maniere il signor Klaus; ma, come albergatore, era un uomo a modo, com'era una vera fortuna che i suoi milioni non lo avessero distolto dalla sua “Gasthaus„. Così Herr Klaus e i suoi maggiori si erano sostituiti all’Ospizio che, secondo ogni probabilità, quivi sorgeva nel Medio Evo, quando la strada era tanto più frequentata di adesso, anche nel cuor dell’inverno, e che deve quindi aver prestato ottimi servigi ai viandanti, come ne offre di ottimi la Plecknerhaus oggi agli alpinisti che amano salire il Pollinig o il Plengo, o semplicemente godere di quel bellissimo tappeto verde, di quell’aria pura e vivificante.

Si arrivò all’albergo (c.a 1 chm. dal passo) alle 5 pom. Era pieno di forestieri, cosicché per l’alloggio dovemmo adattarvici alla meglio.

La media di due misure fattevi col barometro alle 6 p. di quel giorno e la mattina seguente mi diede per il pian terreno della Plecknerhaus 1217 m., risultato che s’accorda con quello delle misure precedenti del Prettner (1214 m.) e dello Stur (1211 m.), e con la quota (1215 m ) della Carta austriaca al 75,000; non però con quella (1166 m.) data dal Mojsisovics, col quale invece vado abbastanza d’accordo nella ricerca della temperatura della fonte a sud dell’albergo, da me trovata quel giorno di 7° 9 C. (l’anno scorso ai 14 settembre la trovai di 8° C.) e da lui di 6° 5 R.

A Plecken ebbi la fortuna di far la conoscenza del dott. Otto Welter di Colonia, deputato al Parlamento tedesco, egregio alpinista e scrittore, il quale, desiderando di salire il Coglians, accettò la nostra proposta di venire con noi a Collina per indi muovere alla salita colla nostra guida. Così determinammo di percorrere assieme il mattino appresso la valle Valentina, risalendola sino alla sella omonima o Valentino Thörl dei valligiani della Zeglia, per questa sella raggiungere il lago di Volaia o di monte Canale, e per l’analogo passo discendere a Coglians [Collina]. Questo giro, oltre che esserci nuovo, ci evitava di ripetere la strada del giorno prima e ci prometteva nuova e forse più curiosa veduta del monte Coglians e della giogaia, di cui fa cospicua parte.

VI Il Kellerwand e la sua storia

Il dottore Welter mi comunicava delle notizie per me oltremodo interessanti rispetto al gruppo montuoso, il cui studio mi stava tanto a cuore. Fu anzi da lui ch’ebbi conferma come la priorità nelle investigazioni alpinistiche della giogaia, spettava al Mojsisovics ; e seppi come il merito di averne ostinatamente tentate e superate pel primo le vette più elevate e più ardue spettava al Grohmann.

Il Mojsisovics e il Grohmann

Al Mojsisovics37 accadde per la prima volta di vedere quella massa montuosa, ch’egli, seguendo la Carta dello Stato Maggiore austriaco, chiama del Kollinkofel, il giorno 11 settembre del 1863, dal Reisskofel, dalla quale vetta essa gli apparve dietro il Pollinig e di gran lunga dominante su questo monte, pur alto 2333 m., come sopra un minore satellite. Tosto concepiva l’idea di esplorare e di salire quella imponente muraglia calcare, generalmente giudicata assai alta dai valligiani della Gail. Il 21 dello stesso mese egli partiva da Mauthen col signor Ad. Waldner da Dellach e col fabbro del paese, buon cacciatore di camosci, che asseriva di essere stato sulla cima ambita.

La compagnia pernottava a Plecken, donde partiva il 22 alle 4 a., e, pel passo del monte Croce, raggiungeva la casera di Collina Bassa (untere Kollinalm) e Collina Alta (obere Kollinalm), dove pervenne alle 5. Da questo punto, che, secondo il Mojsisovics, è elevato 1567 m., i salitori mossero in direzione occidentale, dapprima per una vallettina, indi volgendo a dritta per un ripiano alternato di frane e disseminato di potenti macigni e per successivi pendii assai ripidi, coperti da edelweiss.

Così raggiunsero il ciglione del Collina, che corre verso sud e che precipita a ponente con pareti verticali verso il circo del Kellerwand, e per tale ciglione senza difficoltà essi toccarono alle 9 la Kollinspitz o, “come la chiamano gl'Italiani, la creta Grande„. Si accorsero però tosto di trovarsi sulla cima orientale e più bassa del gruppo, poiché lungo il pettine, che s’accompagna al confine politico, dirigendosi a ponente, si vedevano le due Kellerspitzen alzarsi ad una elevazione maggiore di almeno 500 piedi (o 160 metri) ciò che loro veniva ad assegnare un’altezza di 2845 m. Tali cime però apparivano separate dal Collina mediante un abisso intransitabile forse in via assoluta e certamente senza mezzi speciali, fra cui una corda, ch’essi non possedevano.

Il Mojsisovics tuttavia trovò di grande interesse l’ascesa del Collina. Da esso partono quattro filoni montuosi quasi in forma di croce: verso ponente il pettine che mena al Kellerspitz; verso mezzodì il ciglione, pel quale erasi compiuta l’ascesa; verso levante quello che, dopo una considerevole depressione, si rialza a formare lo Zellon e poi si divide in due rami, uno diretto al passo del Croce e l’altro a separare la valle della Valentina da quella di Plecken; finalmente quello verso tramontana e verso la valle Valentina. È quest’ultimo che forma l’avvallamento in cui giace il breve ghiacciaio del Collina, chiuso d’ogni parte da alte pareti, salvo a nord, e a cui il geologo austriaco attribuisce un’altitudine fra 5 e 6000 piedi, cioè da 1600 a 1800 metri. Dal Collina esso lo vedeva fortemente inclinato e traversato da grandi e larghi crepacci. Il panorama, sì vicino che lontano, magnifico: notevoli in quest’ultimo le cime dei Tauern dall’Hochnarr all’Hochalmspitz, l’Antelao, le Caravanche, il Terglou e l’altipiano nevoso del Canino.

Compiute le osservazioni ed eretto un ometto di pietra, essendosi il cielo, fin allora sereno, coperto di nubi, che aveano determinato un forte abbassamento di temperatura a - 1°, ad 11 ore abbandonarono la cima. Senonché la nebbia fece loro a più riprese smarrire il sentiero, sicché, avendo deviato verso lo Zellon, non raggiunsero la malga di Collina Alta se non alle 2 pom. e Plecken un’ora appresso.

L’idea di raggiungere poi il Kellerspitz da ponente, allora concepita dal Mojsisovics, fu mandata a vuoto dal tempo nevoso.

Nel libro dei viaggiatori di Plecken si trova una nota di pugno del Grohmann, colla quale il valente alpinista viennese avverte come lo stesso giorno “15 luglio 1868, partito da Plecken, avesse asceso l’ancor vergine e tuttora reputato inaccessibile Kellerwand„, al quale egli attribuisce 9000 p. vienn. (2845 m.) d’altezza (d'accordo in ciò col Mojsisowics), mentre fa merito alla propria tenacità e perseveranza il successo di tale ascensione, “ch’egli non può chiamare facile, abbenché esistano vette più difficili„. Guide Joseph Moser da Kötschach (Catescio) e Peter Salcher da Luggau nella Lessachthal.

Più tardi, io ebbi tra mani gli scritti dell’egregio alpinista viennese, e precisamente quello che porta il titolo “Aus den Carnischen Alpen". In esso v’hanno preziose notizie riguardanti questo gruppo, dal quale certamente era e forse è ancora la migliore illustrazione per quanto riguarda la sua orografia e la nomenclatura geografica. Il Grohmann saliva, e lo vedemmo, il Coglians nel 30 settembre 1865 e ne determinava l’altezza in 2809 m.; il Collina nel 20 luglio 1867, mentre, condotto da Nicolò Sottocorona, credeva guadagnare l’agognata cima del Kellerwand, e lo trovava alto 2530 m. (cifra certamente e di molto inferiore al vero); finalmente nel 1868, e anche questo abbiam visto, dopo molti inutili tentativi, gli riuscì di toccare la cima del Kellerwand. Fu peccato poi ch’egli, a motivo di un temporale, che si addensava rapidamente, non credesse di far uso del barometro per determinarne l’altezza, né potesse servirsi del livello, per esser coperte il più delle vette circostanti. Per questi motivi, l’altezza, che nella sua dettagliata relazione della salita del Kellerwand offre per questa vetta, cioè di metri 2813, è dedotta a vista e presenta un valore discutibile; quantunque io pure, paragonandola a quella del Coglians, non la reputassi molto lontana dal vero. Il dato di 2845 m., segnato da lui sul libro dei viaggiatori di Plecken, naturalmente è quello stesso del Mojsisovics. Però egli medesimo lo corresse dappoi e nella relazione resa pubblica; mentre la quota esagerata venne accettata qua e là nelle guide, anzi il Ball la innalzò ancora, portandola, è vero, in via approssimativa, a 2896 m. (9500 p. ingl.)38 cioè ad un valore più grande di quello del Terglou, arrotondato ed esagerato ancora dal Meurer e dal Rabl a 3000 m..

Dirò poi che il Grohmann, sperimentato che né dal Coglians, né dal pizzo Collina (e qui veramente egli si trovava in errore), né dalla parte della Valentina si poteva raggiungere la vetta da lui presa di mira, allo scopo di compiere la sua impresa, il pomeriggio del 14 luglio 1868 partiva da Plecken, e per la casera ch’egli chiama der oberen Collin, cioè di Collina di Sopra o Collina Alta, toccava la Grüne Schneide, e si portava per Comodo tragitto a passar la notte sul versante della Valentina, in un ripiano erboso, posto a 1707 m. sul mare e prossimo ad uno sperone orientale del Kellerwand. Tale ripiano si può egualmente raggiungere andando per lo Zellon direttamente allo scopo. La mattina successiva, movendo per roccie, zolle erbose e frane e oltrepassata una piccola sella, arrivava al ghiacciaio ch’egli stima alto 6000 p. vienn. (1900 m. c.a) e di cui la parte inferiore solcata da frequenti crepacci e fortemente inclinata, si nascondeva ai suoi occhi. Impiegato circa un quarto d’ora a traversarne la testata superiore, trovò serio ostacolo nel superare il crepaccio periferico, che separa il ghiacciaio dalle pareti del Kellerwand. Raggiunte abilmente queste, a piedi ora scalzi ora calzati, si portò fino al cosiddetto Schnakel, una spalla del Kellerwand ai piedi della cima propria. Un ripido couloir, ripieno di neve gelata, indicò la strada da tenere per raggiungerla. Però sovente i nostri salitori dovettero ripiegarsi sulle roccie fragili e rampicarvisi a piedi scalzi. Così, due ore dopo abbandonato il ghiacciaio, il Grohmann colle sue due guide toccarono la biforcuta cima del Kellerwand. Il temporale, che li minacciava lassù, impedì loro le osservazioni e li fece rapidamente discendere. Aveano appena oltrepassato il crepaccio periferico, che scoppiò la burrasca.

Prima ascesa dell'Hocke

L’ascesa del Grohmann, come fu la prima, così fu, per molti anni, la sola che gli alpinisti potevano vantare come compiuta sul terribile Kellerwand.

In realtà un nuovo tentativo venne fatto fin dal 30 luglio 1877 dall’ingegnere L. Pitacco, assieme ai signori Galante Pietro di Mielis e Antonio Menchini di Tolmezzo. Fidandosi essi della parola del Gajer, al quale sì il Pitacco che io avevamo raccomandato di studiare quella ascensione, si recarono a pernottare in una piccola grotta a circa 200 m. sopra la casera Collinetta e quindi a circa 1570 m. sul mare. La mattina successiva in 3 ore 1/2 raggiunsero facilmente la cima della cresta di Collina; ma, giudicato assolutamente impossibile da lì raggiungere il Kellerwand, e mostrandosi il Gajer affatto inesperto dei luoghi, retrocessero senza arrivare alla meta. Così toccò a loro precisamente quanto era toccato al Grohmann con Nicolò Sottocorona.

Più fortunato di loro fu il signor Hocke di Udine, il quale pervenne sul Kellerwand dal pizzo Collina, per la cresta, mentre il Grohmann come si è veduto, vi montò per la Grüne Scheide e il ghiacciaio39.

Mosse egli insieme con Adam Riebler, un fabbro di Mauthen, alle 5 1/2 a. del 13 luglio 1878 dalla malga Collinetta Superiore (1 ora da Plecken per il passo di M. Croce). Alle 8.10 raggiunsero la cima del Collina. Vista stupenda, ma non paragonabile con quella che offre il Kellerwand; magnifico lo sguardo sul sottostante ghiacciaio. Un crestone strettissimo, solcato da frequenti e profonde spaccature, unisce il Collina al Kellerwand.

È questo (scrive l’Hocke) il crestone che limita verso mezzodì, quasi enorme e trarotta parete, l’elevato ed erto ghiacciaio che scende verso vai Valentina, ed esso appare così frastagliato e minaccioso che finora fu ritenuto impraticabile, tanto che nessuno vi si era arrischiato prima del Riebler che ebbe la fortuna di scoprirlo per caso inseguendo i camosci.40

Lasciata alle 9 la vetta del Collina e legatisi, si calarono per ertissima roccia sulla prima spaccatura, fermandosi su uno stretto spigolo nevoso: l’ultimo passo fu un salto. Poi successivamente con scalate e salti, con veri esercizi da ginnasta, girarono e traversarono altre cinque spaccature coi relativi spuntoni, trovando il cammino sempre arduo e difficile per lisci lastroni di roccia, detriti mobili, ecc. In 1 ora 1/4 la cresta fu percorsa e alle 10.15 stavano sulla punta più alta del Kellerwand. Osservata con un cannocchiale a livello la punta toccata dieci anni prima dal Grohmann, l’Hocke constatò infatti che questa era più bassa. Si recò anche su questa e ci trovò quasi distrutto dai fulmini l’ometto costruito dall’alpinista viennese. Tempo nebbioso, nessuna vista.

Lasciato sulla vetta più alta un ricordo dell’ascensione, partirono alle 11 rifacendo il crestone, e alle 12.15 toccarono di nuovo il pizzo Collina. Alle 2 arrivarono alla malga Collinetta e alle 3 a Plecken.

Il Riebler mostrò qualità da vera guida.

Così il Kellerwand era stata asceso da due alpinisti, tedesco l’uno, italiano l’altro (il quale anzi, per dir così, fece la prima ascensione completa, giungendo sulla sommità per una via nuova e toccando per il primo la vetta più alta) ma sempre con guide tedesche.

I fratelli Mantica

Un mese e mezzo più tardi, il 28 agosto 1878, i fratelli Mantica mossero con una guida italiana, Silverio Nicolò detto Cletz, di Timau, recandosi da questo paese alla casera Collinetta di Sopra (circa 1640 m.), nell’intento di salire il Kellerwand per il pizzo Collina (via Hocke) e discendere per il ghiacciaio (via Grohmann)41. Il Kellerwand a Timau si chiama Cianevate (canovaccia).

Lasciata la malga alle 4 1/4 a. del 29, con tempo bellissimo, in 2 ore 1/4 furono sul pizzo Collina, dove si fermarono 1/2 ora, per passare poi sul crestone che lo unisce alla Cianevate: è lungo forse più di 1 chm., e gira in linea curva prima verso ovest, poi a nord. Cosicché dal Collina la Cianevate è visibilissima.

Ricordata l'ascensione dell’Hocke e rivendicata la scoperta di questa strada al Silverio, da cui il Riebler l’aveva appresa, il Mantica così prosegue la sua relazione:

S'immagini adunque questo crestone che noi dovevamo superare, differente da quanti finora ne vedemmo, perché rotto ben sei volte da spaccati, profondi da 10 a 20 m., tutti franosi e ripidissimi, i quali, pur non presentando veruna difficoltà, stancano ed annoiano terribilmente. All’opposto, nel girare i suoi pinnacoli, s’incontrano grossi macigni, disposti l’uno sopra l’altro con numerose punte e fenditure. La faccenda qui è più seria; ma nessuna grave difficoltà, e mai apparvero necessarie né la corda, né l’aiuto della guida. Dopo due ore di buona ginnastica, giungemmo ai piedi del corridore (couloir), che ci dovea condurre alla vetta e lo trovammo sgombro da neve come tutti gli altri: era lungo e stretto, ma era l’ultimo, e noi lo scalammo febbrilmente.
La più alta vetta della Cianevate era raggiunta alle 9 3/4; .... sulla vetta superba volemmo fosse provata la nostra presenza, lasciando i biglietti di visita, colle notizie più importanti, ben racchiusi in una bottiglia nera, assicurata sulla vetta di mezzo, che la livelletta a bolla riflessa indicava per la più alta.
La qualità della roccia (che compone la cima della Cianevate) è però simile a quella del Coglians, calcare marmoreo del paleozoico; essa ha differente aspetto sui due versanti, meridionale e settentrionale; questo di roccia compatta, colle pareti perpendicolari verso val Valentina, segate dai “coladors„ stretti stretti, senza una frana; quello, al contrario, presenta un ammasso confuso, una rovina di grossi massi, di fenditure e di ghiaie mobilissime, che scendono per parecchie centinaia di metri.
Sull’ultima vetta verso occidente, distante trenta metri dalla nostra, si trovò in una piccola bottiglia bianca un biglietto con queste parole che indicano l’ascesa del Grohmann nel 1868: P. Grohmann aus Wien, Joseph Moser aus Kotschach und Peter Salcher aus der Lukau bestiegen die Kellerwand am 15 Juli 1868. Vi aggiungemmo i nostri nomi e rimettemmo la bottiglia a posto.
L’aneroide per altezze superiori ai 2500 m. non dava nessuna pressione, laonde i dati del Grohmann non si poterono verificare; la temperatura eguale a 14° cent.
Osservato il Coglians colla livelletta, ci si mostrava alquanto più basso, forse 30 m.; la distanza però, 1 chil. circa, e l’incertezza del calcolo potrà far modificare questa differenza approssimativa. Ritenendo il Coglians a 2803 m., si avrebbero così 2830 m. sul livello del mare, da cui risulterebbe esser questa del Kellerwand la vetta più alta delle Alpi Carniche42.
Una conca profonda separava da noi il Coglians; il Silverio, cacciando, v’era una volta disceso, ma non aveva tentato di salire il Coglians.
Di lassù si scopriva un tratto estesissimo di paese; ben disegnate sull’orizzonte apparivano le catene dei Tauern e le Alpi Giulie fino al Grintouz; la val Valentina e quella del Gail sotto di noi; poi le montagne del Tirolo, l’Antelao e le catene dolomitiche; più vicini a noi il Peralba, il Verzegnis al di là della valle del Tagliamento, che noi dominavamo interamente, il S. Simeone, l’Amariana e finalmente le vette dolomitiche del Canino e del Montasio colle Alpi di confine: ai nostri piedi la valle del But e Timau ed i passi di Monument, Gola Bassa e Plumbs.
Il cielo intanto, rimasto sereno sino alle dieci, andava oscurandosi, la nebbia correva verso di noi lungo le sottostanti vallate; ci preparammo a lasciare la vetta. E dopo avere ancora una volta girato lo sguardo sul paese, alle 11 e 1/2 cominciammo a scendere per quel versante che gli alpigiani credono ancor oggi affatto impraticabile.
Non un palmo di neve, la roccia nuda nuda; Grohmann invece, quando dieci anni or sono compì l’ascesa di questo versante, avea trovato molta neve che gli facilitò (!) il cammino43. Proseguivamo assai lentamente e mirando ad ogni fermata il ghiacciaio che vedevamo biancheggiare 300 metri sotto di noi; si scendeva sempre e mai non vi si giungeva. Procedeva mio fratello assicurato alla guida con una corda; io veniva ultimo sostenendomi colle braccia alle sporgenze delle roccie. Ne uscimmo con poche graffiature, e per i lastroni ci avvicinammo al ghiacciaio. Dopo i primi passi ci togliemmo le scarpe, perché la pendenza e la levigatezza non davano presa ai ferri.
Ecco il ghiacciaio: un ultimo salto e ci siamo! Ma un salto impossibile; e per la distanza troppo grande e per vuoto sotto il ghiacciaio, che chissà a quale profondità andava a finire! Trovammo un altro passo dove la roccia era parecchi metri più alta della neve e vi fummo calati colla corda; agli alpenstok ed ai mantelli fu fatto fare un volo magnifico; ultima la guida con destrezza e bravura impareggiabile, ci raggiunse.
Sulla neve prendemmo la corsa e alle 3 e 1/2 ci fermammo dove scorreva l’acqua a 2° 8 del cent.; ne bevemmo in quantità, senza averne a soffrire danno e dopo esserne stati digiuni dodici ore.
Il ghiacciaio è a 2348, dunque 200 metri più alto del passo della Valentina e 771 più della sorgente del torrente Valentina, che molto probabilmente viene da esso alimentato.
Superata la Grüneschneide, ci sorprese la nebbia, poco dopo la pioggia, e per un sentiero roso dalle acque scendemmo in un’ora e mezzo alla casera. Aspettammo che la pioggia cessasse; alle 6 ripartimmo toccando la malga Collinetta di Sotto (ca 1400 m.) e per la strada romana alle 7 e 3/4 fummo a Timau; ripartiti alle 8, arrivammo alle 9 e 1/2 di notte a Paluzza.
A girare l’intero gruppo avevamo impiegato 17 ore, delle quali due in riposi ; credo però che, senza perder tempo, si possa fare la medesima strada in dodici ore.
L’esito felicissimo di questa nostra salita lo dobbiamo in gran parte alla guida Niccolò Silverio detto Cletz di Timau, bravo, premuroso, audace fors’anche troppo, instancabile...

Altre ascese

Ho voluto riportare tanta parte di questo scritto, perché, a mio avviso, completa le informazioni che ho riassunto dalla relazione Hocke per ciò che riguarda il tratto interposto fra il Collina e il Kellerwand, e ne tempera alquanto le tinte, forse soverchiamente fosche, ed in pari tempo aggiunge qualche notizia utile a ciò che il Grohmann dice del ghiacciaio e del tratto che corre fra questo e la cima.

Dopo questa del 1878 conosco ancora quattro ascese del Kellerwand, compiute da alpinisti italiani, della Società Alpina Friulana, condotti sempre dalla guida Silverio.

La prima fra esse (quarta in ordine numerico) fu compiuta da Giacomo Brazzà il 4 agosto del 1880; ma, salvo la memoria di una breve descrizione orale fattami dal compianto e carissimo amico mio, altro non conservo di essa.

Invece, a 23 luglio dell’83, ripeteva ancora tale ascensione il bravo signor Giovanni Hocke. Salita importante questa, ed è la quinta in ordine numerico, per le determinazioni altimetriche in essa compiute. L’Hocke dormiva Timau e battè, sì in andata come in ritorno, la stessa via seguita nel 1878. Fino sotto alle roccie del pizzo Collina, cioè a circa 2470 m, fu accompagnato anche dai suoi ragazzi (da 8 a 10 anni). (Da lettera 24 luglio 1883.)

L’84 segnò due ascese del Kellerwand. La prima (sesta in ordine) fu compiuta dal signor avv. L. Billia di Udine assieme al signor Giovanni Cozzi di Piano d’Arta, proprietario della malga Collinetta di Sotto, dove la compagnia pernottò44. La mattina di poi (1 luglio), ne ripartirono a 3 ore 3/4 per la solita strada, che il Billia chiama “non difficile, ma molto ripida, lunga e monotona, perché spoglia di vegetazione" e alle 8 circa raggiunsero il pizzo Collina.

Il tragitto al Kellerwand, che durò due ore, parve al Billia non solo "difficile, ma qualcosa di molto peggio.

Ho dovuto convincermi che in quel che s’era detto sulla difficoltà di quest’ultimo tratto dell’ascesa non c’era nulla di esagerato, perché, a non aver testa fredda e piede sicuro, c’è da arrischiare la pelle. E un ascesa questa non consigliabile certamente ad alpinisti novizi, e nella quale c’è continuo bisogno della guida.

Soltanto alle 7 della sera il Billia ed il suo compagno, colti nella discesa dalla grandine, erano di ritorno alla casera Collinetta.

L’ultima ascesa (e settima di numero) del Kellerwand a me nota, è quella del signor Edoardo Tellini di Udine (nel 1884) e questa pure presenta molta importanza per le misure altimetriche, alle quali diede campo. Da una relazione privata che n’ebbi, ricavo qualche notizia.

Il Tellini, assieme ad altri alpinisti, passò la notte del 13 agosto nella solita casera di Collinetta; dalla quale partito alle 3.30 a. del 14, in 3 ore toccò la sommità del pizzo Collina e in circa 1 ora e 1/4 compì la traversata da questa cima al Kellerwand, sulla cui sommità poneva il piede alle 8 in punto. A mezzogiorno era già di ritorno a casera Collinetta, senz’essersi menomamente stancato. Egli assicura che, per quanto abbia studiato, non gli venne fatto di scoprire pericoli di sorta. Specialmente per chi, invece di scarpe ferrate, si servisse di “scarpezz„, cioè di scarpe di pezza alla Carnica, la traversata riescirebbe facile e piacevolissima.

Dalle varie relazioni risulta essere il Kellerwand una cima non difficile per un provetto alpinista che voglia ascenderla dal pizzo Collina e in buona stagione; difficile e forse pericolosa per chi voglia ascenderla dalla parte del ghiacciaio. Dico questo, dovendo dare un certo valore comparativo ai giudizi dei signori Tellini e Mantica, dei quali ho potuto apprezzare la forza alpinistica. Credo quindi che la fama di terribilità, da cui viene circondata, dipenda in gran parte dal ricordo dei vani tentativi compiuti dapprima dal Grohmann, dalla deficienza di buone guide, dall’apparente invarcabilità del tragitto fra il pizzo Collina e la cima, e finalmente dal confronto colle altre cime delle Alpi Friulane, ben poche fra le quali possonsi dire difficili o pericolose.

L’altezza del Kellerwand

Le ultime ascese permettono poi di tornare ancora sulla questione dell’altitudine del Kellerwand.

I dati altimetrici che si riferiscono alla sua cima e che io conosco sono i seguenti:

ALT. IN METRI AUTORE METODO E AVVERTENZE
2345 Mojsisovics stima (dal Pizzo Collina)
2813 Grohmann      »      (dal Kellerwand)
2810 Marinelli      »      (dal Coglians)
2830 o 2800 circa     Mantica      »      (dal Kellerwand)
2810 Carta austr. 1/75,000        ?
2767 Hocke aneroide
2756 Tellini      »
2896 Ball      ?
3000 Meurer      ?
3003 Rabl      ?

Ora, un po’ di commento.

Fin dalle prime vanno esclusi dall’esame i dati del Ball (forse un arrotondamento di quello del Mojsisovics) e del Meurer45 e Rabl46 non confortati da nessuna osservazione, neanche dalla semplice stima e nemmeno dall’aiuto di uno strumento. Di più, dalla descrizione fattane, apparisce che né il Meurer, né il Rabl conoscano il gruppo per esperienza propria.

E nemmeno grande importanza io penso si possa attribuire alle determinazioni a stima; non certamente alle tre prime (la mia compresa) fatte ad occhio, e meno che tutte a quella del Mojsisovics, che si trovava situato in una località notevolmente più bassa del punto di cui voleva determinare l’altezza. Chi ha compiuto qualche stima ad occhio delle altitudini relative e poi abbia avuto occasione di verificarle confrontandole con dati attendibili, sa a quali errori enormi si può andare incontro, anche osservando in buone condizioni di tempo.

Di queste misure a stima, la sola che avrebbe un certo peso, sarebbe quella del Mantica, eseguita a mezzo di una livelletta a mano a bolla riflessa. Strumento del resto comodo sì, ma assai imperfetto e che non dà differenze angolari, ma soltanto avverte se il punto traguardato sia posto sull'orizzontale dell’occhio dell’osservatore o sotto o sopra di essa. Quindi non si può attribuire nessun valore assoluto alla differenza di circa 30 m. in più, che il Mantica trovò rispetto al Coglians e ch’egli stesso riferisce in forma dubitativa.

Restano quindi le tre ultime quote, le quali dovrebbero corrispondere ad altrettante misure effettivamente eseguite.

Si dev’essere tuttavia sicuri che la misura di 2810 m. della Carta Austriaca 1/75,000 sia stata effettivamente eseguita? Non si posseggono argomenti tali che permettano di negarlo. Tuttavia sta il fatto che, lungo la zona di confine e al di qua dello stesso, la Carta Austriaca si è servita spesso di quote tolte a fonti diverse. Così il foglio stesso (Zona 19, Col. VIII) che comprende il gruppo in questione per la parte italiana, riporta numerose le quote da me medesimo determinate col barometro e pubblicate pochi anni innanzi che vedesse la luce detto foglio. Aggiungasi che la nomenclatura difettosa del gruppo indica una certa trascuratezza nella costruzione della relativa carta, trascuratezza che autorizza qualche dubbio anche intorno all’autenticità ed alla bontà di altri elementi introdotti nella carta medesima. Per il che io inclino a credere che tale quota non sia se non il dato stesso di 2813 m. dedotto a stima dal Grohmann e arrotondato in 2810 m.

Certamente esso si stacca di molto, cioè di non meno che 43 o 54 metri, dai risultati delle due misure effettivamente eseguite dell’Hocke (2767 m.) e del Tellini (2736 m.). Vero è che queste due misure furono eseguite mediante l’aneroide e con riferimenti successivi. Ma lo strumento adoperato, cioè l’aneroide Naudet (di 12 cent, di diametro) della Soc. Alpina Friulana, è (o almeno era) un buon strumento, da me più volte paragonato e usato con felici risultati; le stazioni di confronto (Timau con 832 m. e casera Collina Bassa con 1366 m.) di altezza sufficientemente accertata e per di più poste a breve distanza; gli osservatori esperti e diligenti; i calcoli da me stesso eseguiti con ogni cura. Aggiungasi che fra le quote così risultanti la differenza è relativamente piccola. Per tutto questo io sarei d’avviso che la media fra questi due ultimi dati, arrotondata a 2760 m., rappresenta molto davvicino l’altitudine del Kellerwand o, per lo meno, è quella cifra, che, allo stato presente della questione, si deve preferire per designare l’altitudine di tale cima.

Altre altitudini

Le due ascensioni dell’Hocke e del Tellini, permisero una più giusta conoscenza altimetrica anche di altri punti del gruppo.

Per es., del pizzo Collina prima dell’83 si possedevano: la vecchia ed incerta determinazione che si diceva trigonometrica e di provenienza dall’Istituto Geografico viennese, comunicata privatamente dall'ing. Ugo Schnorr e che corrispondeva alla cifra di 2722 m.47; poi le misure barometriche del Mojsisovics (2675 m.)48 e del Grohmann (2530 m.), non contando quella di 2591 m. (8500 p. ingl.) del Ball, d’ignota provenienza. Le misure del Grohmann, compiute in quei giorni, sono tutte difettose in meno, come risulta dal confronto delle quote riferibili al passo del M. Croce e a Plecken. Le quote dell’Hocke (2689 m.) e del Tellini (2660 m.) si avvicinano maggiormente a quella del Mojsisovics, sicché la media delle tre cifre (2675 m.) coincide con quella appunto offerta dal celebre geologo austriaco.

Non ho poi argomenti per respingere il dato di 2238 m., che la Carta austriaca più volte citata attribuisce a quel dossone ch'essa chiama col doppio nome di

Cellonkofel
(P. Collmetta)

e del quale il versante meridionale è conosciuto col nome di creta des Pioris, cretta delle Pecore, perché vi vanno al pascolo le pecore della malga Collinetta o Collina Alta. Lo Zellonkofel dista di forse 1 chm. 1/3 verso ONO dal passo di monte Croce.

Epperciò le cifre da preferirsi a rappresentare le altitudini dei punti culminanti del gruppo, secondo il mio avviso sarebbero le seguenti:

Coglians m. 2801
Kellerwand » 2760
Pizzo Collina » 2675
Zellonkofel » 2238

La più elevata montagna delle Alpi Friulane

Con ciò si vede che, allo stato attuale della conoscenza altimetrica del gruppo, io reputo esserne il Coglians il punto culminante di altitudine accertata con sufficiente approssimazione.

Dato questo: il Coglians viene a risultare il punto culminante di tutte le Alpi Friulane, dacché al Jôf del Montasio, al Peralba e al Duranno non si possono assegnare più di 2760, di 269449 e di 2668 m., e questi sarebbero i soli punti estranei al gruppo da noi studiato che potrebbero contendergli la primazia.

Tuttavia non sarebbe esso con pari sicurezza il punto culminante delle Alpi Carniche, una volta che giusta la divisione da me proposta50, se ne estendano i limiti settentrionali alla Drava, imperocché in quella loro diramazione che si suole chiamare col nome di Alpi della Zeglia o della Gailthal, e precisamente nel gruppo del Kreuzkofel, che s’eleva, a mezzogiorno di Lienz, sorge la Sandspitz, alla quale cima la Carta austriaca 1/75,000 assegna la quota di 2801 m., cioè, per singolare caso, un’altezza identica a quella che io reputo spettare al Coglians.

Resta a dire alcunché sull’altitudine delle due casere, che si toccano movendo alla cima, e su quella del ghiacciaio.

Per la casera di Collina Alta o Collina di Sopra (obere Collin Alm) o semplicemente Collinetta, come altri la chiamano, si posseggono le seguenti misure:

Mantica   aner.   1651 m.   Tellini aner.   1625 m.
Hocke    » 1019 m.   Mojsisovics    bar. 1567 m.

Quest’ultima misura si stacca troppo dalle altre, per non ritenerla affetta da un qualche errore d’osservazione o d’altra natura. Le altre, e massime le due del Tellini e dell’Hocke, s’accordano abbastanza fra loro per poter autorizzare ad assumere la loro media, arrotondata a circa 1630 m., come cifra rappresentante l’altezza della cascina.

Per la casera Collinetta di Sotto o Collina Bassa o untere Kollin Alm si hanno due sole misure: una di 1369 m. determinata dal Mantica; l’altra di 1366, dovuta al Tellini; misure che s’accordano mirabilmente fra loro e quindi permettono di accettarne senz’altro la media (1367 o 1368 m.) per quota d’altezza della località.

Quanto al ghiacciaio, che s'appoggia al versante settentrionale della giogaia interposta fra il Collina e il Kellerwand e discende verso val Valentina, il Grohmann, lo vedemmo, gli attribuisce suppergiù l’altezza (media?) di 1900 m.; adottata identica o di poco variata (1900 m. Amthor, 1830 m. Ball) da alcune guide alpine. Il Mojsisovics lo stima elevato fra 1606 e 1900 m.; il Mantica invece determinò l’altezza della testata superiore a 2310 m. Non avendo motivo di credere errata quest’ultima cifra, inclino a ritenere la media altitudine del ghiacciaio trovarsi a circa 2000 m. e quella della fronte a circa 1800 m.

Ma, essendo che questo giudizio è basato sopra elementi assai incerti, lo espongo con tutte le riserve immaginabili.

La sola altitudine da potersi accettare rispetto al ghiacciaio è quella di 2273 m., che si riferisce ad uno sprone roccioso senza nome, segnato sulla Carta Austriaca 1/75,000 quale limite settentrionale della vedretta stessa e a sud quasi perfetto della casera Valentina di Sopra.

VII Val Valentina

La mattina del 21 agosto, poco dopo le 6, lasciammo, insieme col dott. Welter, la Plecknerhaus.

La valle Valentina, verso la quale eravamo diretti, ha il suo cominciamento superiore alla forcella omonima, posta a NNO del Coglians ed imminente al lago di Volaia. Da tale forcella, che nelle carte austriache porta il nome di Valentino o Valentina Thörl, scende verso levante dapprima, poi verso greco e di nuovo verso levante, un vasto e perenne nevaio, che s’allarga e scema in pendio man mano che cala verso la casera Valentina di Sopra. Nel 1876 al 21 agosto la neve si scioglieva 600 a 700 m. a ponente della casera, e in non molto diverse condizioni ebbi a trovarla dodici anni dopo, cioè ai 14 dello scorso settembre. E sì che il 1888 fu anno assai nevoso e copioso di valanghe, che ancora in quella stagione avanzata mantenevano le loro reliquie fin nel fondo della vallata, come le ruine da loro prodotte e l’accatastamento caotico dei legnami da loro portati a valle, rendevano più difficile e penoso e a volte quasi impossibile il procedere.

Dalla casera Valentina di Sopra la valle prosegue verso levante, passando col filone più depresso a mezzogiorno della casera Valentina di Sotto (1237 m.), finché 200 m. più in basso, volgendo con dolce curva a greco, si fonde colla valle che scende da Plecken. Stretta, ma oltremodo pittoresca e abbellita da folta foresta d’abeti, essa si dirige quindi a Mauthen, dove si unisce alla grande vallata del Gail. Uno spumoso e precipitoso torrente d’acque copiose e freddissime ne solca il fondo e risponde al nome di rio Valentina, nome che, così frequentemente ripetuto, forse era quello che la strada romana, riattata sotto Valente e Valentiniano (come afferma taluna delle iscrizioni del Croce) portava nei bassi tempi, e poi (perché no?) passato alla valle, al rio, alle casere e al passo omonimi.

Da Plecken, per raggiungere la vallata, non v’è di meglio del sormontare i bei pascoli erbosi, che limitano il bacino di Plecken a levante e che si stendono sui contrafforti settentrionali dello Zellonkofel, e il secolare bosco di faggi, che fa loro seguito. Così per un discreto sentiero si raggiunge il thalweg e si passa il rio appunto presso alla ca sera Valentina di Sotto.

La valle quivi apparisce melanconica e sterile, almeno in basso, poiché il sentiero sale lungo la sinistra del torrente attraverso grossi macigni che interrompono incessantemente ora il pascolo ora la macchia boscosa. Ma in alto la vista non poteva essere più imponente. A destra una catena interrotta a striscie di verde e di bigio, prato e roccia, che congiunge il Mooskofel col Rauchkofel e quindi col gruppo del Plengo; a sinistra una enorme, spaventevole parete a picco ci mostrava ogni tanto qualche dente e qualche tacca, per la quale spingendo lo sguardo, s’arrivava a colpire alcune delle somme aguglie del Kellerwand e del Coglians. Ma chi dalla Valentina vede sopra la propria testa imminente il gigantesco muraglione non può persuadersi che colassù esista il ghiacciaio, che pur così bene si scorge da Kotschach. A levante la scena ha per sfondo la vetta del Pollinig che copre in parte quella del Reisskofel.

Risalendo, come noi facevamo, la valle, si vede a poco a poco scemare il rio romoroso, finché a due ore da Plecken si arriva alla sua scaturigine. Essa è posta un 300 metri a ponente della casera Valentina di Sopra e pressoché allo stesso livello di questa. L’acqua sgorga ad un tratto copiosa dalla roccia, e fredda: 2°7, essendo 11°7 la temp. dell’aria51. Tale frigidità è causata senza dubbio dal derivare essa per filtrazione dalle nevi circostanti e forse dal ghiacciaio superiore, il che potrebbe anche spiegare la sua abbondanza nel cuor dell’estate, dopo parecchi giorni secchi, e mentre molte sorgenti erano ormai all’asciutto. Misurata quel giorno la sua altezza sul mare, la trovai di m. 1577. La Carta Austriaca assegna alla non lontana casera quella di m. 1571.

Ripreso il cammino, svoltammo a sud-ovest. Qui la valle assume un carattere completamente selvaggio e qui ci si presentò di faccia il nevaio, che si scorge ascendere ascendere fin a terminare alla vetta del Coglians, che nuda e rocciosa, chiude superiormente il panorama. Adesso noi vedevamo dal basso quello spettacolo stesso che, ventiquattr’ore prima, scorgevamo dall’alto di quell’enorme pinnacolo, che ora ci sovrastava. Il nevaio appariva molto lungo. Infatti supera certamente in lunghezza orizzontale il chilometro e mezzo, e, siccome tra la sua base e la sua parte superiore verso il passo della Valentina v’è una differenza di livello di circa 550 metri, così si può dedurre la pendenza inedia pari al 37 per cento. Esso però non rappresenta un solo campo di neve; ma, pari ad un fiume, vari rami o nevai confluenti scendono dalle gole rocciose del Coglians a portargli il loro tributo di neve e di valanghe, cosicché la massima sua larghezza appare precisamente allorché ci avviciniamo alle pareti rocciose del monte e il nevaio di nuovo volge a ponente, ascendendo verso la sella della Valentina.

Il sentiero risale serpeggiando sul nevaio medesimo, e, a quanto asserivano le guide, è frequentato specialmente dagli abitanti del canal di Gorto, che vogliono recarsi nella Gailthal media ed inferiore, quantunque per molti mesi dell’anno sia reso impraticabile e pericoloso dalle abbondantissime nevi52.

Il pendio del campo di neve, che noi percorrevamo, era abbastanza dolce. Si camminava da un’ora, allorché, giunti al punto della massima larghezza, dovemmo traversarlo per portarci sulla costa, che lo limita a sinistra sua, e a destra del nostro cammino. Qui (come mi diceva l’aneroide) eravamo già a 2000 m., e qui cominciavano sulla neve ad apparire segni di un ghiacciaio embrionale; neve gelata e ridotta in lastre cristalline, e crepacci. Posto che perdurassero parecchi inverni molto rigidi di seguito, non sarebbe da meravigliarsi se vi si formasse un vero piccolo ghiacciaio53.

Poco più su facemmo una sosta di una mezz’ora durante la quale il sole scottava fortemente, tanto da far segnare al termometro espostovi oltre i 25°; mentre all’ombra non se ne notavano più di 15°. Rifocillatici alquanto, seguitammo ad ascendere verso la sella, cui alle 10.45 raggiungemmo. Dal principio della Valentina avevamo impiegato circa 4 ore, delle quali una in osservazioni e riposi.

Il passo presenta una vista bellissima. A greco ed oltre la Zeglia, si avvertono le vette del Jauken e del Reisskofel, dei quali monti una parte rimane nascosta; mentre quasi intera apparisce a loro destra la massa del Pollinig. A tramontana alcuni dossi erbosi intramezzati da gole e da roccie rappresentano il Rauchkofel. A ponente scende stretto un nevaio, il cui candore scintillante ai raggi del sole fa strano contrasto coll’azzurro specchio del laghetto di monte Canale e colla lunga serie di roccie brune e grigie, che compongono la massa del Volaia o del Piegen.

Ci trovavamo già ad una notevole altezza. La pressione era discesa a 596 mm. e la temperatura a 13°5; un venticello leggero ci carezzava dolcemente, ma forse un po’ troppo frescamente la faccia. Eravamo a 2148 m., secondo la mia misura, ovvero a 2128 m., secondo quella del Grohmann. Più tardi la Carta austriaca assegnava a questo punto 2136 m.

Il lago di monte Canale

Non dimorammo sulla sella oltre quello che esigeva l’osservazione barometrica, stanteché avevamo deciso di fermarci a prender ristoro al laghetto di monte Canale. Di consueto esso vien chiamato nelle guide lago di Volaia, e passo di Volaia si chiama quel varco, che dal lago conduce al villaggio di Collina e separa il gruppo del monte Coglians da quello del monte Volaia. Ma in realtà il monte Volaia è lontano e dal lago e dal passo, che i valligiani chiamano col nome di Canale, come monte Canale è il nome di quella vetta, che più prossima si specchia nel lago a libeccio di questo, e Canaletta è quello del rugo che dal passo scende ad unirsi al torrente Moreretto. Di più, a ponente del monte Volaia esiste un altro laghetto, dai valligiani detto di Bordaglia, ma sulle carte anonimo, e che, per essere prossimo alla vetta, potrebbe essere scambiato col nastro; e finalmente il monte Volaia è attraversato da un passo, che conduce dalla casera Bordaglia alla casera di Volaia, e quindi a questo più meritamente va attribuito l’appellativo di passo di Volaia, male adoperato per quello che il 21 agosto noi stavamo per attraversare.

Dal passo della Valentina al lago conduce un vallone stretto fra pareti molto alte, specialmente a sinistra, e tanto ripido che noi, in poco più di 15 minuti, saltando e scivolando, lo avevamo già percorso per intero. Esso da cima a fondo è ricolmo di neve, né questa si scioglie se non a una dozzina di metri dal lago.

Raggiunta ormai la sua sponda, cominciai col saggiare la temperatura dell’acqua all’ombra, e mi risultò molto alta, 12°, mentre mi fu riferito che altri l’avevan trovata poche settimane prima di solo 5°. Ai 14 settembre 1888 l’acqua era a 9°, mentre l’aria era a 12°.

La periferia del lago poi apparve di 900 metri, il che non è cosa da poco, qualora si pensi che questo bacino d’acqua è posto a 1959 m. sul livello marino, cioè viene ad essere uno dei più alti laghi alpini delle Alpi Orientali. La sua superficie si può valutare a 5 o 6 ettari. Non sembra che contenga pesci, ma bensì salamandre in copia. Ci fu affatto impossibile valutarne la profondità, la quale non riterrei molto grande a giudicarne dalla inclinazione delle sponde generalmente poco ripide e dagli interrimenti, a cui è soggetto per le frane, che precipitano specialmente da quello sprone occidentale del Coglians, che sulla carte porta il nome di Judenkofel e che, secondo il Grohmann, non ha nome alcuno presso i valligiani.

Il laghetto è copiosamente alimentato dai nevai circostanti. Girandolo, m’accorsi che in realtà ha uno scaricatore sotterraneo, il quale porta le sue acque nel rio Volaia, posto a sua tramontana e dapprincipio presenta una direzione da est verso ovest. Questo giro merita di esser fatto, poiché è bellissimo vedere specchiarsi nell’acqua, man mano che si procede, le varie vette che contornano il lago, e specialmente quella del Judenkofel, che gli sovrasta minaccioso. A tramontana e a maestro il lago è separato dal rio di Volaia mediante un argine naturale roccioso ed erboso, il quale appunto a maestro si abbassa lasciando libero lo sguardo verso la valle di Volaia superiore. Questa corre dapprima verso ponente, volge quindi a tramontana, indi a greco, scendendo nella direzione di Birnbaum, dove si apre nella Zeglia. La segue nella sua totalità un sentiero, che, dal passo di monte Canale conduce a Birnbaum e ad esso, presso la casera Volaia di Sopra, convergono due altri sentieri, che movono da Forni Avoltri verso la stessa meta.

Sul passo della Valentina avevamo trovato predominare gli scisti; qui invece, lungo la costa occidentale del lago appaiono enormi massi di un calcare compatto rosso, che sembrano precipitati dagli sproni settentrionali del monte Canale e che si fermano talvolta in bizzarre posizioni a metà costa. E macchie rosse, quasi arnioni di cinabro, notansi chiazzare i calcari bianchi circostanti.

Ritorno a Collina

A breve distanza dal lago, si apre il passo di monte Canale (confine italiano). Pochi metri sotto ad esso sostammo per un’ora a prender ristoro. Erano le 12 1/2 quando ci movemmo, salendo al valico.

A primo aspetto, sembra che un tempo il laghetto avesse dovuto scolare pel rio Canaletta e che, ad interrompere tale comunicazione e forse a formare il lago, abbia avuto azione la massa enorme di detriti che scende dal Judenkofel, e che sembra distribuita a formare una diga di congiunzione fra questo monte e il monte Canale. Ma in realtà, osservando attentamente, si scorge che l’argine, appena sotto i primi detriti, è formato di roccie in posto e che quindi da questo lato il lago non avrebbe potuto scaricarsi, almeno nelle ultime epoche geologiche.

Perciò esso è da ritenersi appartenere al bacino della Zeglia e alla Carinzia, e difatti spartiacque e confine scendono dal Judenkofel al passo e risalgono ad ovest lungo le creste di monte Canale.

Misurata l’altezza del varco, mi risultò di 1989 m. sul mare, mentre al Grohmann apparve di 2001 m., differenza, come si vede, abbastanza piccola per dar valore ad entrambi i dati. La carta austriaca anche stavolta sta fra i due, assegnandogli l’altitudine di 1997 m.

Fra i passi di confine delle Alpi Carniche, esso è certamente uno dei più notevoli per altezza, non essendo superato se non da alcuno fra i più occidentali. A levante del giogo Veranis, posto tra Forni Avoltri e Maria Luggau, anzi, io non conosco verun passo di confine di altezza accertata che tocchi i 1900 m. I passi di Monument e di Gola Bassa, già da noi accennati, non sono né di confine, né di spartiacque, ma spettano all’Italia e al versante meridionale della catena divisoria fra le acque della Gail e del Tagliamento.

Dal passo a Collina conduce un sentiero erto, ma buonissimo a scendersi, e che attraversa una serie di poggi a metà erbosi, a metà franosi, in alto, tutti coperti di leontopodi bellissimi, di cui facciamo ricca messe. Quel giorno io era stato fortunato coi fiori, poiché nella val Valentina, poco lungi dal giogo, avea raccolto un fiorellino dalle corolle variamente colorate, una Linaria alpina. Del resto, tutta questa regione va famosa presso i botanici per molte specie rare. Se prendete in mano la guida della Carinzia di Wagner ed Hartmann, o quella del Ball, vi avvertiranno che in questa regione s’incontrano il Dianthus barbatus, il Trifolium noricum, la Saussurea discolor, l'Anthemis alpina e tante altre piante rare da fare la consolazione di un drappello di naturalisti.

Camminando molto comodamente, in breve raggiungemmo il torrente Moreretto, così compiendo il giro intorno al gruppo, che ormai ognuno deve riconoscere come il più elevato delle Carniche.

A Collina si arrivò alle 2.40, cioè in circa due ore dal valico di monte Canale, mentre di passo ordinario questo tratto si può percorrere in 1 ora 1/2 o poco più. In complesso, da Plecken a Collina per la strada da noi battuta un buon camminatore impiega circa 5 ore.

Il giorno seguente, da Collina, il dott. Welter salì col Gajer in circa 5 ore il Coglians. Lo ritrovai a Sappada, dove ci avevamo fissato convegno, e dove pochi giorni appresso ci separammo54, dopo aver assieme studiata quella interessantissima sporade tedesca, intorno alla quale sentirei di aver tante cose da dire.

Sarà per un’altra volta. Per questa mi chiamerò contento se qualcuno, dopo avermi seguito benevolmente fin qua, vorrà riconoscere che la più alta giogaia delle Carniche meritava veramente che si riunissero, come ho inteso di far io in questo scritto, le cognizioni e i dati che si avevano sull’andamento delle sue creste, su la postura, l’elevazione e la nomenclatura delle sue vette e sulla storia delle loro esplorazioni, e vi si aggiungessero anche indicazioni sulle valli che la fiancheggiano e sui centri turistici da cui muovere alle principali salite. Ciò non si era ancor fatto nelle pubblicazioni del nostro Club, ed io ho messo ogni studio per colmare in qualche modo (meglio tardi che mai) questa lacuna. Di queste pagine, più d’una forse sarà riuscita troppo lunga e poco divertente, ma non dispero che fra esse abbia pure a trovarvi notizie non inutili qualcuno che, se non mosso dai miei eccitamenti, venisse dai fati condotto a visitare codesto gruppo delle Alpi Orientali, non privo certo d’attrattive e degno per molti rispetti d’esser conosciuto e studiato.

Padova, gennaio 1889.

G. Marinelli (Sezione di Vicenza).

BIBLIOGRAFIA

Carte

  1. Istituto Geogr. Mil. Austriaco. — Carta del Regno Lombardo-Veneto l/86,400. — Foglio G. 2.
  2. Istituto Geogr. Mil. Italiano. — La stessa carta riprodotta fotolit. 1/75,000.
  3. Mayr — Atlas der Alpenländer 1/450,000 (riv. da Berghaus). — Gotha, Perthes, 1a ed. 1860; 2a ed. 1812-73; foglio VI.
  4. Malvolti. — Carta topografica della Provincia del Friuli 1/150,000. — Venezia, 1818.
  5. Marinelli e Taramelli. — Carta del Friuli 1/200,000, con due profili geometrici delle Alpi. — Udine, Passero, 1879.
  6. Pauliny. — Das Herzogthum Kärnten 1/360,000. — Klagenfurth, Leon, 1860.
  7. Taramelli. — Carta Geologica del Friuli (su quella di Marinelli e Taramelli 1/200,000) — Udine, Passero, 1881.

Libri

  1. Mojsisovics. — Der Kollinkofel. — «Mitth. des Oesterr. Alpenvereines» 1863, fasc. 1°, pag 320 e seg.
  2. Grohmann. — Aus den Carnischen Alpen, Volaja-Joch etc. — «Zeitschrift des Deutschen Alpenvereins» vol. 1 (1869-70), pag. 51 e seg.
  3. Marinelli. — Nota sull’altezza del monte Collians (Alpi Carniche). —«Cosmos» di G. Cora, vol. IV (1877), fasc. V.
  4. E. — Der Hauptkamm der Karnischen Alpen. — «Mitth. des D. u. Oe. A.-V.» 1788 n. 1, pag. 31.
  5. Hocke G. — Il Kellerwand o Kellerspitz (Crede di Cialderie). — «Giornale di Udine», 27 luglio 1878.
  6. Montica Cesare. — Salita della Cianevate o Kellerwand. — «Cronaca della Soc. Alp, Friulana», Anno I (1881), pag. 23.
  7. Billia Lodovico. — Salita al Kellerwand o Cianevate. — «Cron. S.A.F.» Anno IV (1884), pag. 89.
  8. Wagner und Hartmann. — Führer durch Kärnten. — Klagenfurth, 1861.
  9. Prettner. — Das Klima der Kärnten. — Klagenfurth, Kleinmayr, 1872.
  10. Ball. — Alpine Guide. Stirian, Carnic and Julian Alps. — London, Longman, Green and Co., 1873; pag. 55.
  11. Frischauf. — Gebirgsführer: Steiermark, Kärnten, Krain etc. — 2° ed. Graz, Leuschner u. Lubensky, 1874.
  12. Gilbert and Churchill. — The Dolomite Mountains. Escursions through Tyrol, Carinthia Carniola and Friuli. — London, Longman, 1864; pag. 184. (Trad. in tedesco di G. A. Zwanziger. — Klagenfurth, Kleinmayr, 1868; pag 182).
  13. Meurer. — Führer durch die Dolomiten. — 4° ed., Gera, Amthor, 1885; pag. 98.
  14. Meurer. — Führer durch die Alpen von Salzburg, Ober-Oesterreich, Steiermarck, Kärnten, etc. — Wien, Hartleben, 1887; pag 229.
  15. Rabl. — Führer durch Kärnten, etc. — Wien, Hartleben, 1884; pag. 128.
  16. Marinelli. — Saggio di altimetria della reg. Vento-orient. ecc. — Torino, Cora, 1884.
  17. Stur und Keil. — Höhenmessungen aus dem Gebiete der oberst. Drau, etc. — «Jahrb. der k. k. geol. Reichsanst.» Anno VII (1857).
  18. Taramelli. — Spiegazione alla Carta geologica del Friuli (citata). — Pavia, Fusi, 1881, pag 33 e seg.
  19. Marinelli. — La più alta montagna del Friuli. — «Pagine Friulane». Udine, Anno I, pag. 177.

Note


  1. La Cas. di Gran Plan o Val di Collina è segnata sulla carta I/86,400, ma senza nome ed è quella alquanto a SE della lettera t nella parola Monument. La località detta Monument si trova 1 minuto di longitudine c.a ad occidente della stessa parola; mentre il passo di Gola Bassa è precisamente a NNE della Cas. Moreretto. Più frequentato è il passo di Plumbs a NNO del M. Crostis. 

  2. Op. cit. 

  3. V. Annuario Statistico dell'Accademia di Udine. Udine, Seitz, 1876; ma principalmente: Osservazioni stratigrafiche sulle valli del Degano e della Vinadia, in Carnia, del dottor T. Taramelli in «Annali Scientif. del R. Istituto Tecnico di Udine». Anno III, 1869, Udine, Seitz, 1869; e spec. la «Carta geologica» citata nella nota bibliografica. 

  4. Memorie della Carnia, Udine, Blasig. 1871. 

  5. Valentinis conte Gius. Uberto. Di alcune opere d'arte d'antichi maestri friulani («Rivista Friulana». Anno V, N. 32, 23, 24 e 25). 

  6. Cecchetti Bartolomeo. La Carnia. Antichità storiche. («Atti dell’Istit. Ven.». Venezia, 1873). 

  7. Grassi Nicolò. Notizie istoriche della provincia della Carnia. Udine, Gallici, 1782. 

  8. Sulla presumibile etimologia e omonimia della parola Gorto, vedi una mia nota nella memoria intitolata: La Valle di Resia e un'ascesa al monte Canino nel «Bollettino del C.A.I.» N. 24, anno 1875, p. 180. 

  9. Il Mommsen (Corpus Inscr., Regio X.ma Italiae; vol. 5°, pag. 178, n. 1865) la riporta col nome di REGIA liberta. A me pareva che si dovesse leggere FRIGIA liberta. Però m’inchino e tiro innanzi. 

  10. Nei miei appunti del 1873 trovo segnali vari frammenti di lettere incise sulle pietre casualmente incastrate in detto selciato, e cioè, oltre quella riportata dal Gregorutti: CVRM che si trova una dozzina di passi prima del sagrato, altra portante le due lettere ΛD, fra l’antica porta ogivale d'ingresso e la scalinata, e qualche altro frammento indecifrabile. Queste reliquie e con loro il carattere di costruzione della chiesa e della torre prossima, nonché alcune rozzissime statue scolpite nella puddinga e che risalgono ai tempi d'un'arte rudimentale e forse preromana, son chiara prova che l’odierna pieve che rimonta al 1464, fu costruita sopra ruderi di edifici anteriori e ben più antichi. E probabilmente quivi sorgeva il castello d’Agrons, la memoria dei cui castellani, secondo il Grassi, risale al 1204.
    Sarebbe anche curioso sapere se il caratteristico nome di Gorto (friul. Guart) che ancora oggi si usa per designare e la pieve matrice di Santa Maria e il canale, risalga da questo a quella, o viceversa. 

  11. In «Archeografo Triestino», citato. 

  12. Eccone il tenore:
    «Viam hanc — passuum millia LXX — ab Utina Tyrolis usque confinia — curribus ante hac inaccessibilem — Aloysius Mocenico — P. F. J. praeses — modicis sumptibus breviore tempore — stravit decoravit aggeribus munivit — pontibus XXX — qua lapideis qua subliciis — junxit — anno salutis MDCCLXII»
    La lapide è scolpita nel monolito, che si trova presso l’Acquatona sulla strada vecchia da Sappada in Comelico. 

  13. Da ciò il motto proverbiale: a Giviàne vadin di tòri ancie lis gialinis; cioè a Givigliana precipitano persino le galline; onde alcuni vogliono abbia avuto origine il noto canto carnico — Oh, rara la me gìalino, ecc., pubblicato dal Gortani, dal Leicht, dall'Arboit e da altri. 

  14. L’appellativo di jôf o jôv o jouf o zouf o zauf nella montagna friulana s’usa sovente per cima (Jòf del Montasio, Jôf Fuart o Wischberg, Jóf di Miezegnot o Mittagskofel, Jòf di Moggio, m. Jouf presso Maniago, Jof del S. Simeone, ecc.); ma, se non m’inganno, si adopera talvolta anche per passo, non tuttavia per indicare una forcella depressa fra due cime, bensì uno di quei valichi che girano attorno la spalla di un monte (confr. Cime di Zauf, presso Forni di Sotto; Jôf di Pianina fra Uccea e Montemaggiore; ecc.). 

  15. Secondo il Pirona m. 1237; sec. Grohmann 1297 m. Altre mis. mie ad aneroide mi diedero m. 1251. 

  16. Sec. Stur e Keil m. 1184, e sec. altre mis. mie ad aner. m. 1202 circa. 

  17. V. Osservaz., stratigraf. ecc. citate. 

  18. Taramelli, Carta geologica del Friuli e relativo vol. di Spiegazione, pag. 33 e seg. 

  19. Di consueto, quando devono portare il sale (la carica più penosa) preferiscono prenderlo a Forni Avoltri, d’onde l’ascesa è più breve e più dolce. Al quale proposito si ricorda la villotta dei Fornesi:
    Lis fantatis di Cullino     (Le ragazze di Collina,
    quant ch’a vegnin ciolli il sâl   quando vengono pel sal,
    mettin su quattri frochettis   metton su quattro forcine
    e si cambin di grimâl      e si mutan di grembial) 

  20. Leggi come lo j francese. 

  21. Allude a un vecchio costume, pel quale le ragazze permettevano al damo di appoggiare una scala e salire a far all'amore sul davanzale della finestra, sul quale egli poteva star seduto, tenendo, a buon conto, le gambe penzoloni all'esterno. 

  22. Escursioni da Collina:
    1 - Da Collina al monte Coglians con discesa a Plecken, ore 9-10. — Da Collina a casera Moreretto, ore 1.30 m.; da cas. Moreretto al Ciadin di sopra Monument, 1/2 ora ; Ciadin in cima Coglians, 2 ore 1/2; dal Coglians a Monument, ore 2; da Monument alla casera di Val di Collina, ore 2; dalla detta casera al Confine, ore 1; dal Confine a Plecken, ore 0.20 m.
    2 - Da Collina alla creta di Collina e discesa a Plecken, ore 10-11. — Da Collina a casera Morereto, ore 1.30 m.; da cas. Morereto al passo di Gola Bassa, ore 1.30 m.; dal passo di Gola Bassa per cas. di Val di Collina e cas. Collina Alta, ore 1/2; da Collina Alta alla cima delta creta di Collina, 2 ore 1/2; dalla cima a Plecken, 2 ore o 2 ore 1/2.
    3 - Da Collina al Kellerwand o creta di Cialderie o Cianevate e discesa a Plecken, 13 o 14 ore. — Lo stesso itinerario fino alla sommità della creta di Collina. Da qui alla, cima della Cialderie circa 1 ora 10 m. e ritorno circa 1 ora 20 m., presentando difficoltà ragguardevoli e pericolo non trascurabile per i novizi.
    4 - Da Collina in val di Collina per Plumbs, ore 3. — Da Collina alla sella di Plumbs, ore 1 3/4; dalla sella o forcia di Plumbs a Val di Collina, ore 1.
    5 - Da Collina al lago di Volaia o di monte Canale, ore 2. 6 - Da Collina a Plecken per la valle Valentina, ore 5 1/2 — Da Collina al lago di Vo laia, ore 2; dal lago Volaia al passo della Valentina (Valentino Thorl), 3/4 d’ora; da questo passo alla cas. Valentina, ore 1.20 m.; dalla cas. a Plecken, ore 1.20 m. — Vice versa: Da Plecken alla cas., ore 1 1/2; dalla cas. al passo, ore 2; dal passo al lago, 1/4 d’ora; dal lago a Collina, ore 1 1/2.
    7 - Da Collina alla vetta della Croda o cretta Bianca, ore 2 1/2 — Da Collina in Valantugnis, ore 1; da Valantugnis in des Bergiariis (nelle malghe) ore 1; da lis Bergiariis in cima 1/2 ora.
    8 - Da Collina al lago di Bordaglia e discesa a Forni Avoltri, 6-7 ore. — Da Collina Valantugnis, ore 1; in cima la gola di Tamer ore 1; da qui in Giromondo, ora 1 1/2: indi al lago di Bordaglia, 3/4 d’ora. Dal lago di Bordaglia a Forni Avoltri, ore 2.
    9 - Da Collina al monte Crostis per Plumbs, 3 ore 1/2.
    Altre gite si possono fare a Sappada in 3 ore, a Comeglians in 3 ore 1/2 sia per Rigolato, sia per Givigliana, Vuezzis e Gracco; a Timau in 5 ore; oltre le salite del monte Volaia e del monte Canale e del Judenkofel, per le quali non ho potuto assumere sufficienti informazioni. 

  23. In circostanze favorevoli, dal Coglians si deve vedere il mare e un bel tratto della pianura veneta e friulana. Certamente esso, il Kellerwand e il monte Canale si scorgono egregiamente da Udine e da buon tratto della pianura contermine, guardando nella depressione formata dai lago di Cavazzo. 

  24. Ball, Alpine Guide. Styrian, Carnic and Julian Alps, citata, pag. 55. 

  25. J. Frischauf, Gebirgsführer. Steiermark, Kärnten, Krain etc. 2a ed.; Graz, Leuschner u. Lubansky, 1874. 

  26. Meurer, Führer durch die Dolomilen, 4a ed., Gera, Amtor, 1885; pag. 98. 

  27. Böhm Aug., Eintheilung der Ostalpen, Wien, Hölzel, 1887, pag. 468 (226). Il Böhm chiama la cima Monti Cogliano

  28. Meurer, Illustrirter Führer durch die Alpen von Salzburg, Ober-Oesterreich, Steiermark, Kärnten etc.; Wien, Hartleben, 1887, pag. 229. 

  29. Rabl, Illustrirter Führer durch Kärnten ecc.; Wien, Hartleben, 1884; pag. 128. 

  30. In friulano la parola créta o crétta (coll'é larga), corrisponde alla voce croda del bellunese e cadorino, e significa propriamente roccia, *sasso, e figuratamente anche cima

  31. Il Mayr, nella sua ultima edizione dell'Atlas der Alpenländer (Ostalpen, Foglio n. 4) pone i due nomi di Kellerwand e di Cogliano, come i più importanti, ma mette quello ad occidente di questo e proprio sopra quello sprone, che corre al passo della Valentina, e questo dove sorge la creta di Collina, invertendone quindi affatto le posizioni. Egli poi assegna al Kellerwand 8660 piedi par. (m. 2808.57), al Coglians piedi par. 8646 (m. 2843.75), con evidente adozione dei dati del Grohmann.
    Nella bella, quantunque vecchia Carta topografica della Provincia del Friuli a 150,000 c.a, dell’ingegnere G. Malvolti (Venezia, 1818), fra il passo del M. Croce e quello del M. Canale, non vi sono se non questi nomi di monti: Vette dei M. di Cogliano, V. Monument, M. Moreretto, M. Golla

  32. ivi 

  33. Vedile riportate tra quelle del Mommsen, Corpus Inscr. Italiae Regio X, vol 5°, ai numeri 1862, 1863 e 1864; pag. 176 e seg. Vedi ancora Gregorutti, Iscris. inedite Aquileiesi, Italiane e Triestine in «Archeografo Triestino», Nuova serie, V, vol. VI, pagina 26 e seguenti. 

  34. V. nel «Bollettino del C.A.I.» N. 54 il mio articolo Le Alpi Carniche. Nomi, limiti, divisioni

  35. Ven. Fortunati Presb. ital., Vita S. Martini, in Mon. germ. hist., Berlino, Weidmann, 1881; pag. 368. 

  36. Marinelli, La Rocca Moscarda; Udine, Seitz, 1876. 

  37. Der Kollinkofel citato. 

  38. Op. cit., pag. 532. 

  39. Vedi l'articolo dell’Hocke: II Kellerwand o Kellerspitz (Crete di Cialderie) nel «Giornale di Udine» del 27 luglio 1878. 

  40. Vedi più oltre. 

  41. Salita della Cianevate o Kellerwand. Nella «Cronaca della Società Alpina Friulana», vol. I (pag. 23), Udine, 1882. 

  42. Vedi più avanti. 

  43. Devesi però ricordare che l’ascesa del Grohmann fu fatta a metà luglio; quella dei Mantica agli ultimi d’agosto. L’Hocke, che compiè la sua, come vedemmo, pure in luglio, trovò ripieni di neve i couloirs interposti fra il Collina e il Kellerwand.
    È noto poi che la neve ora agevola, ma spesso difficulta od impedisce l’ascesa a chi non sia fornito di mezzi per praticarvi i gradini così sovente indispensabili. 

  44. L. Billia, Salita al Kellerwand o Cianevate «Cronaca della Società Alpina Friulana», Anno IV, pag. 89. Doretti 1885. 

  45. Führer durch die Dolomiten, pag. 98. 

  46. Illustrirter Führer durch Kärnten, pag. 128. 

  47. Se tale misura fosse veramente autentica, sarebbe senza dubbio da preferirsi. Ma ho forti argomenti per dubitarne, non essendo mai apparsa in nessuna carta o pubblicazione ufficiale. 

  48. Tre letture riferite alla stazione meteorol. di Lienz. In generale anche le misure compiute dai Mojsisovics in questi dintorni son difettose in meno. 

  49. Punto trig. di 1° ordine del rilievo del Regio Istituto G.M. italiano. 

  50. Op. cit., pubbl. nel «Bollettino del C.A.I.» N. 54. 

  51. Nel settembre 1888, a motivo di vari incidenti che sorsero lungo l’escursione, non misurai la temperatura della sorgente, bensì quella del rio Valentina presso la cas. Valentina di Sotto, e la trovai pari a 5°; mentre ora eguale a 11° quella dell’aria. 

  52. Percorrendolo nel decorso anno, c’imbattemmo appunto in tre operai di Forni Avoltri, diretti a raggiungere per la più breve, cioè pel Gailberg, la ferrovia della Drava. 

  53. Tuttavia tali condizioni non mi parvero per nulla cambiate nel 1888. È vero che il dodicennio spetta ad un periodo di regresso dei ghiacciai. 

  54. D’allora in poi non vidi più il dott. Welter, ma l'amicizia stretta sulle Alpi si mantenne sin che durò la vita dell'egregio uomo, spenta anzitempo quattro anni appresso. Il 25 luglio 1880, il dott. Welter, mentre percorreva con altri il ghiacciaio di Neves (Zillerthal), e per sua espressa volontà procedeva slegato, affondò in un crepaccio da cui, ad onta degli sforzi fatti dai compagni, non fu possibile estrarlo!
    E un altro dei componenti la brigata che nel 1876 percorreva allegra e gagliarda la vai Valentina, Guido Mantica, ci abbandonava nel fiore della gioventù, tre anni sono.
    Oggi, nel ripassare, a dodici anni di distanza, le note ingiallite di quella escursione, mi parrebbe mancare a un sacro dovere se non ricordassi i nomi amati e carissimi dei due amici perduti.