Antonio ROIA

 

La pieve di S. Maria di Gorto e le sue antiche filiali. Note storiche

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Scarica questo file (Pieve Gorto e filiali.pdf)La pieve di S. Maria di Gorto e le sue antiche filiali[Stab. comm. tipog. libr. A. Moretti e G. Percotto, Udine, [1914].]583 Downloads
La pieve di S. Maria di Gorto e le sue antiche filiali

PER IL SOLENNE INGRESSO
DEL M. R.
D. PIETRO GIORGIS
ALLA PARROCCHIA DELLA SS. TRINITÀ
DI OVARO
VIII DICEMBRE MCMXIV

[Premessa]

Carissimo Don Pietro,

Ovaro oggi è in gran festa e per il tuo ingresso come Parroco e Pastore di questa importante Parrocchia della SS.ma Trinità, e per l’inaugurazione dell’artistico maestoso campanile che, per volontà e sacrificio dei parrocchiani tutti, è sorto a rendere più attraente e gaia la vicina Chiesa ed il gentile paese di Ovaro.

A tanta solennità che rallegra con te e col tuo popolo l’antico Canale di Gorto, noi tuoi amici e confratelli, ci crediamo in dovere di partecipare, se tutti non possiamo con la persona, almeno in ispirito.

E per questo che dedichiamo a te oggi queste brevi pagine di storia uscite dalla penna di un tuo conterraneo ed amico, che ama intensamente il suo Canale e la sua vetusta Pieve, e dedicò lungo studio a raccogliere i frammenti della antica storia di questi paesi.

Tu accetta questo nostro modesto omaggio, pegno del nostro affetto e della nostra amicizia, e ricevi da tutti gli augurii più fervidi di lungo fecondo apostolato in mezzo a questa porzione del gregge di Cristo affidato alle tue cure sollecite, al tuo zelo illuminato e prudente. Ad multos annos.

Ovaro, 8 Dicembre 1914.

Gli amici e confratelli

Sac. ANGELO dott. TONUTTI, Vicario Foraneo di Fagagna — Sac. LUIGI ROSSI, Vicario Foraneo di Comeglians — Sac. GIACOMO CAPELLARI, Vicario Foraneo di Paluzza — Sac. VINCENZO RAINIS, Vicario sostituto di Luincis — Sac. MICHELE VIDALE, Parroco di Monaio — Sac. LUIGI ZULIANI, Pievano di Cercivento — Sac. GIACOMO LONGO, Vicario di Silvella — Sac. EMILIO GOTTARDIS, Cappellano di Cludinico — Sac. NICOLÒ FIOR, Cappellano di Liariis — Sac. GIO. BATTA DE PRATO, Cappellano di Mione — Sac. SIMONE TREU, Cappellano di Zovello — Sac. GIO. BATTA BULFONE, Curato di Pesariis — Sac. GIOVANNI SPANGARO, Cappellano di Runchia.

CAPO I. - La Pieve di S. Maria di Gorto e le sue antiche filiali.

I vescovi che, almeno dalla seconda metà del scolo IV, risiedettero in Zuglio, se pur non trovarono già entrato il Vangelo nelle vallate contermini, certo dovettero adoperarsi per piantarvi la civiltà cristiana; onde credo che fin da questi primi tempi Gorto udisse la buona novella, e, se il carattere dei nostri antichi avi non era troppo differente da quello dei tardi nepoti, la novità e divina bellezza del Vangelo dovette trovare presto buon numero di amatori tra i bei monti gortani.

Una tradizione, che ragazzetto ancora udivo ripetermi, dice come un tempo trovavasi un solo prete in tutto il Canal di S. Pietro ed uno solo in tutto quel di Gorto; ed, incontratisi un giorno in cima la Valcalda, facevano reciproci lamenti che il campo dell’uno limitasse quello dell’altro. Non sarà vero il fatto de' lamenti, ma parlando la tradizione di tempi, ne' quali la vallata di Giulio Carnico contava un sacerdote solo, ed assegnandone fin d’allora uno alla nostra, ci dice che ben antica dev’essere la cristianità di Gorto.

Ma, anche lasciando stare il valore della tradizione, pare affatto ragionevole il ritenere che, formatosi relativamente un buon numero di fedeli e forse qualche gruppo non isprezzabile nei piccoli villaggi, — che certo non doveano mancare almeno in Gorto (prendendo questa parola nel senso stretto), — a fin di meglio assisterli e dilatarne il numero, il vescovo lasciasse qui stabile un sacerdote. A ciò dovea indurlo anche la distanza non piccola, se doveasi scendere a Tolmezzo per la valle del Degano, la strada malagevole (se pur v’era un sentiero) se era da valicarsi la Valcalda.

Non crederei quindi necessario aspettare la venuta degli Slavi e la scesa del vescovo Fidenzio in Cividale (anno 730 circa) per assegnare un prete fisso nel Canal di Gorto.

È vero che perdura vivissimo tra noi, come nella vallata di Socchieve, un’altra tradizione, secondo la quale i nostri morti, prima che ci fossero le nostre pievi, venivano trasportati a S. Maria Maddalena di Invillino. Io son tentato di pensare che questa tradizione non sia veridica quanto al trasporto dei cadaveri. La via era troppo lunga e chissà quanto pericolosa. In Canal di S. Canciano mostrano ancora sulla montagna la strada per la quale i Sappadini portavano i morti alla Pieve, valicando las Planas. Questa sarebbe un'enormità nelle stagioni migliori, una cosa affatto impossibile nel tempo delle nevi.

Formatosi un nucleo di cristiani, questi non avranno mancato di provvedersi almeno d'una piccola cappellina, e non sarà stato loro tanto difficile l’avere un campicello, nel quale collocare i resti mortali dei loro fratelli. La tradizione adunque, benché in tal modo esposta, parmi doversi interpretare, non nel senso letterale del trasporto dei cadaveri, ma in quello più largo di una dipendenza spirituale dal sacerdote che dovea risiedere in Invillino. Presa così, si riferirebbe o ai primissimi tempi dell' evangelizzazione dei Carni, quando Gorto non poteva per anco avere un sacerdote proprio, od a tempi assai posteriori, nei quali, mancato il vescovo di Giulio Carnico, il centro della direzione ecclesiastica era trasportato provvisoriamente in Invillino. E forse ebbe luogo una cosa e l’altra.

Se non vi va questa spiegazione, datene un’altra migliore. Incendi, topi, vandali forestieri e nostrani distrussero o saccheggiarono i nostri archivi, onde s’è costretti ad andar innanzi a tastoni nel buio.

La prima memoria scritta dalla Pieve di Gorto è del 10 novembre 1119. In questo giorno il patriarca Voldarico, fondando l’abbazia di Moggio, le assegnava anche le pievi di Dignano e di Cavazzo con ogni diritto di pievania e di tenervi i placiti di cristianità. Le assegnava anche la Pieve di Gorto, ma questa senza il diritto di tener placito. La pieve di Gorto dunque esisteva già. Non si domandi quando fu fondata. Le pievi possono dirsi nate da sé. Un popolo cristiano rurale unito sotto un sacerdote suo proprio, con chiesa sua propria, costituiva nei primi tempi una pieve, senza che fosse necessaria una bolla di fondazione della parrocchia ed una nomina del sacerdote1.

I placiti poi consistevano in questo che l’Arcidiacono patriarcale venuto in visita convocava i giurati delle ville formanti la pieve, si faceva dar relazione dei disordini morali pubblici o notorii accaduti nel loro territorio dopo l’ultimo placito, accoglieva ricorsi e lamenti, esplicava sul clero e popolo del suo Arcidiaconato tutta l'ecclesiastica sua autorità di tutela sulle amministrazioni sacre, di patrocinio sulle vedove e pupilli od altri indifesi, di polizia sui costumi, di giudice nelle controversie, di vindicatore dei delitti. (NaitL’Arcidiacono e la Pieve di Tolmezzo p. 57).

Stando dunque alla bolla di Voldarico, l’Abate di Moggio non avea diritto di tenere placiti in Gorto, che quindi dovea restare sotto la giurisdizione dell'Arcidiacono della Carnia.

Il 15 giugno 1185 Domenico abbate di Moggio con assenso del suo monastero investe Odalrico detto Gusetto, Strabo e Vecellone genero del quondam Giovanni di Mione di tutto il quartese di vivo e morto et de jure bladi ecc. a diritto di feudo del monastero, coi dati pesi (Nait - p. 104).

1228. 9 luglio. Papa Gregorio IX confermando con sua bolla i privilegi dell’ Abbazia di Moggio, inchiude la decima di Gorto, ma non fa parola del diritto di tener placiti (Nait - p. 173).

1299. Trovasi ricordata per la prima volta la chiesa di S. Maria ed il suo cimitero (Gortani - Canal Pedarzo).

1305 12 maggio. Giacomo Cementario e Palma sua moglie, coniugi di Tolmezzo, fanno un legato di tre lire alla chiesa di Santa Maria con obbligo ai Camerari di dare quattro soldi al prete procuranti plebem dictam, quattro a quel di S. Vilico d’Ovaro, quattro a quel di S. Giorgio di Gorto, che pro tempore saranno vicari e rettori di detta Pieve, con obbligo di celebrare una messa al mese (pergamena della Pieve).

Questo documento oltre al farci sapere che a quest’epoca da noi esercitavano il loro ufficio tre sacerdoti, uno presso la pieve, uno ad Ovaro, uno a S. Giorgio, dicendo che tutti erano vicarii e rettori della Pieve, fa capire che quella di S. Giorgio non era già una cura separata, ma il servizio era fatto per così dire in solido dai tre vicarii, viventi separati per essere più pronti ove fosse stato il bisogno senza però trovarsi troppo lontani dalla chiesa principale.

Dov’era questa? Quintiliano Ermacora afferma che, dov’è ora la Pieve, fosse nel 1350 il castello d’Ermanno di Luincis, e descrive minutamente un assedio ed una presa affatto stridenti con questa postura. Non credo possibile che il castello d'Ermanno fosse qui, se pure Ermanno avea castelli quassù. Nessun documento e nessuna tradizione accenna che la Pieve sia stata mai altrove che qui. Il popolo del Canal Pedarzo non meno che quello delle altre cure staccate dice unanime che i suoi morti antichi sono lassù alla Pieve sul colle. E Canal Pedarzo si staccò prima del supposto assedio. Anziché por qui un castello medioevale, non sarebbe più ragionevole il ritenere che la chiesa primitiva di S. Maria sia stata costruita colle rovine dell’antico castellare romano, utilizzando forse anche qualche tratto di muro che poteva reggersi ancora sano? E non fu giudicato improbabile che una parte del campanile sia residuo di torre romana. Ma di questo a miglior agio più innanzi.

Per ragion di chiarezza pongo qui l’ordine col quale nei nostri documenti sono ricordate le chiese più antiche di Gorto.

  • 1299. S. Maria, la Pieve.
  • 1305. S. Vigilio di Ovaro, S. Giorgio di Comeglians.
  • 1310. S. Stefano di Cella.
  • 1316. S. Canziano di Canal Pedarzo, S. Martino presso Luincis.
  • 1319. S. Lorenzo di Clavais, S. Giacomo di Rigolato.
  • 1320. S. Andrea di Zovello.
  • 1322. S. Croce di Luincis.
  • 1323. S. Matteo di Monaio.
  • 1327. S. Odorico di Ovasta.
  • 1335. S. Nicolò di Comeglians.
  • 1341. S. Tomaso di Cludini, S. Nicolò di Uezis, S. Michele di Collina.
  • 1342. S. Vito di Liariis.
  • 1346. S. Giacomo di Pesariis, S. Lorenzo di Forno, S. Giovanni di Frasseneto.

Quanto a quella di Pesariis, si han motivi per ritenere venisse consecrata il 21 oppur il 22 settembre 1344 da Giovanni vescovo di Parenzo e vicario generale del Patriarca Bertrando.

Il 23 luglio 1318 compare un Carismano di Gorto prete e notaio residente in Ovaro. Questi è il primo dei sacerdoti officianti in Gorto, de' quali si conosca il nome. Come tutti i notai di quei tempi, scriveva in latino. Ma aveva un latino tanto grosso e sgrammaticato, che se ne vergognerebbe qualunque principiante.

Due anni più tardi è a S. Giorgio un prete Assalone (note Gortani).

Addì 25 marzo 1336 si presenta un Artrussio vicario di S. Maria della Pieve.

1339. 7 settembre. — Un di Ovaro testando legò otto denari al suo sacerdote, e quattro al compagno di lui residente nella detta Pieve.

Per suo sacerdote qui non si può intender altro che il vicario abitante dal lato di Ovaro.

Il 27 novembre di quest’anno (1339) il Canal Pedarzo domandò all’abate di poter tenersi un vicario proprio, perché la Pieve era tanto estesa e la popolazione talmente moltiplicata che i sacerdoti addetti alla cura non bastavano a tanta gente per amministrare sacramenti, andar in giro, specialmente nell’inverno, ed inoltre accadendo spesso per le nevi ed inondazioni che i bambini morissero senza battesimo, gli adulti senza confessione, Eucaristia, olio santo, e restassero i cadaveri insepolti oltre il tempo conveniente. L'abate Giberto accordò che d’allora in poi nella «cappella di S. Canziano dovesse risiedere un cappellano o vicario da istituirsi da lui ed avesse la cura d’anime per le ville di Sostas, Luch, Prich, Avausa, Prato, Sovia (la parte inferiore di Prato), Plugeria, Troium, Osagis, Pesariis, Tramponolium (che non si sa dove fosse) e Pradompnus, e dovesse inoltre andar alla Pieve nei dì consueti, Letaniis, Processionibus, scrutinio, e fare ogni cosa come avevano sempre fatto gli altri vicarii, e come facevano gli altri pievesani nelle loro Pievi» (not. Ulvino di Udine - Archiv. capit. Udine - atto mancante della fine). Tal concessione venne fatta dopo udito il parere anche dei vicarii Artrusio, Assalone e Carismano.

Vuolsi da quei di Canale che la loro chiesa sia stata la prima a staccarsi dalla Pieve, e che perciò nelle funzioni interparrocchiali di Gorto, al parroco di Prato spetti il posto di diacono. Questo diritto era forse riconosciuto e goduto quando ci si teneva a queste preminenze, e non era entrata la mania di mandar in aria quanto sa di vecchio. Riguardo poi all’essersi per primo separato dalla Matrice il Canale di S. Canziano, abbiamo veduto come almeno da 35 anni trovavasi già un vicario a S. Giorgio. I Canalotti quindi su questo punto avranno ragione solo qualora il vicario di S. Giorgio non avesse avuta a quei dì una cura sua propria, non solo distinta ma nettamente separata dagli altri due residenti in Ovaro e Luincis. Ma probabilmente questa separazione non si maturò che più lardi, ed un po’ alla volta, come pare debba dedursi dai documenti posteriori.

II 25 febbraio 1342 compare Don Iacopo, il primo vicario noto di S. Canziano (perg. della Pieve), Artrussio non lo si trova più, di Carismano si ha notizia fin al 18 aprile 1345, e di Assalone fin al 17 luglio 1348.

La serie dei vicarii continua ma con molte lacune pei secoli XIV e XV; di quelli stessi che si conoscono molte volte si ignora la residenza (Vedi in fine - Serie dei Vicarii di Luincis e di Ovaro).

1367. Verso quest’anno, e probabilmente ancor prima, le ville di Forni Avoltri, Frassineto, Sigileto, Collina ottengono d’avere un cappellano loro proprio per esercitarvi la cura d'anime con dipendenza dal solo abate di Moggio, al quale spettava il diritto di nomina.

Il documento fattone venne presentato dagli uomini delle quattro ville il 2 maggio 1467 a Fra Leonardo Vicario Abaziale e Priore di Moggio, che constatò come quel privilegio cartapecoraceo era vecchio di cento anni e più, e riconosceva e confermava agli abitanti di Sopra ponti il diritto di avere un prete proprio (Wolf, schede, pag. 69) dichiarando ancora che non saranno obbligati a contribuire nulla a nessuno fuori del loro sacerdote, che però sempre si mostrino benevolenti e devoti verso la matrice S. Maria di Gorto (Arch. Arc. Spiritualium Mos. c. 40). Il priore constatava anche come il documento fosse già in parte consunto dai topi o dalle tignuole.

Nello stesso anno 1467 il 25 aprile il Vic. Gen. di Moggio scrive a Pre Donato Arcidiacono di Gorto ed a Pr. Giovanni officiante nella chiesa di S. Giorgio di Comeglians invitandoli a Moggio a render conto delle ingiurie lanciate contro P. Erardo de Alemannia officiante in Forni Avoltri (Arch. Arc. ibid. c. 38).

1368, 15 giugno. — Fu steso un atto notarile in Liariis super pratum ubi fit festum sancti Viti, e (come dice il Gortani: Le vecchie famiglie di Gorto) s’intende già festa da ballo, che non rare volte andava a finire anche quassù fra baci di Nenne e colpi di pugnale, come le sagre napoletane di Piedigrotta.

1413, 1 ottobre. — Pretendendo i vicarii della Pieve che quel di San Canziano dovesse il dì del Natale celebrare in S. Maria, Tomaso de’ Cavalcanti sentenzia che officii come anticamente in S. Canziano e poi lestamente accorra alla Pieve (note Gortani).

1417, 7 ottobre. — Il patriarca Lodovico di Teck ordina al Gastaldo della Carnia di pagare ai beneficiati del Canale di Gorto la biada come segue, cioè metà frumento e metà segala, tolta dai quartesi sequestrati all’abate di Moggio, da cui dipendevano; e ciò perché l’abate non curava di provvedere ai detti sacerdoti. Assegnavansi quattro staia e mezzo per ciascuno ai due sacerdoti della Pieve di S. Maria di Gorto, e al sacerdote di S. Giorgio di Gorto, e a quel di S. Giovanni di Frassineto e del Canal di Pesariis quattro per ognuno (Joppi - ex manusc. coaevis - V. Nait).

Di sacerdoti a Rigolato ed a Monaio non si parla. Dunque questi due paesi non s’erano peranco staccati dalla cura centrale. Appare invece come a sé quel di S. Giorgio, mentre s’intitolano dalla Pieve solo i primi due.

Anche un documento del 27 settembre 1421 ricorda quei due sacerdoti che nella Pieve di Gorto fanno continua residenza com’è loro dovere.

1443, 16 febbraio. — Zaccaria da Ferrara governatore dell’Abbazia di Moggio affitta il quartese di Gorto per 48 marche di soldi all’anno (V. Nait, a pag. 106).

1454, 13 aprile. — In Comeglians, nella sala della casa degli eredi del fu Giovanni Marangone, dinanzi a Ser Lodovico di Colloredo, gastaldo della Carnia, sedente in placito pro tribunali comparve Giacomino di Bartolomeo di Ovaro procuratore degli Uomini e della chiesa di S. Vilio di Ovaro, dicendo che essi uomini comprarono in altri tempi certo terreno per fare una casa pel loro sacerdote, ed, essendo tutti pronti a far la parte loro, tranne gli uomini di Zovello consorti e parrocchiani e sudditi, e dovendo il sacerdote di Ovaro servire anche quelli di Zovello, domandò venissero i Zovellani costretti a prestar essi pure l’opera loro. Cristoforo di Zovello, nunzio della sua villa rispose che, venendo il sacerdote lassù, essi gli pagano le spese la sera ed il pranzo al mattino e quelle offerte che vogliono; - che que' di Ovaro, se hanno la spesa del costruir la fabbrica; hanno anche il comodo di aver lì pronto il sacerdote. Allegate le proprie ragioni e difesele da una parte e dall'altra; il Gastaldo dichiarò che i Zovellani non erano tenuti a concorrer nella spesa (perg. della chiesa di Zovello).

Zovello con Monaio avrebbe dovuto, per la maggior vicinanza, far parte della cura di S. Giorgio. Non saprei qual ragione trovare a spiegar questa dipendenza dal vicario d'Ovaro, se non fosse che allora da noi le cure venissero delimitate, più che da decreti dell’autorità, dalla volontà o capricci dei popoli. Se ancora regnano animosità fra certi paesi contermini, in ciò non sarà stato differente il mondo d’allora, e forse era peggio; e forse a tenersi da una parte anziché dall’altra furono alle volte indotti anche dalla simpatia od antipatia per questo o per quel sacerdote. Di simili irregolarità nelle divisioni delle cure si ha un bell’esempio nella parrocchia di Rivalpo, che nel 1530 servivasi del prete di Sutrio lasciando i più vicini di Zuglio e di Piano, mentre tenevasi soggetta a questo Lovea. (carte arch. par. Rivalpo). Anzi l’esempio dura tuttora in Arta soggetta a S. Pietro di Zuglio, mentre Cedarchis e Cadunea sono soggette a Piano.

È vero che nel 1466 il 26 giugno, gli uomini di Zuviel domandano che il sacerdote officiante in Cercivento amministri i Sacramenti nella loro Chiesa e celebri, perché sono troppo distanti di Ovaro. Ma il Vic. di Moggio non concede. (Arcv. Arciv. Spiritualium Mosacensium I c. 8 e 9).

Si sa però che già nel 1466 il 27 luglio, Fr. Leonardo Vic. di Moggio ordina a P. Nicolò officiante in Ovaro di portarsi a Zovello a celebrare ed amministrare i sacramenti, cioè nei mesi d’estate una Messa per settimana, e nei mesi d’inverno ogni 15 giorni, e poi nelle feste degli Apostoli, di più il giorno di S. Andrea e nel giorno della Dedicazione della Chiesa di Zovello, e dà facoltà a quelli di Zovello di farsi amministrare i sacramenti da qualunque altro sacerdote. Stabilisce poi che quelli di Zovello debbano tenersi sempre e come sudditi della Pieve di S. Maria di Gorto (ivi c. 14 e 15).

E per provvedere meglio alla cura di quei di Zovello, nel 1467, 7 ottobre, Pr. Mattia officiante in Ovaro è obbligato a lasciare un prete in suo luogo ogni qualvolta si assenta, sotto pena di una marca di soldi, perché sia provveduto a che quei di Zovello non muoiano senza sacramenti. (Arch. Arciv. Spiritualium Mos. I, c. 61).

Ma quei di Zovello, si vede che non sono molto coutenti del vicario di Ovaro, il quale — data la lontananza e le strade malagevoli — non potea certo accontentarli troppo; ed ecco il 28 giugno del 1469, visitando, il vicario di Moggio Fra Leonardo, la Chiesa di Zovello, il popolo approfitta dell’occasione per rinnovare a lui stesso la domanda del 1466, di passare cioè sotto la giurisdizione del sacerdote officiante di Cercivento. Ma la domanda ottiene di nuovo risposta negativa, (ivi c. 13).

Questi continui rifiuti persuasero il popolo di Zovello a cercare altra via, ad unirsi cioè col vicino Monaio ed avere così l’assistenza spirituale da quel sacerdote.

Mentre infatti Zovello era unito al vicario di Ovaro, Monaio sembra fosse unito al vicario di san Giorgio. Non si sa spiegare altrimenti il Canone che fu loro imposto, come risulta dal seguente documento:

1469, 27 aprile. — Essendovi controversia fra i parrocchiani di Santa Maria e di S. Giorgio lamentantisi di certa concessione fatta dal vicario dell’abazia alle comunità di Monaio e Zovello, e sostenendo queste d’essere esentati dagli oneri ed angherie degli uomini della cura di S. Giorgio; il conte Guido di Porcia per delegazione avuta sentenzia che:

  1. quei di Monaio ad onore di S. Giorgio e per salute dell’anima loro sieno quindinnanzi tenuti a dare alla chiesa di S. Giorgio un soldo per famiglia secondo il solito.

  2. non sieno più obligati a dar al monaco di S. Giorgio nulla di quanto erano soliti di contribuirgli prima della concessione ottenuta; perché non ha più la fatica dell’accompagnare il Corpo di Cristo e gli altri sacramenti dalla sua chiesa a Monaio.

  3. essendo soggetti alla chiesa di S. Matteo, non possano venir eletti in camerari di S. Giorgio, perché obligati a tutti gli oneri spettanti alla Matrice.

  4. possano ricevere il Crisma o dal Monastero di Moggio o dalla Pieve o dalla chiesa di S. Giorgio, e non si possa loro negarlo, non essendo lecito far contese pei sacramenti.

  5. se alcuno per sua devozione volesse far celebrare dal cappellano di S. Giorgio una messa in S. Matteo, quei di Monaio od il loro sacerdote non possano opporsi; né quei di S. Giorgio, se i Moneani volessero farne celebrare in quella chiesa.

  6. così nemmeno sia impedito che quei di Monaio possano far cantare messa dal loro cappellano in S. Maria (Stampa ad lites - Pieve).

Già a questo tempo Zovello aveva cimitero suo, poiché fin dal 4 febbraio 1466 Cristoforo quondam Micolla di Alvarins abitante in Zovello, testando sceglieva di venir sepolto presso la chiesa di S. Andrea (perg. Ch. Zovello).

1473, 1 gennaio. — Ser Bertolo di Ovasta capitano grande del Quartiere, il capitano piccolo delle ville di Ovasta, Mione, Luint, Zella, Agrons e Muina - quel del Canal Pedarzo, quel delle ville di Mieli, Tualiis, Noiareto e Calgareto, - quel delle ville sotto la chiesa di S. Giacomo, quel delle ville di Sopraponti, ed il cameraro di S. Maria nominano procuratori per gli affari della Pieve con Pietro Bazinello di Mione per certo maso (cassa 3 chiavi, Pieve - note Wolf).

Il documento mostra come in questo tempo esistesse anche la cura di Rigolato.

1476. Negli alti del notaio Andrea Vigna (Arch. not. Udine) trovasi copia delle partite di Pro Pellegrino quondam Odorico di Palù di Monaio beneficiato in S. Matteo ed esattore del quartese per l’abate. Tali partite vanno dal 1476 al 1500. Le famiglie del Canal di S. Canziano paganti quartese in quelli anni oscillano fra 74 ed 88, un quinto delle attuali ed anche meno. Ed essendo allora poca la popolazione è da supporsi che pochissime fossero le famiglie nullatenenti.

Pare che i vicarii o curati delle ville di Gorto staccatesi dalla Pieve amassero di allargare le loro prerogative. A questo studio di decentramento opponevansi i due vicarii di S. Maria e forse più dei vicarii i governatori o (come diremmo oggi) gli amministratori della chiesa, i quali temevano che col diminuirsi del concorso de’ popoli scemassero anche le entrate. Naturalmente questo motivo, che era il più forte, non lo si confessava, ma allegavansi ragioni d’ordine, di divozione, di rispetto alla Matrice, e portavansi innanzi teorie di diritto canonico più o meno calzanti al caso concreto. Le lagnanze mandavansi al vicario abbaziale, che udite le parti, promulgava sentenze. Così ne uscì una contro i curati il 29 agosto 1529, una seconda il 22 aprile 1532, una terza il I maggio 1536. Questa fu data in Ovaro sotto il portico della chiesa di S. Vigilio, sedendo pro tribunali Battista Liliano da S. Daniele Vicario generale in spiritualibus dell'abate. I sindaci, camerari e popolo della Pieve fecero le loro lagnanze perché i cappellani di S. Giovanni Battista di Frasseneto, S. Giacomo di Rigolato e S. Matteo di Monaio, i quali eran tenuti a venir alla Pieve ogni anno nel sabato delle palme ad afficium munus puerorum e nel sabato santo, pare fossero negligenti; e così anche i cappellani di S. Giorgio e S. Canziano, i quali non venivano il sabato e la domenica delle palme, il sabato Santo e nei dì della Pasqua, Ascensione, Pentecoste, Natale ed Epifania, e nell’Annunziazione, Purificazione, Natività ed Assunzione di Maria Santissima, mentre anche tutte le donne di quelle parrocchie sono tenute a venire coi fanciulli ad officium munus. Il vicario sentenzia che i cappellani di Frasseneto, Rigolato e Monaio debbano intervenire nel sabato delle palme e sabato Santo, dandosi però loro la consueta mercede: sieno sciolti dall’obbligo di accorrere alla Matrice in altri giorni. Le donne di dette tre cure debbano ogn'anno o venire, com’è antica consuetudine, coi loro fanciulli, od offrire un cero del valore di dodici soldi. I cappellani poi di S. Giorgio e S. Canziano sian tenuti ad accorrere alla Pieve annualmente il sabato e la domenica delle Palme, il sabato Santo, il dì della Pasqua, Ascensione, Pentecoste, Natale, Epifania e nelle quattro feste predette della Madonna. (Stampa ad lites - Pieve).

In che consisteva quell'officium munus puerorum?

L’officium puerorum come risulta dal Rituale del Patriarca Lupo (Museo di Cividale) e dal Rituale Ecclesie Glemone (sec. XV, Biblioteca Civ. di Udine), era lo stesso dello scrutinium parvulorum che nella Chiesa si usò fino al secolo X per preparare al battesimo i catecumeni. Generalizzato l’uso del battesimo privato, nella diocesi di Aquileia si mantenne l’antico costume fino al 1595, riducendo però — non si sa quando, ma certo prima del secolo XV — ad una sola volta l’obbligo ai genitori di condurre i loro bambini all’antica Chiesa battesimale cioè alla Pieve, alla quale erano tenuti secondo i luoghi e la consuetudine, a dare un contributo in denaro o generi.

Negli atti dell’Archivio Arcivescovile di Udine si incontrano durante il sec. XVI parecchie proteste da parte delle filiali, o per la difficoltà del viaggio o per i pericoli di carattere igienico ai quali potevano andar incontro i bambini per togliere un tale uso, che fu tolto poi nel 1595 dal patriarca Francesco Barbaro, quando introdusse il Rito Romano in tutta la Diocesi.

Negli ultimi tempi la cerimonia consisteva nella celebrazione di una ss. Messa speciale per i bambini il sabato precedente la Domenica delle Palme, durante la quale venivano anche benedetti.

Costumasi ancora in Canal Pedarzo portar in processione al venerdì santo i bambini d’un anno o lì presso vestiti d'abitini nuovi, infioccati e coi volanti (cun trips). Tal uso potrebbe essere un rimansuglio di quell’ antico officium puerorum.

Il 15 luglio 1540 il vicario abaziale sentenzia che il vicario di Ovaro non può assentarsi, ed il domani fissa l’ordine col quale quei delle diverse cure devono procedere quando ai funerali voglion invitare, oltre il proprio, altri vicarii (Sched. Wolf).

Il dì 1 settembre 1542 Fra Dionisio Savorgnano, dell’ordine dei minori di regolare osservanza, guardiano del convento del sacro monte Sion testificava che Acazio Chatulino di Venzone, sacerdote della diocesi aquileiese avea visitati i Luoghi Santi. Reduce in Gorto, ov’era stato vicario di Luincis, e fu poi vicario di S. Giorgio, Don Acazio largheggiò con tutte le nostre chiese con reliquie. Alcune di queste ora faranno sorridere. La fede di quei tempi non facevasi da tutti passare pel crogiuolo della critica.

Essendo morto Don Francesco Carlevariis vicario d'Ovaro, i comuni di quella cura elessero per loro sacerdote Don Zuane di Piazza, e lo presentarono al vicario abaziale, che il 19 gennaio 1593 lo confermò per tale uffìcio (Gortani, in Cercivento p. 235).

Messo al sicuro il proprio quartese, gli abati non furono stretti nel concedere prerogative ai popoli di Gorto, accordarono si tenessero vicarii o cappellani proprii; ma se li procacciassero da sé, e sopratutto se li pagassero di tasca propria. La conferma abaziale devesi certo ritenere per una istituzione canonica vera e propria, nonostante i nostri vecchi vantarono e difesero sempre come loro diritto il privilegio di eleggere i proprii sacerdoti ed anche di amovere, cosa stridente col concetto di beneficio ecclesiastico.

Addì 15 gennaio 1511 il cameraro ed il sindico di S. Matteo di Monaio, col consenso e per volontà degli uomini di Monaio e Zovello elessero in loro sacerdote e pastore dell’anime loro per un anno nella cura della detta chiesa di S. Matteo e di S. Andrea di Zovello il venerabile prete Domenico Mraviacho (?) di S. Vincenzo d’Istria accettante coll’onere ed onore del beneficio, come l’ebbero i suoi antecessori. Oltre i legati, il popolo colle chiese dovean dargli 50 lire di soldi, 64 quartari di frumento e segala (metà per sorta), unum logiam (lôze) di legna per ogni famiglia, la casa di abitazione, un orto chiuso sufficiente. Stabilivasi però che, qualora la persona e la condotta del sacerdote non piacessero al popolo, questo potesse licenziarlo, avvertendolo però un mese prima che l'anno si compisse. E viceversa il sacerdote, non piacendogli di fermarsi in detta cura, avverta un mese prima acciò il popolo possa provvedersi di sacerdote, ed egli stesso di beneficio. E ciò doveasi osservate in futuro di anno in anno.

Basta dare un'occhiata alle serie di sacerdoti fino a questo secolo per vedere com’erano ex omni tribu et populo et natione, e relativamente pochi sono dei nostri. Dovea esservi qui grande carestia di preti. E quindi non è meraviglia se la cura di Ovaro, rimasta senza vicario, otteneva il 27 novembre 1523 da Francesco Lusio vicario abbaziale tre mesi di tempo per scegliersi e presentargli un vicario idoneo. Al 28 gennaio non era peranco stato trovato, e si concede una proroga sino a tutto marzo.

Questa elezione, che a Monaio facevasi per un anno, forse nelle altre cure era già, e certo fu poi, ad triennium, e tale si conservò fino alla soppressione dell’abbazia, quando ogni vicario o curato si nominò parroco e passò per vero beneficiato.

Contro la prerogativa della rinunzia e conferma triennale sostenuta dai popoli, tentò recalcitrare nell’aprile 1615 Don Leonardo Mirai curato di S. Giorgio. I comuni della cura lo citarono davanti a Placido Quintiliano arcidiacono della Carnia e vicario abbaziale perché, scaduto il triennio, né dava rinunzia, né domandava conferma, ma voleva continuare nell’ufficio suo. Allegarono le rinunzie fatte da Don Salvatore de Secretis curato di S. Giacomo nel 1574, da Don Francesco Balbino curato di S. Giorgio nel 1564, un’elezione di curato di S. Matteo nel 1596 fatta con obligo di rinunzia; produssero anche una sentenza criminale fatta contro il Mirai in occasion della morte di certa Susanna di Pustet. Il 3 marzo 1616 fu promulgata la sentenza. Fabio Quintiliano appoggiandosi alla decisione del concilio di Trento pronunziò che il Mirai non era tenuto a rinunziare il beneficio nelle mani dei comuni, ma in quelle dell’ordinario, cui spetta la collazione, e visto che lo stesso Don Leonardo teneva tal beneficio da 19 anni. I rappresentanti del popolo non accettarono la sentenza, riservandosi di studiarvi su. Probabilmente la sentenza stessa fu dal superiore cassata, non tenendo il decreto del concilio perché vero beneficiato e pievano era l’abate, non i vicarii o curati. A pensar ciò sono indotto dal vedere come in Ovaro, Luincis, Prato, Monaio, si continuò nel sistema della rinunzia triennale, sistema che certo quei vicarii o curati non avrebbero accettato qualora il deliberato tridentino fosse stato in loro favore. Ma fosse o no modificata la sentenza, il Mirai la durò a S. Giorgio fino all’anno 1634.

Il giorno 15 settembre 1567 Bartolomeo di Porcia si trova personalmente in Ovaro in visita speciale per le controversie dei sindaci della Pieve contro gli uomini delle cure di S. Giorgio e S. Canziano, perché questi vengano costretti come membri soggetti alla Pieve a venire coi loro fanciulli ad officium munus come per antica consuetudine il sabato delle palme, a senso della sentenza 4 luglio 1533; ed inoltre i sacerdoti delle dette due cure debbano intervenire ai divini ufficii in S. Maria nei dì fissali dalla sentenza stessa. I popoli di S. Giorgio e S. Canziano domandano venga rigettata l'istanza quanto al portare i bambini alla Piove, perché in causa di ciò eran successi moltissimi inconvenienti tra le loro donne, ed alcuni bambini eran morti. L’abate toglie l’obbligo del venire, ma per ricognizione della matrice debbano pagare (come le cure di Frasseneto e Rigolato) un cero da limitarsi a seconda della qualità del viaggio. Pel curato di S. Giorgio, il suo avvocato disse ch’egli avrebbe voluto venire; ma il cameraro ed altri gliel'avevano proibito dicendogli facesse l’officio suo nella chiesa di S. Giorgio. Il curato di S. Canziano (Don Antonio di Roja) disse che la distanza dalla Pieve era troppo grande, ch'era tenuto a far prima la funzione nella sua cura, che il mezzodì passava prima ch’egli avesse fluito (e ciò è probabilissimo, data la interminabilissima lunghezza del Kyrie cantato nella forma gortana antica), che non può attendere in due luoghi, e quindi dev’essere alleviato da tal peso.

Le ragioni dei due curati non furono giudicate buone dall’abate, che li obbligò ad andar alla Pieve colle cotte nei dì stabiliti, ed inoltre condannò a 40 soldi di pena il cameraro di S. Giorgio per la proibizione data al suo sacerdote. (St. ad lites - Pieve).

Ma col passar del tempo anche questo correre a S. Maria diventò raro e poi finì.

Negli ultimi mesi di quell’anno 1567 o nei primi del seguente accadde in Gorto un'innondazione, la quale fra altro devastò certi beni che l’Abazia possedeva in Comeglians, ed affittava ad un Leonardo q. Pietro del Dogano (not. Agostino Varisco - A. N. U.).

Il 26 gennaio dell’anno 1570 l’abate stesso affittava per 195 ducati da L. 6:4 il quartese di Gorto a Ser Vitale q. Pietro di Villa di Carnia ed a Ser Tomaso q. Antonio di Palù abitante in Tolmezzo (not. Ag. Var.).

Addì 20 maggio 1583, trovandosi in Osais in occasione di visita, Giacomo di Rudo (?), protonotario apostolico ed abate di Moggio, ad istanza degli amministratori della Pieve condanna le chiese di S. Vigilio di Ovaro e di S. Antonio di Mione a sottostare ad un terzo delle spese per la visita stessa (carte della Pieve.)

Placido Quintiliano, Arcidiacono di Tolmezzo e Vicario abaziale, il 10 marzo 1615 ordina al cameraro e sindaci della Pieve di non vender, mentre si celebra la Messa od altri divini ufficii, olio o candele od altre cose, che disturbano la divozione e dei celebranti e degli uditori; e commina loro la pena d'esser privi dell’ingresso nella Chiesa santa (Archiv. Arcid. Tolmezzo).

Il 13 maggio 1683 nella casa di Giacomo Agarinis in Ovaro si prese una bella decisione per ravvivare l’union dei popoli gortani. Da molti secoli, con non ricordata origine, in Gorto solevano un per famiglia il lunedì delle rogazioni partir dalle loro cinese colle loro croci accompagnati dai curati, unirsi alla chiesa d. S. Martino, di qui andar alla Pieve e tornar a S. Martino, ove ascoltavasi la messa. Quindi i governatori della Pieve distribuivano un pane ed una bozza ili vino a cadauna famiglia.

Essendosi dopo il 1645 lasciata cadere tal consuetudine, si decide di ripristinarla. Si stabilisce perciò che il lunedì ognuno sia pronto di buon mattino, parta la processione dalle chiese col curato e colle croci, si canti il vangelo ne' luoghi soliti, intervenga per ogni famiglia una persona sufficiente (ossia non un semplice ragazzo), sotto pena di L. 1:4 da devolversi alla Pieve per ogni famiglia mancante. I merighi non manchino. Le processioni di Monaio, Rigolato, Sopraponti s'uniscano a S. Nicolò di Comeglians, e col curato e popolo di S. Giorgio, cantando un vangelo per ciascuno, vengano a S. Martino. Qui si uniscano quei di S. Canziano, ed assieme vadano a S. Maria, ove celebri il vicario d’Ovaro, riservandosi a lui dell’offertorio solo 12 soldi. Di lassù tornino a S. Martino. Preceda le altre la croce di Zovello, segua prima quella della Pieve, poi quella di S. Giorgio, quindi quella di S. Canziano (di queste due, un anno preceda una, l’altr’anno l’altra), e dietro vengano quelle di S. Matteo, S. Giacomo, S. Giovanni di Sopraponti, se non si troverà consuetudine in contrario. Giacomo Agarinis, alfiere della milizia, con un caporale ordinerà la processione a due o più per fila, colle corone in mano fin a S. Martino. Qui celebrerà il vicario di Luincis, pagato con un legato dei de Colle di Muina, e dell’offertorio non abbia che soldi 12. Dopo la messa il cameraro darà a ciascuna delle famiglie intervenute un pane del peso di due oncie e mezza bozza di vino. Ai preti un pane ed un boccale di vino. I merighi dovranno notificare il numero dei fuochi esistenti nelle loro ville, e quali famiglie mancarono, e ciò sotto pena di L. 6:4 (not. G. B. Spinotti - carta della Pieve).

La negligenza dei capi, l’accidia dei fedeli e forse anche beghe fra gli intervenuti fecero ricadere anche quest'ultimo richiamo all’unità dei popoli gortani.

Il 7 settembre 1710 Carlo Pantaleoni vicario generale dell’abazia è giudice tra i governatori ed i vicarii della Pieve riguardo alle modalità e spese della rinunzia e conferma triennale. Sedici anni più tardi è in visita Bernardino Angelo Serlio, altro vicario abbaziale (c. Pieve).

Addì 24 marzo 1729 Daniele Delfino, patriarca eletto ed abate di Moggio, ad istanza del cameraro e governatori di S. Maria intima ai curati di Monaio, Rigolato e Sigilleto di dover (in pena di marche tre e sospensione a divinis) recarsi come di consuetudine ab immemorabili nel sabato santo ad assistere alla benedizione del fonte battesimale e dei ceri pasquali (c. Pieve).

Nel 1756 i comuni delle due cure di S. Maria decisero di trattenere ai loro vicarii il salario se, dopo riammoniti, continuavano nel ritardar la messa parrocchiale, le confessioni e la publicazione e adempimento dei legati (c. Pieve).

Nel 1777 venne soppressa l'abazia di Moggio, e Gorto restò senza pievano. Don Gio. Batta Gortano vicario di Luincis ebbe il 5 marzo il titolo di Preposito, titolo destinato a passare poi di uno in altro per ordine di anzianità negli altri curati del Canale, che quind’innanzi presero stabilmente il nome di parroci (Reg. can. di Luincis). Passato per due o tre, anche il titolo di Proposito venne abolito.

Il 6 aprile 1781 i procuratori della Pieve fecero un ricorso contro i curati (Sched. Wolf). Trattavasi dell’intervenire alla funzione del sabato santo. Quei benedetti curati eran proprio trascuranti. Un po’ di dolor di ventre o di testa, malati in parrocchia, il zoppicar del cavallo, l’accennar di voler piovere, eran ragioni fortissime e sempre pronte per restarsi a casa. I decreti e le sentenze antiche non valevano più. E non valse soverchio nemmeno il ricorso. Ed i parrocchiani di S. Maria dovettero rassegnarsi a non veder più alla cara Pieve le maestose funzioni d’un tempo, il poetico arrivo di tanti popoli, di tante processioni.

La bella solennità dell’Assunta fu crudemente rotta, l’anno 1541, da una rissa, che nata non si sa come né perché né da chi, assunse proporzioni terribili, ed il colle della pieve parve un campo di battaglia. Vi presero parte con diverse armi Giorgio di Runchia coi figli Nicolò, Giovanni e Bulcone (ossia Volfango). Leonardo, Giacomo e Daniele Peu di Chialina, Giovanni fu Francesco di Mione, Giacomo di Lorenzo delli Zuanni di Mieli, Domenico di Pustetto di Comeglians, Pietro de pe de Villa pure di Comeglians, Giovanni fu Nicolò Fabro di Raveo, Adamo e Pietro di Bernardino Avalino, Tomaso di Mosoleto di Enemonzo, Odorico de pe de Villa abitante in Esemon di sopra, Giovanni Mattia di Trava, Giorgio di Osualdo Giorgio di Fusea, Giovanni Merletto di Lauco, Leonardo di Pietro Zilli di Viaso, Leonardo di Floriano Giovanni Paolo d'Invillino e Leandro suo figlio, Giuseppe Claugna di Venzone, Domenico Giovanni de Corte di Rigolato. Furono citati come complici anche Giovanni di Quelsadorno di Rigolato, Antonio Flermanni, Dosio Bacinelli e Giovanni Bacinelli di Mione detto Galiot nonché Leonardo ed Antonio fratelli Chiandoni di Ludaria; ma questi cinque poterono provare la loro innocenza.

Bulcone di Runchia vi lasciò la vita, Leonardo di Floriano d'Invillino fu talmente conciato che ne morì pochi giorni dopo. Della morte di questo furono incolpati i primi undici Gortani sopra enumerati; ma difesi dal celebre giureconsulto udinese Tiberio Deciani vennero prosciolti dall’accusa d’omicidio e furon condannati tutti (e specialmente Leonardo e Giacomo Peu ed il Pustetto) per ferimenti. La morte di Leonardo fu poi apposta a Matteo di Palù di Monaio, il quale venne condannato in contumacia al bando perpetuo dalia Carnia. L’uccision di Bulcone da Runchia fu attribuita a Leandro d'Invillino il quale poté scolparsene, ma perché ne avea pur ferito più d’uno venne condannato in lire 50 e bandito per due anni. Anche gli altri undici si ebbero multe per i ferimenti dati. Onde è da credersi che la battaglia sia stata addirittura feroce e ben grande il numero dei malconci. (Archiv. munte. Tolmezzo - Libro di raspe).

La brutta tragedia avrà poi dissuaso più d’uno dall’intervenire alla più bella festa della Pieve. Ma fu un caso unico, il quale non può toglierci dal pensare che il convenire di tante genti lassù avesse in se dell’attraente, del morale ed una forza eminentemente civile. L’adunarsi per funzioni e cerimonie care al cuore di tutti dovea essere come il ritornar periodico − tanto più dolce quanto meno frequente − di molti membri d’una famiglia per una festa amata. Nessuna istituzione umana parla tanto di fratellanza all’animo, quanto le funzioni religiose. Ed i popoli di Gorto inginocchiati nella loro Pieve doveano sentirsi popoli fratelli. Ed usciti sul sagrato, la cui terra era ed è terra fatta delle ceneri degli avi di tutti i Gortani, pregava ognuno per l’anime dei morti di tutti, spingendo il suo amore fino a quelli che non aveva mai conosciuti né veduti, ma che eran cari a quelli che lì insieme con lui pregavano pei morti loro ed anche per i suoi.

Finite le preci formavansi gruppi e cappannelli a dirsi e ripetersi le novelle dell’ultima veduta, rinverdivansi amicizie vecchie, se ne formavano delle nuove; e quei che forse non sapevano d’essersi mai veduti, dato e ricevuto il saluto, avviavano fra loro quella schietta e franca e cordiale conversazione, che tanto naturalmente sgorga dall’indole gortana.

NOTE AL CAPO I.°

Dall’Archivio Arcivescovile di Udine (Vol. I. Spiritualium Mosacensium) ricaviamo questi regesti che indicano la dipendenza in spiritualibus della Pieve di S. Maria di Gorto e delle sue antiche filiali da quella celebre abbazia.

L’interesse storico di questi regesti sta specialmente nella abbondanza di nomi dei titolari della Pieve e delle filiali predette.

Canale di Gorto - in spirit. sotto Moggio.

1466. 9 giugno — Pr. Ioannes Istrianus officians in Ecclesia S. Georgii... in Canali da Gorto è a Moggio per le feste della Dedicazione della Chiesa di S. Gallo. (Arch. Arciv. Spirit. Mosac. I. c. 3).

1466. 26 giugno — Pr. Donato Vicario di Gorto (ivi c. 9).

1467. 8 gennaio — Il Vic. Gen. di Moggio Fr. Leonardo nomina Pr. Donato Vicario di S. Maria della Pieve di Gorto, Arcidiacono di Gorto (ivi c. 25).

1467. 9 giugno — Pr. Giovanni di Zadra officiante in Gorto (ivi c. 51).

1467. 9 giugno — Vacando per la morte di Pre Nicolò il Vicariato della Pieve di S. Maria di Gorto, il Vic. Gen. di Moggio, nomina al detto Vicariato Pre Matteo figlio di Antonio da Lovaria (ivi c. 51).

1467. 7 ottobre — Presbiter Benedictus de Parma noviter institutus ad curam et plebem S. Marie da Gorto (ivi c. 61).

1467. 7 ottobre — Vacando l’Arcidiaconato e Vicariato di S. Maria di Gorto, per privazione di Pre Donato, viene nominato dal Vic. Gen. di Moggio Pr. Benedetto q. Francisci de Scipionibus da Parma (ivi c. 62).

1468. 9 gennaio — Pre Benedetto officiante in Villa de Luincis, viene citato per pagare questo dare a Pro Giorgio da Glemone canonico di Cividale (ivi c. 67).

1468. 23 gennaio — Il Vic. Gen. di Moggio ordina che nella Chiesa di Santa Croce di Luincis si tenga il processo matrimoniale tra Giacomo di Teudo di Givigliano e Maddalena di Nicolò Vitali di Forni Avoltri! (ivi c. 76).

1468. 28 gennaio — Pre Giorgio beneficiato in Canali Pedarcio dal Vicario Gen. di Moggio viene nominato Arcidiacono di Gorto delegato a visitare e riformare le Chiese e le persone ecclesiastiche, tenere i Placiti, trattare le cause matrimoniali, e le cause riguardanti usure, sortilegi, legati a cause pie ecc. ecc. con l’obbligo di pagare ogni anno nelle feste di S. Gallo al monastero di Moggio una marca di soldi in riconoscimento dalla superiorità. Ed obbliga gli affittuarii, i tributarii e censuarii sotto pena di scomunica a pagare questo denaro all’Arcidiacono (ivi c. 79).

1469. 28 febbraio — Il Vic. Gen. di Moggio investe dell'Arcidiaconato di Gorto Pr. Giovanni Regal di Venezia officiante in Forni Avoltri (ivi c. 81).

1469. 12 gennaio — Il Vic. Gen. di Moggio investe Pr. Pietro de Alemannia diocesis (Frisinghensis) del Vicariato della Pieve di S. Maria di Gorto.

1469. 12 gennaio — Il Vic. Gen. di Moggio investe Frate Cristoforo monaco officiante in Ovaro del Vicariato della Pieve di S. Maria di Gorto (ivi c. 81).

1469. 18 marzo — Il Vic. Gen. di Moggio ordina sotto pena di scomunica a Pre Pietro e Fr. Cristoforo Vicario della Pieve di S. Maria di Gorto di dare il Crisma alla Chiesa di S. Matteo di Monaio filiale di S. Maria di Gorto (ivi c. 82).

1469. 3 luglio — Il nuovo Vicario Gen. di Maggio Fr. Michele della Tor de Tarvisia Canalis Villaci Plebanus Motii, nomina Arcidiacono di Gorto Pr. Giovanni di Amaro beneficiato in Canali de Gorto (Spirit Mosac. I. carta volante in fine di mano posteriore).

Ovaro sotto Moggio in Spiritualibus.

1466. 9 giugno — Pr. Nicolaus officians in Ovaro è a Moggio per le feste della dedicazione della Chiesa di s. Gallo.

Comeglians sotto Moggio in Spirit.

1466. 20 giugno — Presb. Ioannes officians in Ecclesia SS. Georgii de Comeglians. (Arch. Arc. Spirit. Mosac. I. 9).

1466. 20 giugno — Il Vic. in Spirit. dall’Abazia di Moggio Fr. Leonardo decide alla presenza di Pre Donato Arcid. di Gorto e di Pre Paolo officiante in Cercivento, che Pre Giovanni da Trieste officiarne beneficiato nella Chiesa di S. Giorgio di Comeglians debba celebrare in detta Chiesa tutte le Messe alle quali è tenuto e poi una domenica del mese nella Chiesa di S. Giacomo di Rigolato ed un’altra domenica nella Chiesa di S. Matteo di Monaio, e così nelle feste degli Apostoli purché non cada la dedicazione di qualche Chiesa o qualche funerale (ivi c. 9.)

1466. 8 agosto — Comeglians — Inventario dei mobili e vesti, e nota delle spese per i funerali di Pr. Virgilio Vicario di S. Giorgio di Comeglians (ivi carta volante tra le c.. 9 e 10).

1467. 2 dicembre — Vacando la Cappella di S. Giorgio di Comeglians nel Canale di Gorto, il Vic. Gen. di Moggio, nomina a Cappellano Pre Antonio Voneti de Livgoma provincia di Francia diocesis Divionensis, presentato dagli uomini di Comeglians (Spirit. Mosac. I. c. 64).

CAPO II. - La Chiesa di S. Maria.

Gli avvanzi del castellare romano dovettero fornire i materiali per la costruzione della Pieve di Gorto, e forse se ne utilizzò anche qualche parte di muro, e specialmente quel di cinta e sostegno dal lato di ponente. I frammenti d’iscrizione trovati lungo il selciato che conduce alla chiesa, furon giudicati resti d’epoca antica, e «curiosi ancora nella loro rozzezza informe» sono i due busti scolpiti nel tofo (puddinga) che adornano il muro del sagrato e che accennano ad un’arte rudimentale e forse preromana. Una specie di corona di foglie, che forma l’acconciatura della testa, ricorda quella conservata in certe monete galliche trovate a Zuglio (Marinelli - Guida della Carnia, ed. 1908). È supponibile che più volte la sommità di questo colle da due lati inaccessibile abbia servito da rifugio a’ tempi d’invasioni barbariche, forse vi si rafforzarono, come meglio poterono, gli abitanti vicini, quando al mancar della milizia romana, il castellare dovette restar vuoto, ed essi dovettero pensar da soli a sé stessi.

Quando sia stata costrutta quassù la prima chiesa non si sa. Ho già detto di creder vi fosse prima del tempi d’Ermanno di Luincis. Certo vi era nel 1372. (Perg. Forni Avoltri). Fin dal 1370 vi era un altare dedicato a S. Daniele, ed il 29 luglio di quell’anno Fra Marino vescovo Cedronense concedeva 40 giorni d’indulgenza a chi lo visitava (perg. Pieve).

Il Grassi nelle sue notizie della Carnia dice che il 16 marzo 1401 Nicolò Ferrolesi di Luint venne investito da Antonio Panciera vescovo di Concordia e abate commendatario di Moggio di beni feudali nelle ville di Mione e di Ovasta, coll’obbligo di riparare la Fabbrica della Chiesa di S. Maria di Gorto e la Chiesa dei Santi Giovanni e Stefano della Pieve medesima.

Il Nait portando questo regesto lo dice meritevole di quarantena non constandogli che l’abbazia a que' tempi fosse convertita in commenda, né che il Panciera ne fosse abate. Inoltre il Grassi non cita le fonti della notizia da lui data, e non si trovano ricordati beni dell’abbazia in Mione e Ovasta. Lo stesso Grassi voleva far passare per vasca da battesimo per immersione la grande scafa in pietra, nella quale conservavasi anticamente il molto olio, che contribuivasi in forza di legati. Divulgò pure l'idea, comunemente accettata, che il piccolo villaggio di Cella abbia ricevuto questo nome dall’abitarvi due frati di Moggio destinati ad ufficiar nella Pieve e ad esercitar la cura d’anime nella vallata. A sostegno di questa idea non vi è altro che il nome di Cella, e questo nome così solo dice troppo poco. Per abitarvi due frati occorreva qualcosa di più d’una semplice cella, ed il luogo avrebbe dovuto chiamarsi, se mai convento o romitorio o con qualche altro più appropriato. Chiamasi Cella un villaggio in Forni di sopra ed uno in Verzegnis, e non v’è memoria che v’abbiano abitato frati. Ritengo più vicino al vero il credere che il nome di Cella sia stato dato a tali località perché forse vi si trovava il deposito delle decime od altre contribuzioni in natura alle quali erano tenuti gli abitanti. In questo caso il nome sarebbe stato dato nel senso suo più naturale.

Poco in su ascende la parte nota degli officianti in S. Maria, ma vi si vede subito, che di frati vi è appena vestigio. Inoltre la pieve e più antica dell’abbazia, almeno come cura, e deve credersi avesse per pastori preti e non frati. E ritenendo (come mi par più naturale) che fin dal principio o non troppo più tardi fosse sul colle la Pieve, prima ancora che ne divenisse pievano l’abate di Moggio; mi sembra non si possa dubitare che nella piccola conca appié del colle, dove ridividevansi i popoli, non vi fossero mancate delle abitazioni con qualche necessaria osteria, un gruppo di case insomma, che non avrà aspettato la supposta venuta dei frati di Moggio per avere un nome. Si aggiunga che, se residenza abituale degli ufficianti fosse stata Cella, sarebbe stato più naturale li avessero chiamati vicarii dal lato di Cella, mentre, ogniqualvolta è da distinguersi dagli altri quel che abitava sulla destra del Degano, lo si chiama sempre vicario dal lato di Luincis. E benché l'attuale canonica di Luincis abbia l’aspetto d’essere costruita nella seconda metà del secolo XVI od al più tardi nella prima del seguente, non si trova memoria scritta la quale ci faccia sospettare che in alcun tempo il vicario abbia abitato altrove.

Chiudendo questa digressione, che mi è parsa necessaria di fronte ad un’opinione accettata comunemente, ma troppo alla leggera, torno alle vicende della chiesa.

Questa verso il 1430 venne incendiata, ed il 13 aprile 1431 il cameraro della Pieve e due rappresentanti del comuni affidarono a mastro Stefano quondam Simone di Mena, l’incarico di ricostruirla per 68 marche aquileiesi ed un paio di scarpe. (Gortani - Canal Pedarzo; Guida della Carnia). Ma forse il lavoro non si fece che più tardi, perché una pietra incastrata esternamente porta la data 1464. Che verso questo anno si lavorasse intorno la chiesa si ha un argomento anche in legati fatti nel 1471 pro coopertura ecclesiae sanctae Mariae de Gorto (Wolf ex perg. Pieve).

Sul colle presso alla parrocchiale esistevano anche le chiese di S. Giovanni, S. Elena e S. Michele. Chiamavansi chiese, ma doveano essere cappelline assai piccole. Nel 1534 Nicolò e Lorenzo quondam mastro Ropil di Stejermarck fecero una cua alla chiesa di S. Giovanni. La fraterna di S. Michele ed Elena aveva lassù anche una sua casa ricordata il 12 settembre 1557.

Del 1567 è un quadro rappresentante la Madonna col Bambino S. Gio. Battista e S. Pietro, dipinto da Giuseppe Furnio di S. Vito, quadro che tuttora vedesi alla Pieve. Anche questa come tante altre chiese parrocchiali aveva la sua tomba per i sacerdoti avanti l’altar maggiore, come si legge nell’alto di morte del vicario Luchini (1614). Verso il 1630 il cameraro riscuoteva annualmente gli affitti o legati annui venete lire 440:12 (carte Pieve).

Essendo stato vietato di tener banchi di ragion privata nella Pieve, per lasciar la chiesa libera da impacci, che nascerebbero dal continuar nell’uso di quelli, ch’erano stati fatti da alcuni particolari per loro comodità, li 8 decembre 1665 i sindaci della confraternita di S. Michele e S. Elena «per diversi rispetti... et in riguardo della sua matura età et impotenza» concedono a Francesco Foschiano di poter «accomodarsi a sua elettione drio l’ Banco della confraternita predetta giacente avanti l’altare del sacratissimo Rosario, overo drio l’altro ai piedi del Banco delle Candele, et che possa beneficiarsi in vita sua a beneplacito, et non altro» (carta lacerata della Pieve).

Li 11 ottobre 1671 Valentino Rupil riceve L. 24 per caparra di scandola pel tetto della chiesa di S. Michele e S. Elena. Il 14 agosto 1674 viene allogata a Zuane Pittone d’Imponzo l’opera di indorar gli angeli e le figure dell’altare di S. Giovanni eretto appresso la Veneranda Pieve.

Fin dal 24 settembre 1655 un Cristoforo Grifo da Venezia «si obliga di dare, e consignar finito in tutta perfettione... in tempo di mesi due un’organo col tremulo, flauto, sette registri, et con tutti gl'altri annessi, per prezzo di ducali cento ottanta correnti, e quello condurre, e mettere nella Chiesa di Ovaro in Cargnia» (cioè nella Pieve. - Carta P). Nel 1682 Gio. Batta Spinoto avea suonato l'organo per lungo corso di tempo a S. Maria, e la somma di lire 118:16 ricevute per ciò dal cameraro le impiegò nell’ acquisto della pace d’argento, che i governatori della chiesa mai avevan voluta comprare.

L’anno 1687 vide sorgere la chiesa di Loreto sopra Muina, che ebbe però breve durata.

Il 28 luglio 1700 ad un’ora avanti giorno cominciò la terra a tremare, e, andando il terremoto facendosi sempre più forte, pareva giunto (come scrisse Don G. Ellero curato di Lauco) il giorno del Giudizio. I danni nella Carnia furono gravissimi. Nella cura di Luincis perirono schiacciati sotto le rovine delle loro case atterrate Giacomo Micoli di 30 anni col figliuoletto Mattia di tre mesi, Mattiussa di 7 anni e Giacoma di 4, figlie di Natale Feranda abitante a Muina; Leonardo di 12 e Pasqua di 14 figli del sig. Giacomo Ruis di Agrons. L’Ellero afferma che «la Ven. Pieve di Gorto vide con sue gravi rovine il total diroccamento della chiesa della B. V. del Carmine sopra Muina. Ovaro, Mione, Cella, et altri luoghi di detta Pieve furono gravemente travagliati nelle case de’ particolari, con morte di diverse persone soffocate dalle rovine». L’Ellero è troppo sommario nella sua relazione. Il patriarca Dionisio Delfino venuto in visita un anno dopo il disastro ordina che «debba esser risarcita la Veneranda Chiesa e suo Campanile della Pieve dirocata e dirocato dal Teribile Terremoto.... Che sieno demolite le tre Chiese rouvinate dal terremoto sopra il cemeterio, et l’altari di queste siano trasferiti nella visina Parochiale, dovendo conservare li materiali in luoco decente con sopra una croce, perché apparisca luoco sacro, o pure conseruarli nel cemeterio: che con questi materiali sia fatta una sacristia dietro l’Altare Maggiore, o in. quella parte che si crederà più opportuno» (c. Pieve).

Pare si debba in realtà ritenere che i guasti alla parrocchiale non fossero tanto grandi, mentre quei delle tre chiesette, probabilmente costruite con muro più debole, dovettero esser ben rilevanti, se si decretò la demolizione totale di tutte tre. Anche il campanile quantunque robustissimo avea fortemente sentite le tremende scosse, imperciocché era «da aggiustare La faciatta uerso mezanote cioè di retirare drentro la muraglia aconsentita e sfasa, cioè dalla Tera sino alle Campane et rinouare gli rivolti Cornisone et Balconate fare lotangolo et Pignia di motone di alteza un terzo di più del corpo del Campanile». Mattia Canciani di Piano si assunse di far questo lavoro per ducati 200 di maestranza «e alquanta segala che si trova nel banco della Pieve». I governatori poi dovean mantenere ai suoi ordini tre manovali e provvedere tutto il materiale necessario. Il Canciani poi dovea garantir l’opera per dieci anni, salvo disgrazie di fulmini e terremoti (carta Pieve).

Ma, trattandosi di sottostare a spese, eran nate controversie tra le borgate. Riguardo al restauro della chiesa occorse un decreto del Gastaldo di Tolmezzo, che ordinò sotto pena di lire cento che i comuni si convocassero al luogo solito per dar il comparto alla contribuzione. Liariis e Muina ricusavano di concorrere pel restauro del campanile (ma forse dissentivano solo quanto al modo di restaurarlo), Il cameraro ed i rappresentanti delle ville soggette alla Pieve volevano che al riatto del campanile provvedesse il Quartiere ossia l'amministrazione civile dell’intera vallata. Il Quartiere non volea saperne di tale spesa, se ne avviò lite; e, poiché questa minacciava di andar per le lunghe, i governatori della chiesa decisero di adoperar per intanto denaro di questa, senza pregiudizio però del proseguimento della lite. Come poi questa andasse a finire non si sa.

All’esterno la Pieve presenta un aspetto di severa e venerabile antichità, ed a chi vi entra si mostra di aspetto moderno. Tal colore deve esserle stato dato nel restauro fatto dopo il memorabile terremoto sopprimendo lo stile gotico in uso nelle chiese antiche.

CAPO III. - L’Arcidiaconato.

Il primo documento noto che parli dell’arcidiaconato di Gorto è un atto del 4 decembre 1344. È il prete notaio, che, in un’assunzione di testi riguardo ad un legato, dice: «Coram me notario presbitero Carisinano, vicario in Archidiaconatu de Gorto venerabilis viri domini Gilberti Abbatis Mosacensis». (perg. Luincis).

Da quando esisteva questo Arcidiaconato? chi avealo istituito? chi era l’arcidiacono?

La Pieve di Gorto era stata data all’abazia senza il diritto di tenervi placiti, ossia d’esercitarvi la giurisdizione arcidiaconale. Credo debbasi tenere la sentenza del Nait, il quale afferma che l’arcidiaconato nostro fu un parto spurio dell’abazia. Egli sostiene che gli abati, secondando la tendenza ad allargare la giurisdizione propria, abbiano introdotto arbitrariamente questa nuova carica. Di fallo si parla prima d'un arcidiaconato di Gorto, e dobbiamo aspettar sessant’anni prima di trovar memoria di placiti, od altri quaranta innanzi che compaia un arcidiacono col suo bravo nome.

Di placiti in Gorto parlasi per la prima volta il 4 gennaio 1404. Gli abitanti del Canal Pedarzo non volevano intervenire ai placiti, e l'abate Tomaso de' Cavalcanti pretendeva per ciò una multa d’un soldo per fuoco. I Canalotti ne sporgono gravame: ma l'abate col capitolo dei frati decide (giudice in causa propria) che debbano pagare 40 soldi all'anno all’arcidiacono che terrà il placito (not. Flanduno di Gemona — Coll. Gortani).

A scanso di malanni peggiori e di spese per aver giustizia, quei di S. Canziano avranno finito coll’adattarsi anche a questa angheria; ma il fatto della loro riluttanza all’intervenire ai placiti indica che questi eran per loro una novità e che non vedevano nell’abate il diritto d'introdurla.

È però cosa degna di nota che quanto è finora conosciuto dei placiti tenuti dall’arcidiaconato di Carnia non ne presenta uno solo che abbia avuto luogo nella vallata gortana. Come può spiegarsi il fatto? L’abate di Moggio, pievano di Gorto, era sotto certi rapporti qualcosa di più del semplice arcidiacono e dei vicari-diaconi di Carnia, e perciò questi, o per deferenza o più probabilmente perché capivano troppo bene come una eventuale loro sentenza contro il pievano di Gorto non sarebbe stata di leggeri subita e l’esigerne un’esecuzione forzata avrebbe suscitati vespai, procurati grattacapi e nessun vantaggio al giudice, visitando la Carnia cominciarono a lasciar in disparte Gorto. E così all’abate restò libero il campo di fare, disfare, sentenziare ed istituire come agli parve meglio.

Abbiamo veduto l’abate concedere cappellani, frazionare la sua pieve, esonerare da obblighi, imporne degli altri, sentenziare fra preti e popoli. La semplice autorità di pievano non poteva portar tanto, egli agiva di fatto per sé o per mezzo dei suoi vicarii da vero arcidiacono senza portarne il nome. Era lui perfino quando trattavasi di costruir chiese nuove. Così Rodolfo diede licenza il 9 aprile 1391 a quei di Osais di costruir la loro di S. Leonardo, ed il 24 aprile 1430 il Cavalcanti concedeva a quei di Sostasio di edificare la chiesa di S. Gottardo. Il 15 febbraio 1490 dava a Don Giorgio di Parma l’investitura del beneficio di S. Canziano con tutte le formalità canoniche. Tenendo per sé il giudicare delle cose di maggior importanza, diede poi anche il nome d’arcidiacono a quello dei vicarii curati, ch’era incaricato di tenere i placiti, come chiaro risulta dal seguente regesto, che tolgo di peso dal Nait, pag. 106:

1442, 9 aprile. Luincis, P. Simone pievano di Moggio, vicario sostituto dal Rev. Antonio de Nordis Vicario Generale dell’Abate commendatario di Moggio, investe dell’arcidiaconato della pieve di S. Maria di Gorto p. Flumiano officiante in detta chiesa, che altra volta lo aveva rinunciato; riservate tuttavia le cause matrimoniali e le altre cause gravi (Ioppi, ex Nicolao de Paculinis not. de Venzono; Bolla d’inivest. in Arch. Arcid. di Tolmezzo).

E siccome a bove maiore discit arare minor, pare che anche l’arcidiacono di Gorto, seguendo i metodi dell’abate suo padrone, tendesse ad allargare i propri poteri entrando un po’ fin nel campo dell’autorità civile. Difatti il 7 maggio 1451, avendo il Gastaldo della Carnia per ordine del Luogotenente di Udine inibito a tutti di recarsi dall’Arcidiacono di Gorto per far giudicare le loro cause, ed avendo i procuratori del Canal di Gorto supplicato per il ritiro di tale inibizione; il Luogotenente la ritira, rimettendo le cose nello stato e grado primiero circa le cause spirituali, ma non affermando, sì bene revocando che l’arcidiacono di Gorto possa condannare alcuno in giorni festivi di alcun litigio fatto (ex Bart. Ianise not. di Tolm., Nait p. 106).

Il 17 ottobre 1475, Fra Leonardo Priore e Vicario dell’abazia di Moggio scrive al Gastaldo e Consiglieri di Tolmezzo lamentandosi che, mentre un tempo dimostraronsi figli fedeli della chiesa di San Gallo, adesso agiscano contro di essa e della sua giurisdizione spirituale. «Imperciocché, come abbiamo saputo, in questi giorni avete fatto sequestrare sotto pena di lire 25 al venerando diletto nostro fra Giovanni le entrate ed i redditi nell’arcidiaconato della Valle di Gorto presso i camerari debitori; perciò maggiormente ci meravigliamo ed in certo modo non potemmo credere queste cose. Perciò vi esortiamo in Cristo ed in virtù di santa obedienza che vogliate e dobbiate levare tali sequestri; avvertendovi che, se lo stesso fra Giovanni ha fatto qualche cosa contro di voi ed in offesa della giurisdizione vostra, siamo pronti a rivocare tutto ciò».

Il domani il Gastaldo, Cameraro e Consiglio di Tolmezzo rispondono: «Abbiamo ricevuta la lettera della Paternità Vostra portataci dal venerabile fra Giovanni beneficiato in Canal Pedarzo ed ivi asserto arcidiacono.... Quanto al sequestro di fra Giovanni, sappia la paternità vostra che noi udimmo moltissimi reclami, provando dispiacere pei modi, coi quali disonestamente esso fra Giovanni ha agito ed agisce nell’ufficio suo con usurpare la giurisdizione nostra.... Abbiamo udito che il detto fra Giovanni non fa ciò che gli spetterebbe per il suo ufficio, ma la fa da giudice quasi generale delle cause temporali fra i laici, scrive mandati, impone pene, tormenta gli uomini per pene illecite ed immeritate in cause, delle quali non dev’essere giudice, toglie pegni, usa molte insolenze, e s’arroga un ufficio che non gli spetta. Siamo disposti a prestar favore ed aiuto in ciò che s’appartiene all’ufficio dell’arcidiaconato, e non vogliamo in alcun modo sopportare quelle cose ch’egli fa e non tocca a tal ufficio. E perciò aderendo ai predetti richiami, avendo compassione dei poverissimi nostri distrettuali.... affinché esso fra Giovanni non perseveri nel suo proposito, desista da quanto ha cominciato, e rimetta allo stato primiero ciò che ha iniziato, abbiam fatto sequestrare i suoi beni, e vogliamo che restino sequestrati finch’egli abbia restituito quanto ha estorto agli abitanti e rievocato quanto ha fatto in pregiudizio della nostra giurisdizione» (ex registr. litt. Com. Tulm. Coll. Gortani — V. Nait, p. 106).

Il Nait, nel sostenere che l’arcidiaconato di Gorto è di origine illegittima ed intrusa, osserva anche che «la stessa Abazia, finché sussistette, non trovò conveniente di noverarlo fra gli officii da lei dipendenti, riconosciuti dall’autorità patriarcale», e cita in prova l’elenco da lei presentato al Sinodo Diocesano del 1595, ed altrettanto afferma riguardo ai posteriori.

L’ elenco addotto suona così:

In Vicariatu Modii:

  • Presbiter Petrus Locatellus Vicarius Curatus
  • Camillus Andriussius Curatus Resiutae
  • P. Michael Morandinus Curatus Resiae
  • P. Mathias Michael Curatus Clausae
  • P. Joseph Bernardis Curatus Pontabiae
  • P. Franciscus de Tomasiis Plebanus Cavatii
  • P. Blasius Prodoruttus Curatus Amari
  • P. Nicolaus Morandinus Plebanus Osopii
  • P. Jo. Baptista Tramelich Curatus Peonis
  • P. Antonius Joaninus Plebanus Ignani
  • P. Franciscus Riga Curatus Noiaretti a Corniz
  • P. Blasius de Tomasii Curatus Flaibani
  • P. Franciscus de Thimeu Vic, Cur. Plebis S. Mariae Gorti residens in villa Luincis
  • P. Franciscus Luchinus Vic. Cur. supradictae Plebis residens in Ovaro
  • P. Leonardus Miraius Curatus S. Georgii
  • P. Sebastianus a Pietra Curatus Rigolali
  • P. Dominicus Bergognini Curatus Sigilletti
  • P. Bartolomeus Vinotolus Plebanus Sappatae
  • P. Nicolaus de Threu Curatus Monaii
  • P. Valentinus Merica Curatus Cerciventi
  • P. Mathias d’Augustinis Curatus Canalis S. Canciani.

Praemissa politia sacerdotum exercentium curam animarum sub Vicariatu Modii concordat cum alia consimili praesentata occasione Sinodi Dioecesanae Ill.mi et Rev.mi D.D. Francisc. Barbari anno 1595 existen. in hoc Archivio Patriarchali. Ita est. Jo. Baptista Coronella Cancellarius Patriarchalis Aquilejensis (ex Archiv. Arciv. di Tolmezzo.Nait, p. 108-109).

(Qui, per togliere un’inesattezza sfuggita al Coronella e fatta pubblica dal Nait, osservo di passaggio che la data 1595 apposta al documento è certamente errata e devesi porre in vece sua l’anno 1605, nel quale fu dal patriarca Barbaro tenuto un altro sinodo diocesano. Senza far il giro di troppe parrocchie, si noti che a Luincis nel 1595 era vicario Don Gio. Pietro Corvetta, che vi si trova dal 3 marzo 1587 al 22 novembre 1603, e Don Francesco Timeus comincia 13 febbraio 1604; ad Ovaro dal 1595 al 1602 è un Don Giacomo Mirai, gli succede Don Vito Fabris, il 19 aprile 1604 la vicaria è vacante, e poi si presenta il Luchini. A Prato troviamo dal 14 aprile 1595 al 28 agosto 1598 Don Francesco Cleva, il sinodo fu intimalo il 16 agosto 1595, e Don Matteo Agostinis compare nei registri al 6 gennaio 1603).

È evidente che, qualora fosse stato legittimo ossia riconosciuto dall’autorità patriarcale, l’arcidiaconato avrebbe dovuto costituire un gruppo di sacerdoti a parte, un vicariato foraneo a sé. Invece Don Leonardo Mirai, che troviamo chiamato arcidiacono dal 1604 al 1612, qui non è segnato se non come semplice curato di S. Giorgio.

Certo il fatto che uno dei vicarii curati di Gorto chiamavasi arcidiacono e teneva placiti, non poteva essere ignoto alla curia patriarcale; ma poiché, quantunque non canonicamente costituito in autorità, tale arcidiacono faceva quanto difficilmente avrebbe potuto far l’abate troppo lontano, si dovette giudicare opportuno lasciar che la cosa passasse.

Esiste nell’archivio parrocchiale d'Ovaro un libro di resoconti de placiti, che va dal 1616 al 1684. È assai misera cosa. Il più delle volte i giurati della cristianità non han nulla da riferire, spesso non si curano di comparire, le poche accuse portate innanzi si riducono a qualche infrazione di leggi puramente ecclesiastiche.

Una cosa affatto nuova, e che, essendo a corto di documenti, non saprei come spiegare, trovo nell'anno 1693. Essendo morto il 12 marzo di quell’anno l’Arcidiacono Daniele Carlevaris, vicario di Ovaro, il 5 aprile i capitani di Gorto elessero in loro arcidiacono Don Giovanni Fedele, curato di S. Giorgio, e costituirono il notaio Giacomo Mirai loro procuratore per la presentazione al patriarca Giovanni Delfino. (not. Gio. Bat. Gonano. A.N.U.). Ciò mi ha sapore di un tentativo di svincolarsi un po’ da Moggio, e d’invadere un campo che deve restare esclusivamente religioso. Probabilmente questa nomina non ebbe effetto. Don Giovanni Fedele morì il 6 febbraio 1702, e trovasi Don Francesco Danelone col titolo di Arcidiacono fin dal 10 aprile 1695.

La soppressione dell’abazia doveva portare anche la caduta dell'arcidiaconato qual era istituito. Don Gio. Batta Benedetti, che chiamavasi arcidiacono fin dal 1757, nell’atto di morte (5 setr. 1780) è detto un tempo Arcidiacono del Canal di Gorto. Avendo però quella soppressione portata la necessità d’un nuovo ordinamento nel campo ecclesiastico, l'arcivescovo Giovanni Girolamo Gradenigo conservò o (per dir più esattamente) legittimò l’arcidiaconato gortano come vicaria foranea per le nostre parrocchie.

Il turno per anzianità fissato pel titolo di preposito, si crede passasse, per concessione o accondiscendenza del superiore, ad avere luogo nella nomina degli arcidiaconi. Le eccezioni che si potrebbero opporre a questa regola vengono facilmente spiegate con supposte rinunzie alla prerogativa da parte di qualche parroco già troppo vecchio.

Quest'ordine turnario però, a tacere d'altri, portava l’inconveniente che la sede arcidiaconale poteva andare a finire alle più lontane estremità. Così, mentre anticamente gli olii santi distribuivansi sempre dai due vicarii della Pieve, dopo, essendosi voluto far passare tal distribuzione come di spettanza dell’arcidiaconato, vedemmo radicalmente (a dir poco) far trottare fino a Cercivento per nevi e ghiacci tutti i messi di Gorto e quelli della lontana Sappada per avere ciò che con molto minore spesa, e senza tanti disagi di tanti, poteasi avere altrove.

Ma venne il I gennaio 1912, ed un decreto arcivescovile, «tolti affato i confini, i diritti e le dipendenze di qualsivoglia sorta vuoi personali vuoi territoriali» dava una sistemazione nuova dei vicariati foranei, e nominava vicario foraneo «Sac. PETRUM CECONI, pro parociis de Comeglians - Gorto - Luincis - Frassenetto - Monajo - Ovaro - Prato Carnico - Rigolato - Sappada, cura de Pesariis, et ipsarum filialibus». La parrocchia di Cercivento, benché contro i desideri di qualcuno, veniva assegnata alla circoscrizione, per essa tanto più comoda, che avea a vicario il parroco di Paluzza.

Il decreto stesso toglieva al pievano di Luincis anche il privilegio concessogli il 30 marzo 1810 di far il funerale ai parroci della vallata.

Il 9 aprile 1912 moriva Don Pietro Ceconi, parroco ed Arcidiacono di Comeglians; e con lui è pure morto od almeno caduto in catalessi anche l’Arcidiaconato di Gorto.

CAPO IV. - Sappada e Cercivento.

Con buona venia di chi fece apporre nel coro della Pieve la scritta: TITVLVS - PLEBIS MATRICIS - TOTIVS CANALIS, SAPATÆ - ET CERCIVENTI - CELEB: DIE XV AVGVSTI, io penso che la derivazione della parrocchia di Sappada dalla Pieve sia meramente probabile, e che dalla stessa pieve siasi staccata quella di Cercivento, mi pare cosa insostenibile.

La popolazione di Sappada, gente di ceppo tedesco immigrata in epoca non nota, può esser passata ad abitare la conca attuale dopo d’aver conosciuto ed abbracciato il cristianesimo, e continuando a parlare tedesco, e mantenendo relazioni vive col vicino Tirolo, avrà molto spesso, se non sempre, cercati là i suoi sacerdoti. E quei poveri preti avran tirato innanzi alla meglio in quell’isolamento con ben poche relazioni coll'autorità ecclesiastiche.

Quanto abbiamo finora veduto della cura di Gorto, ci dice abbastanza chiaro che molto leggeri potevano essere i legami che univano quel paese alla Pieve. Non è ricordato tra quelli pei quali dovea l’abate provvedere il sostentamento, non tra quelli che doveano intervenire a funzioni od a placiti. Il libro degli affitti o censi per legati non li abbraccia.

C’è la tradizione che li fa portare i morti a S. Maria venendo fuori pas Planas. Son tutt'altro che disposto a gettare tutte le tradizioni in fascio tra i ferravecchi. Ma questa nimis probat ergo nihil.

Che i Sappadini abbiano abbracciata la religione cristiana per opera dei sacerdoti della vallata gortana, e siano quindi stati soggetti a questi per buon tratto di tempo, cioè fin quando poterono da soli aversi un prete, è cosa naturalissima ma non provata, e se di fatto ebbe luogo, ciò dovette essere in tempi ben remoti, anteriori almeno al secolo XIV, prima cioè delle memorie scritte, che in Gorto possediamo.

Il 23 maggio 1440 compare come teste in un atto presbiter Joannes et monacus de Alemania officians et habitans in Sapada (not. Bartolomeo Desiderio - A.N.U.).

L’investitura data a Don Flumiano nei 1442 parla di arcidiaconato della pieve di S. Maria di Gorto. Quando nel 1451 il Gastaldo proibì di recarsi all’arcidiacono per far giudicare cause, a far ritirare tal proibizione si presentano i procuratori del Canale di Gorto.

Addì 9 giugno 1466 «il vicario abbaziale ordina a don Giovanni Blanzate pievano di Tolmezzo di presentarsi alla residenza per iscusarsi di un atto giurisdizionale da lui compito in qualità di arcidiacono della Carnia, contro il curato di Sappada, che dipende direttamente dall’abate» (Benef. Mosac. v. III. Archiv. Arciv. di Udine - Pag. Fruil.). Il 14 «Don Giovanni Blanzate scrive al vicario abaziale, e si scusa dicendo che, per essere da poco tempo pievano di Tolmezzo, ignorava che il Canale di Gorto e la curazia di Sappada erano sogetti alla giurisdizione dell’abate» (ibid.).

Se è grottesca la figura del Blanzate, che la fa da giudice senza sapere fin dove giunga la propria autorità; più interessante sarebbe il conoscere su quali fondamenti poggiava l’abazia i suoi diritti su Sappada.

Delle relazioni di questa con S. Maria abbiamo il primo cenno in una pergamena della Pieve al 26 giugno 1493. Il documento volgarizzato suona così: «Nella villa di Cella presso la chiesa di S. Stefano. Essendo che anticamente gli uomini della villa di Sappada ebbero dalla chiesa di S. Maria della Pieve di Gorto i Sacramenti della Chiesa, cioè il Crisma e l’Olio Sacro, e i detti uomini erano obbligati a dare certa quantità di formaggio per metà alla pieve medesima ed ai sacerdoti di essa chiesa; ed essendovi adesso errore riguardo alla detta quantità di formaggio; maestro Nicolò Sartore cameraro della chiesa di S. Margherita di Sapada promise di dare e corrispondere annualmente nel sabato santo, per i detti sacramenti da riceversi, a Endrico della vila di Ovasta cameraro della Chiesa di S. Maria di Gorto cinque libbre di formaggio buono ed onesto, e d’altra parte i detti uomini siano tenuti a dare ai detti uomini di Sapada i soprascritti sacramenti senza alcuna altra spesa». E questo è tutto ciò che si sa della dipendenza di Sapada dalla Pieve a quei tempi: cioè di ricevere da essa il S. Crisma.

E se un pievano arcidiacono di Tolmezzo non sapeva a chi fosse soggetto Gorto; non pare improbabile che qualcuno dei curati succedentisi in Sappada ignorasse a qual arcidiacono era soggetto: e così un po’ alla volta gli abati, che dominavano in Gorto, avranno potuto intromettersi anche in quel paese.

Per nulla probabile apparisce la smembrazione di Cercivento dalla Pieve di Gorto. Non è verosimile che, mentre il Canal di S. Pietro, nel quale si trova Giulio Carnico, dovette per primo venir evangelizzato, Cercivento avesse dovuto aspettare lo zelo di quei di Gorto, e a quelli dovesse in sulle prime correre per i necessarii soccorsi spirituali. Ma comunque fosse in sul principio; quando nel 1119 la Pieve di Gorto fu data all'abate, o Cercivento già era pieve a sé, o certo non dipendeva dalla Pieve nostra, altrimenti l’abate si sarebbe tenuto per se anche quel quartese lasciando anche a quel popolo l’onere di formare altro salario, se voleva aversi un prete.

Ora non consta che Cercivento abbia pagato mai quartese a Moggio; sì bene lo paga al sacerdote suo2.

Al 7 ottobre 1416 «P. Nicolò da Tolmezzo, pievano d’Ampezzo e vicearcidiacono della Carnia, nella chiesa di S. Martino di Cercivento superiore assume le informazioni dei giurati del placito della cristianità». (Nait, p. 83 - ex orig. quint. Placit. Christ. in Archiv. Arcid. Tolm.).

Il Nait porta questo fatto come prova che l’arcidiacono della Carnia esercitava l’autorità sua nella Pieve di Gorto. Credo d’andar più presso al vero tenendo che Cercivento non avesse che vedere con Gorto, che qui si trattasse d’un vero atto di giurisdizione dell’arcidiacono in territorio suo per diritto e per consuetudine.

All’istanza 1451, 7 maggio, non prendono parte quelli di Cercivento.

Il priore fra Leonardo parla di redditi nell'arcidiaconato della valle di Gorto. Pare quindi doversi tenere che a quei tempi l’arcidiaconato s’estendesse solo quanto la vallata gortana.

E questi documenti ci dicono chiaro che se Cercivento non dipendeva dall’arcidiacono di Gorto, avea però la dipendenza diretta dall’abate di Moggio e dal suo vicario in spiritualibus3.

Un atto che mostra la dipendenza di Cercivento da Moggio lo si ha al 25 marzo 1540. In questo giorno è convocala la vienila delle due ville in certo prato detto di Centa presso il cimitero della chiesa di S. Martino. «Poiché ne' giorni passati il predetto cameraro con alcuni altri verbalmente diedero commiato al venerabile signore prete Battista de Gasperis, officiante e curato nel predetto luogo, perché sloggiasse dal luogo presbiterale.... e poi a nome de' comuni stessi fecero presentare al prete medesimo un mandato in forma... e per questa causa Romano della Bada e Pietro Pit comparvero come sindici della chiesa e dei Comuni davanti al Reverendo Vicario dell’Abazia di S. Gallo di Moggio o suo sostituto.... tuttavia per maggior cauzione tutti i soprascritti vicini uomini e concordi.... costituirono sindici, attori, procuratorii e nunzii dei comuni stessi e della chiesa, i provvidi uomini Romano della Bada, Baldassare Felesia, Candussio Morassio e Pietro Pit..., in tutte le cause e liti massimamente in tal causa mossa contro detto Pre Battista per occasione come sopra...» (Piemonte, Pievani d’Illeggio, ex fascic. Maso d’Englaro, Chiesa di Cerciv.).

Da ciò si comprende che l’autorità abbaziale si era installata nella cura di Cercivento in antecedenza agli anni 1464; nei quali anni regnò gran confusione nell’esercizio dell’arcidiaconato della Carnia. Sembra poi certa la non mai avvenuta incorporazione di Cercivento all’arcidiaconato di Gorto, perché non vediamo mai intervenire alcuno dei suoi curati o padroni ai placiti di Gorto.

Quanto poi al titolo di curato dato al sacerdote di Cercivento invece dell’altro più esatto di Pievano, non credo debba farsi gran caso. È noto che anticamente non andavasi tanto pel sottile riguardo a questi titoli specialmente quando trattavasi di paesi secondarii.

Un pre Nicolò che era a Cercivento il 18 gennaio 1417 e li 11 febbraio 1418 porta solo il titolo di ufficiante.

Né seria difficoltà la si avrebbe nel fatto del licenziamento di Don Battista de’ Gaspari, che, dato il vero carattere di beneficio alla parrocchia, non avrebbe potuto aver luogo. La dipendenza in spiritualibus dall’abazia portava a questa il diritto di destinare ad nutum et beneplacitum suum il sacerdote curato, il quale quindi, benché investito di un beneficio ecclesiastico vero e proprio, era amovibile dal posto ad arbitrio del superiore. Così vediamo praticato nel nostro Friuli per tanti secoli dal Capitolo di Cividale che ha suoi vicarii amovibili ad arbitrio suo.

Questo diritto dall’autorità ecclesiastica è passato per abuso molte volte anche nelle popolazioni che vantavano od avevano veramente il diritto di patronato nella nomina dei loro sacerdoti.

L'imperizia e la condotta non sempre encomiabile dei sacerdoti di quei tempi, divenuti tali senza un corso regolare di studii, rendevano certo poco desiderabile alle popolazioni il venir legale ad uno di essi forse per quanto viveva. L'autorità patriarcale, .specialmente nei luoghi distanti, dovea farsi sentire assai poco, ed, anziché provvedere prontamente alle chiese rimaste vacanti, nei casi di prebende poco grasse, avrà molto spesso lasciata ai popoli la cura di cercarsi un pastore. E così il popolo di Cercivento trovato uno desideroso di quel posto, l'avrà eletto ponendo e facendo accettare quelle clausole, che davangli il mezzo di disfarsene, qualora l’eletto non gli avesse garbato. Con ciò non faceva che introdurre ciò che praticavasi in Gorto e nel vicino Sutrio; e con ciò si spiega anche il fatto del licenziamento di Don Battista dei Gaspari.

Con la soppressione dell'abbazia (1777) anche Cercivento cessò di dipendere da Moggio e ritornò sotto la dipendenza di quell'autorità patriarcale a cui era soggetta prima del sec. XV, riprendendo i suoi. sacerdoti quel titolo di pievani a cui aveano diritto per la loro antica indipendenza da altre pievi contermini, come ci sembra sufficientemente avere dimostrato.

CAPO V. - Serie dei Vicarii di Luincis e di Ovaro.

Diamo qui una serie cronologica dei Vicarii che si succedettero nella cura d'anime della Pieve di Gorto, dividendoli in Vicarii di Luincis e di Ovaro conforme alla sede di qua o di là del Degano a cui erano assegnati, mettendo in colonna speciale con sede ignota quelli di cui non si conosce positivamente la dimora. La serie purtroppo, causa la scarsità dei documenti, non è completa. Saremo grati agli amici e studiosi se ci dessero il modo di completarla.

Serie dei Vicari di Luincis e di Ovaro

Vicari di Luincis Vicari con sede ignota
1336.25.03     Artussio        
1339.27.11              
        1356.04.12   Bonifacio
        1362.26.04 1378.01.09 Valtero di Zovell
        ………   Nicolò
        1370.29.07   ……tino
        1383.02.03   Bruno
        1392.15.07   Giovanni Pistoria
        1409.13.08   Ghirardo tedesco
        ………   Domenico detto Bruno
        1451.08.05   Bartolomeo da Rimini
        1430.24.04   Barnaba
        1442.09.04   Flumiano
        1451.09.01   Nicolò Zenarii
1448.23.01     Bertolomeo di Bologna        
1449.26.09              
1467.09.06   Pre Matteo di Antonio da Luceria        
        1467.14.10   Donato di Toscana
1467.07.10   Fra Benedetto da Parma q.m Francesco de’ Scipioni        
1469.12.01   Fr. Pietro di Alemannia diocesis Frisighensis        
        1476.07.12   Alovisio da Venezia
        1476.08.12   Domenico Coidesse da Cavazzo
        1488.06.05   Andrea Fanense
        1502.19.04   Antonio Simotto di Amaro
1505   Riccardo        
        1511.19.06 1514.28.02 Bertrando Rubeo di S. Daniele
        1514.28.02 1516.16.09 Fra Cornelio di Amari
        1516.16.09   Facino di Legnidis
1524.21.02   Meriano di Castro Aliano        
1541.21.02   Acazio Gattolini da Portis        
1544.06.07   Daniele da Gemona        
1549.09.03   Antonio Mozullo        
1551.02.07 1557.07.01 Pietro de Remondinis di Ampezzo        
1557.20.04 1558.29.09 Giovanni Valino da Raveo        
1568.12.04   Gio. Antonio Parusatto da Midiis        
1577.04.10 1578.04.08 Bartolomeo        
1587.03.03 1603.22.11 Gio. Pietro Corvetta, maestro di filosofia        
1604.13.02 1635.07.04 Francesco Timeo di Ovasta        
1636.17.07 1636.21.08 Pietro Mauro (Moro di Nojariis?)        
1638.24.10 1642.25.04 Giovanni Fabris, poi pievano di Forno di sotto        
1642.07.06 1673.01.06 Giacomo Picot di Ovasta        
1678.01.06 1688.26.07 Francesco de Franceschi di Mione        
1688.31.08 1717.30.01 Francesco Danelone di Feltrone        
1717.12.05 1719.18.04 Gio. Leonardo Danelone da Feltrone        
1719 1743.31.03 Giacomo Candriella, canonico di Pedena        
1743.26.08 1790.30.08 Gio. Battista Gortano di Luincis        
1791.27.08 1826.28.02 Gio. Battista Dario di Lauco        
1827.24.06 1837.24.12 Gio. Battista Grassi di Formeaso        
1839.13.10 1863.30.07 Leonardo Mazzolini di Fusea, pievano        
1864.04.08 ……….. Mariano Lunazzi di Verzegnis, pievano        
        1900   Luigi Rossi di Socchieve, vicario sostituto
        1912   Vincenzo Rainis di Sostasio, vicario sostituto

Vicari poi parroci di Ovaro

1339.27.11 1344.04.12 Carismano notaio
    1345.18.04  
1420.31.08   Cristoforo da Talmassons
1466.09.06   Pre Nicolò officiante in Ovaro
1467.07.10   Pr. Mattia officiante in Ovaro
1469.12.01   Fra Cristoforo monaco
1490.25.02   Luisio
1523.27.11 1524.18.01 vacanza
1531.22.09 1565? Francesco Carlevariis da Luincis
1563.19.01   Giovanni di Piazza
1569.12.04   Giovanni di Tavosco
1579.22.09   Leonardo Mirai da Lenzone
1591.26.08   Camillo Andriussi
1595 1602 Giacomo Mirai da Ovaro
1602.23.02 1603 Vito Fabris di Muina, poi curato di Sopraponti
1604.16.08 1614.18.02 Francesco Luchino di Qualso
1614.23.03 1616.15.09 Giovanni Agostinis di Sostasio
1617 1667.29.10 Gio. Battista Chiassani di Enemonzo
    1660-1666 Andrea Giorgis di Mione coadiutore
1667 1693.12.03 Daniele Carlevariis di Chialina
1694.16.05 1721.21.07 Giovanni Beorghia di Trava
1722 1756.10.08 Lorenzo Gussetti di Rigolato
1756.26.12 1780.05.09 Gio. Battista Benedetti di Ampezzo
1781 1819 Giovanni Mazzolini di Fusea, parroco
1820 1839 Gio. Battista De Caneva di Liariis
1842 1854 Giovanni Mazzolini di Fusea
1857 1893 Giovanni Lunazzi di Verzegnis
1894 1912 Osualdo Della Negra di Trava
1913   Pietro Giorgis di Mione

Arcidiaconi di Gorto

1442   Don Flumiano, vicario di S. Maria
1466   Pre Donato
1468.28.01   Fra Giorgio di Canal Pedarzo
1469.28.02   Fr. Giovanni Regol da Venezia offic. in Forni Avoltri
1469.03.07   Fr. Giovanni da Amaro vic.
1475   Fra Giovanni, vic. S. Canziano
1516 1535 Don Leonardo Agostinis, vic. di S. Canziano
1542 1544 Don Acazio Gattolini, vic. di S. Canziano
1551 1553 Don Francesco Carlevaris, vic. di Ovaro
1604 1612 Don Leonardo Mirai, curato di S. Giorgio
  1616 Don Giovanni Agostinis, vic. di Ovaro
1617 1633 Don Gaspare Vescovello, cur. di Sopraponti
1634 1667 Don Gio. Battista Chissani, vic. d’Ovaro
1669 1693 Don Daniele Carlevaris, vic. d’Ovaro
? 1592   Giovanni Fedele, cur. di S. Giorgio
1699 1717 Don Francesco Danelone, vic. di Luincis
1718 1751 Don Gio. Battista Fedeli, cur. di S. Giorgio
  1757 Don Gio. Battista da Pozzo, cur. di Monaio
1757 1777 Don Gio. Battista Benedetti, vic. di Ovaro
1787 1816 Don Gio. Battista Gussetti, cur. di Rigolato
  1820 Don Fedele Tavosco-Fedeli, cur. di Monaio
1820 1830 ………………… pievano di Cercivento
1830 1858 Don Leonardo da Pozzo, parroco di S. Giorgio
1858 1874 Don Pietro Antonio Trojero, parroco di S. Canziano
1875 1900 Don Mariano Lunazzi, pievano di Luincis
1900 1905 Don Pietro Puppini, piev. di Cercivento
1902 1912 Don Pietro Ceconi, parr. di S. Giorgio

  1. «A quei tempi, e per molto tempo dopo, la chiesa pievanale veniva detta chiesa battesimale, per l’ovvia ragione, che nelle altre chiese della pieve, anche quando cominciarono a diventar curate, il battistero ancora non era concesso, dovendo tutti prendere il battesimo alla matrice; alla quale restò questo nome appunto perché da essa tutti i fedeli della pieve traevano la vita spirituale col santo Battesimo.
    Per le ville dipendenti dalle pievi si andavano costruendo fin da tempi antichissimi delle chiesuole, che fin d’allora ebbero il nome di cappelle. Venivano esse edificate acciocché quel dato paesello avesse un luogo di preghiera, massime per quei fedeli che o per distanza o per infermità o per altri motivi non potevano andare alla matrice; ma d’ordinario non vi si amministravano Sacramenti. E anche per le campagne lungi dall'abitalo se ne costruivano, or dalla devozione degli abitanti o di qualche privato, ora per voto, ora per penitenza con cui qualche tirannello o signorotto procurava di espiare i suoi delitti.
    Per erigere qualsiasi di queste cappelle, doveva essere il consenso del pievano e il permesso dell'autorità patriarcale, giacché sotto la costoro dipendenza e giurisdizione doveva rimanere; anzi questi spesso venivano in aiuto somministrando i mezzi per l’erezione. E appena fatta l’erezione, la nuova cappella veniva tosto dotata, consacrata, adornata, illuminata e stabiliti ì giorni di officiarla; giacché i fondatori a tutto questo si obbligavano. La cappella poteva avere anche un apposito cappellano, pagato per quegli obblighi che gli s’imponevano sotto la dipendenza del pievano; ma però queste cappellanie non avevano ancora l’obbligo di cura d'anime, che rimaneva tutta al pievano a al suo vicario; e questi veniva o mandava a turno nelle ville a funzionare.
    Dovette venire ben presto la necessità di dividere il peso della cura, specialmente per causa delle distanze, quando a tanto territorio più non bastava il pievano né da solo né col suo vicario. Allora alcune delle cappelle già esistenti furono scelte a sede di altri vicarii fissi, i quali attendessero alla cura d’anime in una determinata parte di quella pieve, e in quei limiti e per quelle ville che venivano specificatamente assegnate. E perché questi vicarii venivano in questo modo addetti ad una cappella, furono detti dapprincipio cappellani.
    La sede di questi cappellani curati veniva scelta preferibilmente in luogo che non fosse troppo distante dalla Chiesa matrice, e che fosse abbastanza alla portata per recarsi nelle sue filiali, ed anche che fosse più popoloso degli altri. Se non vi era cappella, o se era insufficiente, si edificava. Si preparava pel prete la casa, più tardi detta canonica. Il pievano, se aveva abbondante beneficio, ne assegnava una parte fissa pel cappellano, ed egli stesso lo nominava e lo investiva. Chi fondava la chiesa o dotava il beneficio, poteva facilmente ottenere come patrono il diritto di presentazione del prete, che veniva poi investito dallo stesso pievano. E tutto questo si faceva colla sanzione patriarcale.
    Restava però sempre almeno parte di quel quartese a beneficio del pievano. I sacri canoni hanno costantemente osservata questa regola, che alla Pieve come a matrice continui a prestarsi quest’onore e questo riconoscimento reale.
    Doveva alla stessa serbarsi anche l’onore e il riconoscimento personale, che consisteva nel dovere del popolo di accedere a quella chiesa in certe solennità dell’anno, con l’intervento del clero a certe funzioni. Anche i vescovi aveano il dovere di ossequio verso il metropolita e a mantenerlo vivo doveano ogni anno visitare la metropolitana. Così le pievi la loro cattedrale.
    Cosi andava vieppiù sviluppandosi quell’ammirabile ordine gerarchico che, quantunque molteplice nei gradi, era destinato a conservare la più compatta unità nella chiesa.
    »
    Così, con profonda erudizione storica locale, tratta delle pievi e delle antiche cappellani in Friuli il mio venerato maestro Mons. Giacomo Marcuzzi nella sua monografia La Parrocchia di Reana del Roiale ed i suoi Rettori pag. 8-9. Ho voluto riferire questa lunga nota perché essa ci spiega mirabilmente come era formata anche la nostra antica Pieve e come sorsero le filiali ad essa soggette. 

  2. Il Nait, forse a corto di documenti, dice che la prima notizia riguardo alla giurisdizione abaziale su Cercivento sarebbe la seguente:
    1501, 22 decembre. Giovanni Squarano, pievano di Gemona e vicario generale dell’abbazia di Moggio, va a Tolmezzo col suo cancelliere e vi tiene tribunale per assolvere da scomunica Baldissaro cameraro di Cercivento (Tessitori, ex manuacriptis).
    A parte che questa notizia va accolta con riserva in quanto che Giovanni Squarano non fu mai pievano a Gemona, essendo che quella pieve fu tenuta dal 1497 al 1531 da un Teodoro Coda, e lo Squarano è ricordato come semplice cappellano nel 1496, (Vale - I Pievani e gli Arcipreti di Gemona); dai sopradetti documenti apparisce che ben prima del 1501 Cercivento era soggetto in spiritualibus all’abbazia di Moggio.
    Ciò pare evidente anche dal fatto che le relazioni in quell’epoca tra il sacerdote officiante a Cercivento e l’abate di Moggio od il suo vicario generale sono sempre dirette, senza inframmettenza alcuna dell’arcidiacono di Gorto.
    Nel 1466 il 9 giugno certo Pre Paolo officiante in Cerzuvint è a Moggio per la dedicazione della Chiesa di S. Gallo (Arch. Arciv. Spirit. Mos. Vol. I. c. 3).
    Nello stesso anno, il 28 giugno, fra Leonardo, vicario generale dell’abate di Moggio, visita la Chiesa di S. Martino di Cercivento. che nei muri e nel tetto minaccia rovina, ed ordinò di provvedere assolutamente alla sicurezza di detta Chiesa, tanto più che seppe dal Cameraro che eranvi in cassa 25 marche (ivi c. 10).
    Nel 1467 il 29 aprile. — Vacando la Capella Curata di S. Martino di Cercivento per dimissione di Pre Paolo, dal Vic. Gen. di Moggio a cui spetta la nomina per antica consuetudine, viene eletto Pre Martino de balio da Potenza (ivi c. 38).
    E nel 1469 il 24 agosto, il Vic. Gen. di Moggio investe Pre Marino della Capella di S. Martino di Cercivento (ivi c. 82)

  3. È da notarsi però che Cercivento fino dal sec. XV. pagava l'affitto del quartese a Moggio, e veniva pagato dal Comune. Ecco che cosa si legge nel Rotolo dell'Abbazia di Moggio esistente nella Bibl. Arciv. «Cercivento. — Comune de ditta Villa de dar per fitto del quartexe forono L. 5 da cordo cun Monsignor de turzello».
    Per comprendere questa nota si sappia che l’Abbazia di Moggio nel 1448 avea avuta una questione per i quartesi di alcune ville ad essa soggette, questione demandata dalla s. Sede al giudice delegato il vescovo di Torcello, San Lorenzo Giustiniani. (Vedi lettera autografa dello stesso Santo in bibliot. Arcivescovile Monumenta Ecclesia Aquileiensis sec. XI. ad XVI. tom. I. msc. c. 9). — Il fatto però che questo affitto era sì misero, indica che piuttosto dobbiamo ritenere si trattasse di un canone o livello annuo che il Comune di Cercivento pagava verso l’Abbazia come riconoscimento di sudditanza in spiritualibus