Enrico Agostinis

 

LE ANIME E LE PIETRE

Storie e vite di case e casate, di uomini e famiglie. Piccolo grande zibaldone della villa di Culina in Cargna

Avvertenza e modalità d’uso

(leggere attentamente prima di … leggere)

Agognato lettore,

nel momento in cui scrivo, non so in quale veste grafica tu mi stia leggendo, se libro “vero” o il solito samizdat 1.

Che “cosa” tu abbia per le mani, non so. Ma se mai questa “cosa” che sto scrivendo ora divenisse un giorno un libro (un libro vero, intendo, con un titolo vero, copertina, editore, lettori veri), se mai lo divenisse, dico, dovrà a ogni costo mantenere queste righe che – mi rendo conto – difficilmente troveranno apprezzamento al di fuori del cerchio di diffusione di analoghi samizdat, appunto.

Se questa “cosa” dunque vedrà la luce, mi piacerebbe definirla un “libro ipotetico”. Non fuggire, amico lettore! Non ora! Aspetta almeno che ti illustri che cosa puoi trovare (e non trovare) qui dentro, libro o samizdat che sia.

Libro ipotetico, dicevo, nella duplice veste di ipotesi di libro (libro o samizdat?) e di libro d’ipotesi (perché in larga parte fondato su ipotesi: storiche, anagrafiche, etimologiche). Ipotesi per descrivere, certo, ma anche e soprattutto per comprendere – o almeno per tentare di comprendere – storia, gente, significati, valori di una intera seppur piccola comunità.

Allora, ambito e amico lettore, se sei giunto sin qui e non chiudi queste pagine per passare ad altro (ma, per favore, non alla TV…), se sei pronto a far rotta fra case e fienili, fra vivi e morti, fra nomi e date e cifre, è giusto e opportuno che anche tu sappia e conosca. Non segreti o misteri disvelati, né rivelazioni o verità di fede, o d’altro ancora: una confidenza, piuttosto, o una confessione.

Una minuscola confessione, sì, a liberarci di un fardello per noi davvero ingombrante, perché ciò che ti appresti a leggere, amico lettore, è soltanto un minuscolo topolino, figlio di una grande montagna. Proprio così!

Questo lavoro prese avvio intorno al 1986. Indubbiamente, non vi abbiamo lavorato per tre lustri: vi abbiamo tuttavia lavorato durante tre lustri. In questi anni è naturalmente successo di tutto, nel mondo e nella vita di noi tutti. In un lavoro come questo, poi, anche il luogo comune più vieto (“la vita continua”) assume un significato tutt’altro che trascendente: altri nati, altri morti, matrimoni, altra “gente”.

L’attività, avviata con obiettivi circoscritti, con il tempo è cresciuta e si è via via orientata su traguardi sempre più ambiziosi, fino a diventare una specie di leviatano omnicomprensivo, ingovernabile e ingestibile dagli stessi apprendisti stregoni che incautamente vi avevano messo mano. Stregoni che, nel frattempo, tentavano anche di condurre ciascuno un’esistenza “normale” fra casa, lavoro (quello vero), e ben poco d’altro. Nel corso degli anni, il lavoro ha avuto i suoi alti e bassi: progressi e risultati, ma poi anche i conti con la fatica, il tempo sempre più avaro e le risorse sempre più limitate, fino a perdere per strada importanti pezzi di sé e rischiare il declino e l’estinzione, così, per stanchezza o sfinimento.

E allora?

E allora, basta così! Chiudiamo questo capitolo, forse poco gloriosamente rispetto ai progetti ambiziosi di qualche anno fa ma almeno con un poco di decoro, non fosse altro che per dare un minimo di senso a tutto il tempo, le risorse, le energie spese in tre lustri di lavoro. Chiudiamo qui per non diventare vecchi con il materiale che – anche lui! – invecchia nelle nostre mani. Chiudiamo per mettere un punto fermo. Chiudiamo per riaprire (forse) domani.

Così fatto, il risultato sembrerà forse un poco schizofrenico, e in alcune parti sospeso fra ciò che avrebbe voluto essere e ciò che invece è. In effetti è proprio così: non ho potuto (né saputo, né voluto) reimpostare e riscrivere tutto daccapo. In alcune parti il lavoro sembrerà opera di quattro mani: così era infatti, e così è rimasto, anche a testimonianza (e riconoscenza e gratitudine nei confronti di chi vi ha preso parte) dell’enorme attività di ricerca, in gran parte condotta a due teste e quattro mani.

Dietro questo topolino c’è dunque una montagna davvero inimmaginabile: una montagna di documenti, di trascrizioni, interpretazioni, ricerche, verifiche, ricostruzioni, congetture, riscontri. Un lavoro qui in buona parte invisibile, e che avrebbe meritato ben altra sorte che questa. Un lavoro forse in parte sprecato, ma che tuttavia ho ragione di ritenere non del tutto inutile: questo topolino che i lettori si ritrovano per le mani è pur figlio di quella montagna che lo ha partorito. Senza montagna e senza topolino, della storia di questo paese, della storia di Collina e della sua gente non resterebbe né il tanto né il poco, ma ci sarebbe il nulla o quasi che c’è stato finora.

Dunque, si poteva certamente fare di più, e di meglio, ma…

… ma, negli intricati e talvolta labirintici percorsi di questa storia solo apparentemente minore, nei viottoli stretti fra nomi e case e casate, non nascondiamo di esserci anche molto divertiti.

Speriamo ora anche voi.


  1. Samizdat = stampato da sé, dal russo sam = sé, e izdatelstvo = editoria. Così era definita la letteratura clandestina che, per lo più dattiloscritta artigianalmente e in pochissime copie, circolava altrettanto clandestinamente e quasi di mano in mano nell’Unione Sovietica.
    Questa definizione della “cosa” che state per leggere risale alla prima stesura, a tempi non sospetti e comunque di molto anteriori alle vicende editoriali che ne hanno sfortunatamente caratterizzato gli ultimi anni. Fosse esperienza o lungimiranza, fui comunque (facile?) profeta: la fantasia di allora – in parte scherzosa in parte forse scaramantica – è la realtà di oggi.
    Ecco dunque il semi-samizdat, ed eccone le ragioni.
    Evento abbastanza inconsueto nel panorama dell’editoria locale per soggetti di questa natura, la stampa di questo volume non è il frutto di alcun contributo o finanziamento: non enti, non sodalizi, non sponsor. Soprattutto, non il “naturale patrocinatore”. Semplicemente, ‘i vin fat bessùoi, abbiamo fatto da noi.
    Tutto ciò non rappresenta certamente un titolo di merito – o di demerito – per questo volume, né per chi l’ha scritto o stampato: è semplicemente un dato di fatto, a sua volta conseguente a una scelta, una risoluzione tutt’altro che indolore e, soprattutto, tutt’altro che aprioristica. Al contrario.
    Uno dei moventi nell’immaginare prima e nel creare poi questa “cosa” è stato lo spirito di servizio, termine un tempo abusato e oggi ingiustamente obsoleto nel linguaggio, e ancor più nei fatti. Non la sola motivazione, naturalmente (dove mettiamo il diletto, o anche l’onnipresente autogratificazione?), ma certamente una spinta importante e soprattutto autentica, alla ricerca di radici comuni e di un comune sentire da condividere con i potenziali lettori-interlocutori.
    Abbiamo a lungo atteso e sperato (ma l’inconsapevole anticipazione del termine samizdat era evidentemente premonitrice!) che lo stesso spirito di servizio trovasse posto nelle istituzioni, almeno in quelle più vicine ai possibili e più probabili fruitori di questo lavoro. Per un anno e più abbiamo sperato e atteso dall’istituzione un impegno e una risposta che andassero oltre la forma e la facciata.
    Abbiamo atteso e sperato. Di ritorno, abbiamo puntualmente ottenuto null’altro che silenzio prima, indifferenza e burocratica sufficienza poi; al punto che il faşìn bessùoi! si è imposto come passaggio obbligato per dare a chi è interessato (c’è, ci siete voi che state leggendo) la possibilità di leggere o accantonare, apprezzare o detestare, lodare o esecrare, fare insomma ciò che più gli aggrada di questo libro, e ciò in tempi non biblici né ministeriali.
    Della indifferente burocrazia, davvero, non mette proprio conto parlare. Escluso il dolo (tuttavia un noto uomo politico, assai navigato e presumibilmente buon conoscitore dell'ambiente, sosteneva che a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si indovina…) è pur vero che, sovente, ignavia e insipienza fanno più guasto del dolo stesso.